ecologia

Il progresso non è finito

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Una volta, l’operaio poteva intervenire nella produzione, apportando quelle piccole modifiche dettate dal mestiere che rendevano più efficiente il progetto iniziale. E questo è forse ancora possibile nella piccola manifattura odierna. Ma nella costruzione di un aereo a reazione, cosa può apportare l’operaio, se non limitarsi ad avvitare viti e saldare schede? Così, accade che gli aerei cadano come foglie, perché tutto è imprigionato nella presunta onniscienza del software, e ci vuole il tributo di vittime ignare per procedere, quasi malvolentieri, a correzioni cui sono autorizzate caste produttive ben felici del potere che deriva dall’esclusività delle loro pratiche. Con la robotica, questa divaricazione tra intelligenza viva e intelligenza morta, tra competenza ed esecuzione, non potrà che allargarsi, perché gli adattamenti saranno sempre più adattamenti derivanti da razionalizzazioni del progetto, e non da aggiustamenti dettati dalla pratica produttiva immediata. La società robotizzata sarà così non solo una società dove una massa di schiavi informatici mantiene uno strato di oziosi, ma anche una società dove il feticcio del progetto divora la pratica empirica. In generale, i rapporti produttivi si irrigidiranno, perché gli oziosi saranno una ristretta cerchia che dominerà la massa di semi-lavoratori polverizzati dell’economia digitale, i cui bisogni massificati saranno soddisfatti da robot costruiti da piccole enclaves di semi-schiavi confinati, come già accade oggi per le produzioni griffate di scarpe e magliette, in punti del pianeta resi socialmente invisibili. La sparizione del lavoro, cioè la divaricazione sempre più grande tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra sapere contemplativo e sapere produttivo, tra tempo di vita e tempo di lavoro, non sarà dunque la liberazione dalla maledizione biblica, ma una specificazione ed ossificazione degli attuali rapporti di dominio. Se la genesi della libertà è da rintracciare nella lotta dell’uomo contro la natura, attraverso la mediazione delle diverse forme di società succedutesi nella storia, non ci si può illudere che, tecnologizzando l’ultima di queste forme, la società capitalistica in essere, si arrivi alla libertà piena che deriverebbe da un totale controllo della natura assicurato da tale tecnologizzazione. La scorciatoia non funziona, perché non è intensificando tramite la tecnologia lo sfruttamento capitalistico del rapporto uomo-natura, che si può assicurare al genere umano il benessere e la libertà. Lo dimostra l’acuirsi della questione ecologica, dove appare chiaro che tale sfruttamento capitalistico si ritorce sia contro la natura, limiti ecologici dello sviluppo, sia contro l’uomo sfruttato dall’uomo, crescita esponenziale delle diseguaglianze economiche e di potere che, come abbiamo visto, la società robotizzata promette sinistramente di approfondire e intensificare. La chiave perciò consiste nel riconnettere l’uomo alla natura, liberato però dai rapporti capitalistici che attualmente mediano tale rapporto. In altri termini, la lotta per la libertà si è sempre svolta su due fronti, contro le forze della natura, e contro le forze sviluppatesi all’interno delle forme sociali che storicamente hanno mediato il rapporto uomo-natura. I modi di produzione sono lo strumento che la specie umana ha escogitato per dominare la natura e ottenere la libertà. Ogni qual volta tale strumento si è rivelato insufficiente, e ciò accadeva perché il precedente modo di produzione intensificava tutti i fattori, ivi compreso quello demografico, si è passati storicamente ad una forma diversa e più efficiente di società. Questione ecologica e questione capitalistica dunque coincidono, perché è solo modificando il vecchio strumento capitalistico, che si può arrivare ad un rapporto più efficiente per l’uomo nel suo rapporto con le forze della natura, attualmente invece compromesso dall’inefficiente mediazione capitalistica. Perciò, non è preferendo il treno agli aerei, o le auto elettriche a quelle diesel, che faremo pace con la natura. Greta Tunberg e Carola Rakete, che promuovono tale ricetta, assumono sulle loro scelte individuali tutto il peso di una questione collettiva. La loro è una testimonianza morale, come accade sempre quando i comportamenti individuali sono schiacciati da una vecchia etica. Sorge allora un romanticismo che trasforma le questioni produttive in questioni sentimentali, e gli individui diventano degli eroi, in quanto tali ammirati o avversati, ma comunque impotenti a modificare i comportamenti collettivi. È invece l’etica che bisogna modificare, cioè la dimensione collettiva della morale, ma ciò è possibile solo modificando i rapporti produttivi del modo di produzione in essere, quel capitalismo che avvinghia a sé distruggendoli sia la natura, che l’uomo. Oggi, la lotta per la modifica di tali rapporti è in stallo. Domina perciò il pessimismo, l’idea cioè che non vi è progresso, ma rispetto al pessimismo ottocentesco, che vedeva nella natura una forza indifferente alla vita umana, si afferma la visione simmetricamente opposta della natura violata dalla prepotenza dell’uomo. Di qui, utopie regressive come la decrescita felice, un misto appunto di pessimismo e romanticismo. Ma la natura non è violata da una generica ed astorica prepotenza umana, ma dall’inefficiente mediazione capitalistica del rapporto uomo-natura. Il progresso quindi non si è fermato. Piuttosto, la sua via è ostruita da chi ha interesse a mantenere in vita quell’inefficiente mediazione. Riprendere la lotta anticapitalistica non è un progetto donchisciottesco, ma uno scopo che ha una base oggettiva, la ricerca di un nuovo modo di produzione che, rendendo più efficiente il rapporto uomo-natura, abolisca lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo richiesto da quella vecchia mediazione.