Società

Ragioni oggettive a favore dei fratelli no vax

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Premesso che chi scrive ha fatto il suo dovere vaccinale, è fuor di dubbio che chi non vuole vaccinarsi e si oppone al controllo del lasciapassare ha dalla sua parte delle ragioni oggettive fra le quali possono essere messe in evidenza le seguenti:

 

1) il consenso informato da firmare all’atto di vaccinarsi, in mancanza di una legge che fissi dettagliatamente gli obblighi dello Stato verso il vaccinando e i suoi congiunti in caso di eventi avversi prossimi o venturi, lascia il cittadino in balia di tali eventi e scarica di responsabilità lo Stato, il quale però, pur in una situazione di sperimentazione sanitaria di massa quale non si nega essere da parte di molti competenti in materia quella attualmente in corso, obbliga di fatto al vaccino con la misura amministrativa ex post del lasciapassare. Questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

2) si afferma che il vaccino serve a evitare la malattia grave che richiede il ricovero in ospedale. Ciò significa che si dà per scontato che la malattia si diffonda e persista a bassa intensità nella maggioranza della popolazione, ma senza predisporre alcun significativo potenziamento dell’assistenza medica a casa che resta carente o inesistente. Lo Stato quindi fa il calcolo minimo di evitare l’allarme sociale e il costo economico del sovraccarico ospedaliero, lasciando che il cittadino se la sbrighi privatamente nel caso più che probabile, anche quando vaccinato, che la malattia lo colpisca sebbene in forma non grave o mortale. Anche qui, questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

3) posto che la strada delle cure (monoclonali, immunosoppressori) è stata sostanzialmente scartata perché ritenuta troppo lenta rispetto all’obiettivo di rimettere in moto al più presto l’intero ingranaggio della vita sociale, e posto che lo stesso vaccino non sembra poi l’arma infallibile contro l’insidioso virus, non c’è stata e non c’è alcuna seria possibilità di scegliere fra i vari tipi di vaccino (mRNA, vettoriale, proteine) in sperimentazione non solo in paesi “reprobi” come Cuba, Russia e Cina, ma anche nel blocco dei “virtuosi” paesi occidentali. Si è alimentato invece un dibattito fittizio tra marchi (Astrazeneca vs. Pfizer), impedendo di fatto un’informazione obiettiva e completa su tutte le opzioni possibili, lasciando che tutto fosse regolato da dinamiche economiche riconducibili a pochi, salvifici monopoli farmaceutici. Tutto ciò ancora una volta non può che aver generato sospetto e sfiducia;

 

4) non è mancato e manca solo il dibattito scientifico su opzioni effettive e non fittizie, ma ancor più manca un dibattito serio su come uscire dalle “situazioni di guerra” causate dalle ormai ricorrenti pandemie. Al contrario, la fuga dalle responsabilità, i ragionamenti grettamente utilitaristici, la riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, le contrapposizioni schematiche rispondenti più al marketing che al dibattito democratico, non fanno che ribadire la grande divisione tra uno Stato nella sua essenza autoritario e un cittadino relegato nella sua privatezza, la cui àncora di salvezza per entrambi è un’economia che si rimetta a regime quanto prima per poter continuare a stillare quelle ormai sempre più grame risorse necessarie a tenere in vita un’organizzazione sociale di cui da tempo si è più prigionieri che protagonisti.

 

Tutto ciò considerato, sembrano eccessive e spropositate le misure che vengono minacciate per coloro che non intendono vaccinarsi e sottostare al controllo del lasciapassare. Privare qualcuno del lavoro e dello stipendio è come spedirlo in prigione senza neanche volergli passare il vitto dell’amministrazione carceraria. Se si vogliono adottare misure così estreme, ci si assuma la responsabilità di leggi chiaramente discusse ed emanate, senza più far ricorso a decreti che producono solo rabbia e frustrazione. O è proprio la rabbia e la frustrazione che si vogliono alimentare, per poter ricorrere al pugno di ferro che ribadisca i presupposti indiscutibili dell’ordine vigente?

Zan! Ed è subito gender

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Il punto cruciale del ddl Zan è l’identità di genere, tanto è vero che i machiavelli di Italia Viva per fare la “mediazione” stanno proponendo di tagliarla, dando anche il contentino alla Chiesa del rispetto dell’autonomia scolastica. Ma che cos’è l’identità di genere? Nella teoria di genere, elaborata in ambito accademico anglosassone a contatto con i gruppi LGBT e poi diffusasi un po’ ovunque nel mondo liberal e progressista occidentale, l’identità di genere si basa sulla tesi secondo la quale ogni individuo possiede un’identità di genere interna che in certi casi può non corrispondere al sesso biologico della persona. È decisiva dunque l’opposizione tra interno ed esterno, tra ciò che è percepibile e ciò che non è percepibile con i sensi. Basta aggiungere a questa tesi che ciò che è percepibile con i sensi è il finito e ciò che non è percepibile è l’infinito per riconoscere in essa l’impronta del vecchio Hegel, il quale appunto sosteneva che il finito non ha vera realtà poiché ha il suo fondamento nell’altro da sé, cioè l’infinito, l’immateriale, il pensiero, con la conseguenza che, se il finito ha per essenza l’altro da sé, per essere essenzialmente sé, esso non dovrà essere più sé, cioè il sé che è in apparenza, il suo essere finito, bensì l’altro, ovvero infinito. Il sesso biologico è dunque il finito da abolire per potere accedere all’autodeterminazione infinita dell’identità di genere. Da questa tesi ontologica che fa da assunto implicito al riconoscimento della condizione psicologica di dissociazione avvertita da alcuni individui tra il proprio sesso biologico (la propria finitudine sessuale) e la propria diversa identità di genere (la propria interna infinità di genere), derivano poi obblighi morali, come quello di proteggere chi si venga a trovare in simili situazioni, o obblighi giuridici, come quelli in discussione con il ddl Zan, come le giornate di sensibilizzazione scolastica (anche) sull’identità di genere o i condizionamenti cui andrebbero incontro coloro che volessero esprimere convinzioni alternative (anche) all’identità di genere. In tutto ciò non vi è nulla di scandalosamente “ideologico”, come gridano i contrari al “genderismo”, trattandosi di un normale dibattito democratico dove nessuno possiede la “verità”, ma è lecito chiedersi cosa significhi questa riproposizione della distruzione del finito (sesso biologico) ad opera dell’infinito (identità di genere) nel contesto delle trasformazioni attuali dell’etica sessuale. Vengono in mente qui le osservazioni di Pareto sui cicli virtuisti e i cicli libertini, e sul “residuo sessuale” come elemento irriducibile della mente sociale rispetto a tutte le altre sue componenti. La sua psicologia meccanicistica non va però al di là di questa pur importante constatazione. Bisogna invece rivolgersi alla profonda teorizzazione di Freud intorno all’antagonismo psichico tra l’Io, l’Es e il Super Io per scorgere che l’aspirazione all’indeterminatezza infinita insita nell’affermazione dell’identità di genere è una sorta di squadernamento in pubblico dell’indeterminatezza inconscia dell’Es, una “presa diretta” dunque della sfera libidica sulla realtà esterna che riduce al minimo l’Io e non trova più un limite in un Super Io gravato da una decrepita morale. È dall’epoca della Rivoluzione francese che De Sade incita i borghesi ad abolire la morale corrente e a emanare poche, miti leggi che si confacciano alle pulsioni fondamentali dell’essere umano. Ma non c’è classe più inconseguente di quella borghese. Essa infatti apre le porte dell’Inferno ma si arresta sulla soglia lasciando che chi vi si precipita dentro venga istantaneamente giudicato secondo i dettami della vecchia morale. Né è in grado di proporre una morale nuova che non sia il libertinismo di chi per censo o per status può sottrarsi a quella condanna. Ecco allora i cicli disforici di virtuismo e libertinismo di cui parla Pareto, il cui significato Gramsci intese così bene che individuò nel libertinismo la principale causa di corruzione delle classi lavoratrici. Ora, posto che tutto questo psichismo non vive in un mondo separato ma è in stretto rapporto con tutte le altre sfere sociali, è facile vedere una omologia non solo tra i “cicli” capitalistici e le disforie sociali sessuali, ma anche tra l’infinitezza pulsionale dell’Es sottesa alla rivendicazione dell’identità di genere e la fluidità infinita cui aspira il capitale in quest’epoca di comando assoluto sul lavoro. Così come, infatti, si aspira ad abolire la finitezza sessuale a favore dell’infinitezza dell’identità di genere, così pure si procede alla polverizzazione delle forme sensibili e finite della merce lavoro a favore di un flusso immateriale e infinito di forza lavoro, in entrambi i casi come un processo illimitatamente ricorsivo. Qui si aprono però dei paradossi. Il primo, piccolo piccolo ma a suo modo significativo, riguarda il PD che con il suo progressismo si trova in una posizione più filocapitalistica di quella di IV. Ma qui non sono certe le scariche libidiche a contare quanto, da un lato, il vecchio riflesso a vuoto presente nel PD di un femminismo protettivo nei confronti del mondo LGBT, da cui però tale mondo si è emancipato, specie nella sua componente gay, caratterizzata da un machismo tanto più forte quanto più alto-borghese; dall’altro, in IV un bigotto machiavellismo tutto interno alle lotte di potere di quel capitalismo, lustrini e copertine patinate, oltre il quale non si concepisce che possa esistere un mondo altro. Molto più grande e importante, invece, l’altro paradosso che riguarda un intero continente, ovvero la stretta alleanza che esiste in molti paesi sudamericani tra movimenti di lotta e organizzazioni LGBT, che sembra contraddire la consonanza tra l’infinitezza dell’identità di genere e il flusso infinito del capitale. Ma lì non solo vale ancora il principio strategico dell’alleanza tra tutte le minoranze oppresse, ma c’è anche, come nel socialismo chavista, un’applicazione creativa dell’egemonia, il cui sincretismo morale non è riconducibile né alla vecchia morale del Super Io borghese-occidentale né alla nuova non-morale dell’Es liberal-progressista tipica del crepuscolo del capitalismo.

Un congresso mondiale delle culture

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Ecco alcune notizie da un mondo alla rovescia. All’inizio di giugno di quest’anno di grazia 2021 Paxton Smith, una studentessa della Lake Highlands High School in Texas, parlando alla festa di diploma ha criticato le nuove restrizioni all’aborto varate nello Stato: «ho paura che i contraccettivi possano fallire, sono terrorizzata dal fatto che se vengo stuprata le mie speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il mio futuro non avranno più importanza. Voi non capite quanto sia disumano vedersi togliere l’autonomia sul proprio corpo»1. Dunque, la giovane Paxton non è terrorizzata perché può essere stuprata, bensì teme che i contraccettivi falliscano e che non possa poi abortire. Dà per scontato che sia una preda sessuale e ricerca i mezzi più efficaci, tra cui l’aborto, per evitare una gravidanza indesiderata che, togliendole il controllo del suo corpo, possa spezzare le sue speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il suo futuro. Importa poco poi che tutte queste belle cose debbano realizzarsi in un mondo dove essere stuprate è all’ordine del giorno. Le reificazioni che punteggiano questa concezione dei rapporti sessuali, i contraccettivi, lo stupro, l’aborto, il corpo, il futuro, rendono alieno l’appello finale a una umanizzazione che si vorrebbe conseguire con il segmento più debole di questa complessiva disumanità. Nel caso che segue l’alienazione è più classica e meno vertiginosa ma non meno impressionante. Un articolo a firma di Ludovica Bulian, a pagina 4 del «Giornale» del 27.6.2021, reca il seguente titolo: La minaccia dei sindacati: stop licenziamenti per quattro mesi. I sindacati cui si fa riferimento non sono gli incendiari sindacati di base, bensì i miti sindacati confederali CGIL, CISL e UIL. Eppure, per Monsieur le Capital anche la loro pacifica, beneducata richiesta di procrastinare i licenziamenti di ancora qualche mese è una intollerabile minaccia. Esopo e Fedro si danno ancora la mano e dalle origini della civiltà dello scambio la favola del lupo e dell’agnello si invera ancora una volta nei moderni rapporti di produzione di cui mitologicamente prefigurava l’avvento. In questo mondo alla rovescia non può mancare l’alienazione del coronavirus che si manifesta con una insensibilità alla contraddizione niente affatto dialettica. Nella mente collettiva infatti con appositi comandi ed esortazioni vengono eretti dei muri che separano il venir meno delle precauzioni di questi mesi dalla percezione del pericolo delle “varianti”. Il blocco della sintesi di questi due estremi darà luogo a contagi a basso regime, poche ospedalizzazioni, poche terapie intensive e molti infetti mal curati a penare nelle proprie abitazioni. Tutto questo affinché l’economia riparta. Ma che cosa accadrà se questa scissione si rivelerà un accomodamento illusorio? Che cosa accadrà se la pandemia riprende con forza? Le persone non sono preparate, hanno sospeso le loro abitudini pensando di potervi tornare a breve, nessuno ha loro spiegato che il cambiamento può essere permanente e nessuno ha detto loro cosa mettere al posto delle vecchie abitudini. Si parla loro ambiguamente di “rinascita” e “ricostruzione” evocando il dopoguerra e così finisce che non credono più neanche nella più modesta “ripresa”. I grandi che governano con la “comunicazione” non si rendono conto che da queste mezze bugie e mezze verità può solo derivare il caos, lo scontro, il disastro. L’ultimo rapporto sulle tendenze future stilato dal National Intelligence Council, sottorganismo della CIA, ha delineato gli scenari possibili per i prossimi vent’anni: il ritorno trionfale delle “democrazie”, un mondo senza guida, la coesistenza competitiva delle “democrazie” con la Cina, un mondo di contenitori separati l’uno dall’altro, la catastrofe2. Ma qui lo scenario della catastrofe rischia di avverarsi già l’anno prossimo. È interessante però come in questo documento la catastrofe viene caratterizzata. Anzitutto, la catastrofe è l’unico scenario in cui è prevista la mobilitazione delle persone. In tutti gli altri scenari gli individui sono sudditi del mercato, vittime del caos, intrappolati nei mondi a parte, ma comunque sempre individui passivi. A mobilitarli è dunque solo l’istinto di sopravvivenza. A questo siamo, la disumanizzazione prodotta da decenni di trionfi capitalistici avrebbe privato la società di ogni progetto per l’avvenire e l’avrebbe ridotta all’istinto primordiale della sopravvivenza. Non si sa come, però, ma il rimbalzo da questa regressione dovrebbe dar luogo ad uno Human Security Council composto da Stati ma anche da attori non governativi. Non più dunque le nazioni come riferimento bensì l’umanità. È sempre così, quando il capitalismo raschia il barile salta fuori l’umanitarismo. C’è chi però si porta avanti, come l’Unione Europea che ha appena insediato la Conferenza per il Futuro dell’Europa, 450 membri circa tra esponenti dei parlamenti nazionali, membri del Parlamento europeo, componenti della Commissione e del Consiglio d’Europa e infine rappresentanti dei cittadini degli Stati membri3. Come siano stati designati questi rappresentanti non è chiaro, essi comunque testimonierebbero dell’apertura all’immancabile “società civile”4, l’esercito politico di riserva che in democrazia calmiera le ambizioni troppo grandi di chi a turno governa. Immancabile anche la piattaforma digitale attraverso cui ogni cittadino nella propria lingua potrà interloquire sui temi della Conferenza, clima, donne, salute, valori, unione sociale, dialogo, cambiamenti, giustizia, trasparenza, nuovi trattati, meno sovranità, processi “bottom-up”5. È attesa una nuova Pentecoste che raccordi lingue e menti. Mentre USA e UE con i loro lunghi cannocchiali cercano di penetrare le brume del futuro, l’economia che governa il mondo si riunisce periodicamente nei suoi G7. È difficile dire cosa sia il G7 dal momento che non ha nessuna base giuridica o istituzionale. Nel recente vertice di Cornovaglia sono stati formulati i migliori propositi, equo commercio, un sistema commerciale riformato, una economia globale, un sistema fiscale globale, una rivoluzione verde, un nuovo progetto per l’Africa, una maggiore generosità del Fondo monetario internazionale per i Paesi bisognosi fino a 100 miliardi di dollari, tutto ciò in nome dei “valori” della democrazia in lotta contro le autocrazie degli Erdogan, dei Putin e soprattutto dei Xi Jinping. Questo manicheismo che si presenta inghirlandato dalle migliori intenzioni già solo teoricamente è alquanto malfondato. La democrazia infatti non è in nulla migliore dell’autocrazia perché, come osservava Kant, essa si fonda su un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), quindi tutti che però non sono tutti, ciò che costituisce una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà. La democrazia insomma come la più perfetta forma di dispotismo, quest’ultimo inteso come forma di governo in cui la volontà pubblica viene adoperata dal governante come sua volontà privata6. E siccome qui il governante è il popolo, qual è questa volontà privata popolare? Kant, che pudicamente chiamava gli incipienti stati capitalistici del suo tempo “stati commerciali”, non lo dice ma nel prosieguo della storia si è capito che quella volontà privata non era la volontà generale del popolo sovrano bensì quella particolare della classe capitalistica7. Per un lungo periodo tale classe si è fregiata del titolo altisonante di società cristiano-borghese8. Ma quando in essa è cresciuta come un corpo estraneo la società di massa che ha sradicato e spersonalizzato l’individuo, le incandescenti forze produttive si sono riversate nel nuovo involucro della società capitalistica globale. Molti interpretarono tale accomodamento come un progresso dell’umanità. Ma a ben pensarci la società capitalistica globale non ha costituito un avanzamento né nel regime politico (autocrazia, aristocrazia, democrazia) né nella forma di governo (dispotica o repubblicana), poiché si è venuta caratterizzando come una società tribale planetaria che ha il suo totem nella tecnologia e la cui lingua, cultura, religione e senso di identità ruotano attorno alla silente ma onninvasiva divinità della merce9. Di fronte a tale regresso, né il G7 ma neppure un Consiglio di sicurezza umana sembrano adeguati al compito di trarre fuori l’umanità dal vicolo cieco in cui si è cacciata. La prima cosa da fare sarebbe di mettere l’economia tra parentesi e, senza aspettare la catastrofe, immaginare un mondo che non dipende più dai suoi dettami. Questo potrebbe farlo un consesso mondiale in cui finalmente potrebbero prendere la parola tutti coloro che, condividendo tale presupposto, non sono più disposti a scambiare il principio di realtà con la dittatura di chi spaccia per realtà la propria volontà di dominio. Nella storia ci sono almeno due importanti esempi di tali consessi. Uno è costituito dai Concili che nei primi secoli del Cristianesimo modellarono la dottrina cristiana, l’altro dai Congressi dei partiti che tra Otto e Novecento forgiarono le ideologie moderne. Un Congresso mondiale delle culture dovrebbe decidere se il principio formativo deve essere esclusivamente quello del mettere in comune o quello dell’appropriazione privata e dovrebbe tendere non all’omogeneizzazione, come accade nel dispotismo dell’economia che indebolisce tutte le culture, ma all’unificazione come equilibrio risultante dal loro sviluppo generato dalla più viva emulazione.

 

  1. Monica Ricci Sargentini, Discorso sulla libertà sessuale. E il preside stacca il microfono, «Corriere della sera», 27.6.2021, p. 23. []
  2. National Intelligence Council, Global Trends 2040, Marzo 2021, reperibile online. []
  3. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, 19 giugno 2021, https://www.agensir.it/quotidiano/2021/6/19/conferenza-sul-futuro-delleuropa-strasburgo-oggi-la-prima-assemblea-plenaria-negli-interventi-riferimenti-a-clima-donne-salute-valori-dialogo-giustizia/. []
  4. Paola Severino, Se l’UE si apre alla società civile, «la Repubblica», 28.6.2021, p. 23. []
  5. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, cit. []
  6. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Id., Lo stato di diritto, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti 1973. Benché i testi raccolti in questa silloge siano parziali, la traduzione fattane da Nicolao Merker rimane insuperata rispetto a raccolte posteriori più complete. []
  7. L. Colletti, Lezioni di filosofia politica (1957), Soveria Mannelli, Rubettino 2017. []
  8. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza 19734. []
  9. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021. []

Vicolo cieco

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Non c’è nessun motivo di rimpiangere non l’anno, ma il ventennio appena trascorso. Tre neri fiumi ne hanno segnato il corso, guerre fame e pestilenze. Si è aperto con la sfida di alcuni religiosi ai potenti del mondo. I religiosi sono coloro che si attengono scrupolosamente ai dettami del culto, poco importa che questo scrupolo sia soddisfatto in modo “fondamentalista” o meno. Essi stanno lì acquattati dalla notte dei tempi e il futuro che non sia l’apocalisse dell’eterno ritorno gli è loro precluso. La loro sfida, aerei usati come proiettili contro il sancta sanctorum dell’opulenza, non poteva perciò che essere insensata, e ha solo dato la stura ad un nuovo ciclo di guerre in cui Stati più potenti hanno potuto accrescere la loro potenza sopprimendo quella di Stati meno potenti. Non si è fatto nessun progresso nel problema vero di una diminuzione reciproca di potenza come si era iniziato a fare verso la fine della cosiddetta “guerra fredda”, a dimostrazione che nulla c’è da aspettarsi dalla religione anche quando tenta di riformarsi. Il movimento a singhiozzo che ne deriva disorienta le masse di infelici che da essa si aspettano ancora la salvezza. La guerra è dunque dilagata come il lato tenebroso della produzione, creando nella teoria l’illusione di un parallelismo tra rapporti di produzione e rapporti di distruzione stimolato dalle acquisizioni tecnologiche1. È stato un ulteriore abbaglio che ha messo a carico della tecnica quel che è di pertinenza di un imperialismo senza limite. La potenza degli Stati che si sono combattuti, infatti, se a prima vista sembra divenuta generica potenza, in realtà è sempre rimasta determinata da un imperio divenuto “globale” proprio perché sempre connesso strettamente alla produzione monopolistica e finanziaria della ricchezza: «monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti: sono le caratteristiche dell’imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente. Sempre più netta appare la tendenza dell’imperialismo a formare lo “Stato rentier”, lo Stato usuraio, la cui borghesia vive esportando capitali e “tagliando cedole”». Che cosa è cambiato rispetto a questo quadro, non di sociologia empirica ma di concreta analisi politica, tracciato da Lenin nel 1916? Nulla, se non che ora anche il proletariato con i suoi fondi pensione vive “tagliando cedole”. E certamente questo è possibile grazie alla tecnologia, ma non perché essa è l’iper-potenza degli scopi che subordina a sé tutti gli altri scopi, ma perché essa oggi più che mai è asservita allo scopo supremo del dominio e dello sfruttamento. Così, un esercito di semi-schiavi occultato nel sottosuolo delle galere della produzione di base produce gli schiavi meccanici che sempre più consentiranno a una sterminata massa di oziosi di “tagliare cedole” sempre più miserande sotto l’occhiuto dominio di un’élite che, avendo come emblema la maschera ebete di Elon Musk, progetta come in un osceno corteo nuziale di trasmigrare in un altro pianeta. È il compimento di un sistema di produzione che producendo ricchezza crea fame. Fame, nome riassuntivo di tutta l’analitica della realtà sociale capitalistica che la cognizione sociale prodotta da tale realtà non può e non vuole più comprendere. In questa condizione alienata di ignoranza e di ipocrisia si poté produrre quindi il movimento tellurico del 2007 senza che il dominio e lo sfruttamento ne venissero scalfiti, anzi, nell’assenza di alternativa che non fosse il delirio religioso, essi ne trassero nuovo vigore. Incastonato nello sfondo estraniato di una pretesa “natura matrigna” scorreva intanto con un andamento carsico il fiume nero delle pestilenze che tutti i “salvati” raccolti nella putrescente cittadella imperialistica guardavano con occhio vitreo: a noi non capiterà. Sino a quando, nel 2020 appena trascorso, come lo spurgo impetuoso di una fogna troppo a lungo malamente tappata, la pestilenza non è sgorgata al centro del castello, immerdando di sé le splendenti vetrine, i rutilanti commerci, i frenetici spostamenti, sostenuti dagli spritz, dagli happy hours, dalle coca lines delle “Terrazze sentimento” ad alto contenuto pornografico di tutte le smart city che non chiudono mai. Ora si aspetta il vaccino, prodotto da un nugolo di monopoli farmaceutici in feroce lotta tra di loro che, quale sotto-settore imperialistico deputato alla bisogna, dovrà provvedere a “immunizzare il gregge” per far risalire gli indici altamente depressi del sistema imperialistico complessivo, da sfrenare in un nuovo ciclo di guerre fame e pestilenze. È così che, da dieci secoli, l’“uomo”, dogmatica ipostasi che ha asservito e sviato Homo sapiens, da oculus mundi quale orgogliosamente si auto-rappresentava è divenuto il vicolo cieco della specie.

  1. W. Streeck, Engels sociologo empirico. Tecnologia, guerra e crescita dello Stato, «Micromega», 8/2020, pp. 215-230. []

Capitalismcoronavirus

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Il coronavirus è una guerra biologica, scatenata non da un esercito straniero, ma dall’economia in atto che ne propizia l’incubazione e la diffusione. Nei primi venti anni di questo secolo è la quinta o sesta guerra che tale economia scatena contro il resto della società1. Si chiamano pandemie, come se all’improvviso la natura irrompesse incontrollata contro l’organismo sano della società, ma in realtà si tratta di una natura che quell’economia ha asservito, potenziandone i meccanismi pro domo sua. In una recente analisi che compara gli effetti economici dell’epidemia della spagnola del 1918-1920 con quelli già prevedibili dell’attuale epidemia di coronavirus, si legge quanto segue: «oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano».2. Tre sono gli elementi interessanti di questa analisi: la messa in evidenza di una lenta e inesorabile decelerazione dell’economia globale; la presenza delle bolle speculative tecnologico-finanziarie; le pandemie. Vero è che le pandemie vengono ancora considerate erroneamente “attacchi esterni”, ma viene correttamente evidenziato il fatto che le bolle tecnologico-finanziarie servono a rivitalizzare un’economia in lenta ed inesorabile decelerazione. Tali bolle hanno bisogno del livello di integrazione globale, il quale però con i suoi vertiginosi scambi di merci e di individui al servizio delle merci induce le pandemie (un contagiato che impiega un giorno per passare da un punto all’altro del pianeta, è una bomba vivente). Ecco, dunque, perché le pandemie non sono la natura matrigna che si rivolta contro la società civilizzata, bensì l’effetto indiretto e inevitabile della natura che tale economia globale assoggetta sempre più per poter scongiurare il proprio declino. Questo ciclo di agonia che si alimenta di morte per poter allontanare il proprio decesso finale ha un nome ben preciso, e si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto, insita in quel modo di produzione che ha anch’esso un nome altrettanto ben preciso, capitalismo3. Il coronavirus, all’apparenza malvagio quanto può esserlo un individuo bastardo, è in realtà un figlio legittimo del capitalismo, è un capitalismcoronavirus. Contrariamente a quanto auspicano molti moralisti, dal capitalismcoronavirus non scaturirà nessun avanzamento sociale, poiché esso, come tutti gli “attacchi esterni” di una natura asservita dal modo di produzione capitalistico, è forza bruta che ispira paura e terrore. Sentimenti quanto mai propizi per esercitare sul tutto sociale una maggiore e più efficace costrizione, funzionale al modo di produzione che causa gli “attacchi esterni”. La fuoriuscita dal capitalismcoronavirus non consisterà perciò in una riduzione delle diseguaglianze, in un ampliamento dell’area del consenso, in una maggiore estensione dei rapporti sociali non alienati. Al contrario, il capitalismcoronavirus accentuerà il feticismo di tali rapporti, e le contraddizioni che ne deriveranno saranno provvisoriamente governate con ulteriori bolle finanziarie e tecnologiche. Riguardo a queste ultime, ha già tratto rinnovato vigore la deriva informatica, con il cogente argomento della necessità igienico-sanitaria di sospendere il livello fisico dei rapporti sociali, come se la digitalizzazione di tali rapporti, dal lavoro all’insegnamento all’amministrazione statale, fosse uno strumento neutro, e non invece un potente fattore di accrescimento della “servitù volontaria” insita nell’egemonia del modo di produzione in atto. Il capitalismcoronavirus ripropone perciò alle forze contro-egemoniche, per quanto disperse e deboli oggi siano, il compito immane ma indifferibile di riportare i rapporti sociali ad un livello in cui il tutto sociale non assoggetti più la natura per scongiurare la propria morte, bensì ne liberi le energie per promuovere la reciproca coesistenza.

  1. Giuseppe Ippolito, Enrico Girardi, Cristiana Pulcinelli, Malattie infettive emergenti, http://www.treccani.it/enciclopedia/malattie-infettive-emergenti_%28XXI-Secolo%29/ []
  2. R. Godin, Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola, «Il Fatto Quotidiano», 9 marzo 20220, pp. 13-14 []
  3. https://www.duemilaventi.net/il-capitalismo-e-i-suoi-nemici/ []