Intervista

Download PDF

Professore, come sta?

 «Bene».

Incontriamo il professor Aqueci in un pomeriggio di fine estate nella località, il cui nome ci chiede di mantenere riservato, dove da molti anni trascorre il periodo estivo. Autore di numerosi libri e di articoli apparsi in riviste italiane e straniere, ha legato il suo nome al varo di un’area di ricerca da lui denominata “semioetica”, in cui mette in connessione temi etici e linguistici in una prospettiva “dialettica”. Qui ripercorriamo con lui alcuni passaggi della sua vita di docente e di studioso in cui è maturata questa connessione che egli vede fecondata da una permanente tensione politica.

 Sappiamo che è in pensione.

 «Sì, da quasi un anno».

 Da professore, speriamo, e non da studioso.

 «Da professore, certo. È finito un impegno durato trent’anni».

E che sensazione ha provato?

 «Mah, c’è chi parla di morte civile, chi di piccola fine. A pensarci bene, per me è stata una liberazione».

E chi la teneva prigioniero?

«Le dico solo questo, da anni ormai l’“impegno” era diventato “carico”. Il “carico didattico”».

Pesava, eh?

«Pesava il “carico” e pesavano i “prodotti”, altro termine caratteristico con cui venivano indicati i libri, gli articoli, i saggi che ci capitava di scrivere e che dovevamo rendicontare per misurare la nostra produttività».

“Prodotti”?

«Sì, i “prodotti della ricerca”. Non la voglio annoiare, ma burocrazia informatizzata e aziendalismo accademico sono state negli ultimi quindici, vent’anni, le grate dietro cui è stata imprigionata l’Università. Se a ciò si aggiungono gli antichi costumi, che sempre piace indossare, del baronaggio e del nepotismo, il quadro è completo.

Capisco la “liberazione”. Ma prima com’era l’Università?

«Un posto dove ci si divertiva moltissimo a studiare. E non sui libri, ma discutendo. Di tutto. E soprattutto di politica, senza la quale c’è solo erudizione».

Lei ha iniziato all’estero.

 «Sì, dopo la laurea sono andato in Svizzera con una borsa di scambio, lo strumento con cui a quell’epoca si partiva a studiare nei vari paesi europei. La struttura che mi ospitava era il Centre de recherches sémiologiques diretto da Jean-Blaise Grize, fra i più stretti collaboratori di Piaget. A quel tempo, la semiologia era la reginetta delle discipline. Ma la semiologia di Grize era un po’ speciale. Sotto quell’etichetta, lui portava avanti la sua “logica naturale”, una “dialettica” sui generis su cui ho scritto un articolo che gli piacque molto».

Quanto è rimasto al Centre?

«In veste varia, borsista, ricercatore, dottorando, circa dieci anni, sino a quando non ho preso il dottorato, che in Italia cominciava appena ad esistere. Ma ho rischiato varie volte di dovermene tornare prima».

In che senso, scusi?

«Beh, una sera, con dei colleghi svizzerotti con cui avevo fatto amicizia, abbiamo cominciato a tirare sassi contro i vetri della Facoltà per vedere chi aveva la mira più precisa. I vicini hanno chiamato la polizia che però è stata molto comprensiva, soprattutto con me che avevo un permesso B, quello provvisorio che ti ritirano subito se non ti comporti bene. Il poliziotto ci ha detto solo che, se avevamo tanta voglia di tirare sassi, che li andassimo a tirare al lago lì vicino».

Ma professore… E che altro combinava?

«Eh, c’erano gli scherzi telefonici. Nelle stanze, avevamo due linee telefoniche indipendenti. Allora, una volta, sempre con i colleghi svizzerotti, m’è venuto di comporre due numeri e metterli in contatto rovesciando le cornette. La cosa ha funzionato e, nelle settimane successive, abbiamo affinato il modulo su vari disgraziati, sino a quando non abbiamo pensato di mettere in contatto il preside con il rettore che si odiavano a morte. Hanno passato tutto il tempo a farsi i salamelecchi e a interrogarsi su come poteva essere successo che si parlassero senza che nessuno dei due avesse chiamato l’altro. Siamo andati avanti per parecchio. Ricordo, in particolare, un povero prete mandato bruscamente a quel paese dal suo involontario interlocutore, nonostante giurasse di essere stato interrotto dalla sua telefonata mentre recitava le orazioni. Ma un’anziana signora, che avevamo preso di mira, ci ha fatto passare la voglia quando ha sussurrato che aveva chiesto alla polizia di mettere sotto controllo il suo telefono. Probabilmente ci ha preso in giro, ma è bastato perché smettessimo».

C’è altro, professore?

«Sì, ma non ve lo dico. Non è scattata ancora la prescrizione».

Addirittura?

«Scherzo, naturalmente».

Non ha mai pensato di restare in quel paese di bengodi dove si divertiva così tanto?

«Guardi, nella cittadina in cui mi trovavo, vedevo circolare tutto solo, in utilitaria, il ministro degli esteri della Confederazione, che era di quelle parti. Ecco, io mi immaginavo che fosse possibile instaurare quella semplicità a Roma».

Ma, professore, a Roma c’è il papa…

«Certo. E a Milano c’era la “Milano da bere” …»

Beh, ora c’è il “bosco verticale” …

«Appunto, sempre lì siamo…»

Insomma, se n’è pentito o no di essere rientrato in Italia?

«Onestamente, no. Personalmente, non mi è andata male, anche se ho perso un sacco di tempo ad aspettare le “priorità”».

Che cosa sono le “priorità”?

«All’epoca, i “capi” facevano circolare le liste con le “priorità”, fissate con criteri più o meno arbitrari, di chi doveva andare a occupare per primo i rari posti disponibili. E ci si doveva acconciare a perdere concorsi che si potevano vincere, e se non si partecipava a quegli inutili rodei, qualcuno in agrodolce ti rimproverava di aver fatto sfoggio di “saggia improntitudine”. Insomma, te la facevano pagare con un supplemento di “priorità”».

La sua “priorità” quando è maturata?

«Nel 1995, quando sono diventato ricercatore. Poi però ho fatto il resto abbastanza in fretta».

Cioè?

«Sì, in pochi anni, l’associazione su Semiotica e a seguire l’ordinariato su Filosofia morale. Aggiungo che, già da ricercatore, tenevo l’Etica della comunicazione, materia che la Facoltà introdusse su mia richiesta gentilmente appoggiata da chi all’epoca sovraintendeva all’area filosofica».

Ah, ecco la semioetica…

«Ma questo è l’aspetto formale. In realtà ci lavoravo da parecchio prima che la “priorità” maturasse. L’impostazione stava nel dottorato, dove per dissodare quell’arida pietraia della Sociologia di Pareto, oggetto della tesi, mi ero dovuto sobbarcare questioni dell’una e dell’altra disciplina. E così, cerca, cerca un termine per unificare quell’andirivieni, m’è venuto “semioetica”».

Della “semioetica” oggi si parla come capacità umana di ascoltare l’altro e capacità di critica responsabile, oppure anche come teoria della censura intesa come conflitto tra differenti sfere di valore, oppure ancora come riflessione sulla deontologia della semiotica e analisi critica dei fenomeni culturali.

«Non è quello che intendo io, ma il termine che ha preso a circolare – addirittura a Torino c’è un insegnamento che si chiama così – evidentemente ha colto un bisogno oggettivo di connettere le due aree partendo da diverse esigenze».

Certamente. Ma lei cosa intende, quel è la sua prospettiva?

«Io mi sono mantenuto basso e ho posto anzitutto una questione metodologica. La semioetica non è uno sviluppo della semiotica e neppure della filosofia morale, ma fuoriesce da entrambe le aree disciplinari. Di qui l’approdo alla prospettiva “dialettica”, cioè al recupero di tutte le tappe del pensiero storico-genetico che naturalmente a tutt’oggi culmina nel marxismo».

D’accordo, questa è la cornice. Ma nel quadro che ci dipinge?

«Beh, in effetti questo superamento delle restrizioni disciplinari produce un paesaggio più fluido, nel senso che il rapporto normativo, raffigurato nella sua dimensione discorsiva, diviene un oggetto nuovo che acquista un’inedita concretezza».

Ma in che senso?

«Nel senso che la semioetica guarda al rapporto normativo come qualcosa non da conservare ma da trasformare. In pratica, dice: ribellatevi!».

E il messaggio arriva?

«Sinché ho insegnato, in aula il messaggio è arrivato “forte e chiaro”, ed era divertente vedere come quel pubblico quasi sempre prevalentemente femminile, spinto a riflettere sulle contraddizioni sperimentate nella vita quotidiana, non indietreggiasse neanche davanti al tema scabroso della violenza con cui a volte si è costretti a ribellarsi».

Lei allevava delle amazzoni rivoluzionarie…

«Perché no? Del resto, il metodo era del tutto pacifico…».

Che metodo?

«Beh, dicevo sempre che la filosofia morale sotto l’egida della semioetica non è una filastrocca di teorie o un’infilata di concetti speculativi ma una pratica, una pratica discorsiva, certo, ma una pratica che dovevamo sperimentare nei nostri rapporti, dibattendo su temi su cui maggiormente ci poteva essere un conflitto».

Ma in questo metodo non c’era qualcosa dell’artificiosità delle disputationes medioevali?

«Ricordo che l’epoca delle disputationes è stato un’epoca di grandi trasformazioni, e comunque l’artificiosità sfumava quando c’era chi si alzava e abbandonava l’aula per la troppa tensione. Un fallimento, ma significativo».

Insomma, provocava il suo pubblico.

«In linguaggio accademico, direi che ci servivamo del discorso per agire collettivamente sui valori. Ma questa era la premessa. Lo svolgimento sta in quel che è rimasto di questo lavoro in quelle menti».

Lei cosa pensa che sia rimasto?

«Singolarmente molto, collettivamente poco. La contraddizione fondamentale del nostro tempo, il potere che ci schiaccia, non può essere risolta da un pugno di lezioni».

Lei però nei suoi libri non parla mai del potere in generale ma…

«Scusi se la interrompo, ma la ringrazio dell’osservazione, vedo che ha letto attentamente i miei libri. Prima ho usato genericamente la parola “potere” per sbrigarmi. È chiaro che ciò che ci opprime è il potere capitalistico. Un mio libro si intitola Capitalismo e cognizione sociale. La mia intenzione iniziale era di intitolarlo Semioetica e cognizione sociale. Ma durante il corso una studentessa fra le più attente se ne è venuta fuori dicendo: “stiamo parlando continuamente di capitalismo, e così sono andata ad approfondire questo argomento”. È lì che ho deciso di cambiare il titolo».

Cioè, professore, che cosa vuol dire? Non giriamoci intorno ma…

«Esatto. Questa realtà è così pervasiva che già il nominarla (capitalismo e non  economia di mercato) è un atto rivoluzionario».

Evito di chiederle se, oltre a nominarla, si può fare qualcos’altro. Piuttosto, adesso a cosa sta lavorando?

«I progetti sono tanti ma bisogna andare a chiudere».

Già. Come si vede, dopo la pensione?

«Immerso nella luce abbacinante dell’oscurità universale».

Professore, le arriverà una bolletta spaziale!

«Lì non si paga, è tutto a carico del comune…».

Va bene, professore, la ringraziamo del tempo che ci ha dedicato e le auguriamo una buona prosecuzione delle sue vacanze.

«Grazie a voi e a presto!».