egemonia

L’egemonia e i suoi slittamenti

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Che su “Il Giornale”, organo della alquanto decaduta Casa Arcore, si scriva che «il fallimento della rivoluzione inaugurata nel 1994 da Silvio Berlusconi – ovvero il tentativo di creare una destra credibile in grado di governare il paese – non è riuscito anche per la mancata capacità del Cavaliere di sottrarre alla sinistra l’egemonia che essa si è costruita in 70 anni all’interno della società civile»1, dovrebbe essere una buona notizia per la sinistra, se però nel frattempo non fosse stata fatta prigioniera dall’avventuriero di cui si fa fatica a pronunciare il nome. Eppure, Berlusconi, nella sua rivoluzione, iniziata, com’è noto, ben prima della formale “discesa in campo”, non ha scherzato. Si è mangiata l’Einaudi, ha ridotto i professori universitari a bambini che compilano moduli da mane a sera, stava anche per comprarsi “la Repubblica”, e chissà come l’Italia sarebbe stata differente se anche quest’operazione gli fosse riuscita. Oggi non avremmo un papa laico che predica il suo nietzschianesimo da ordine costituito, e mezza sinistra non sarebbe ipnotizzata dai lustrini da ceto medio fantasmatico che quel giornale stampa ogni giorno nelle sue pagine centrali. Questo per dire che effettivamente è un peccato che Berlusconi non sia stato in grado di portare a termine il suo lavoro. Oggi ci sarebbe tutto da ricostruire daccapo, e invece da un lato c’è la frustrazione dell’impotenza, e dell’altro l’indolenza di chi è stato tramortito ma non ucciso. Ma Berlusconi aveva davvero questa voglia di scalzare l’egemonia culturale della sinistra, per sostituirla con quella di «una destra credibile in grado di governare il paese»? Non c’è una punta di schematismo intellettuale in questo ragionamento, ispirato da una pur apprezzabile lettura spregiudicata di Gramsci? Non bisogna dimenticare che Berlusconi è stato fatto fuori non dalla resistenza della sinistra, ma dalla lettera della BCE e dai sorrisini di Merkel e Sarkozy. Insomma, mentre destra e sinistra sognano ancora di poter costruire o ripristrinare una propria egemonia, il fronte dello scontro si è spostato, perché un terzo incomodo è intervenuto, che costringe quasi destra e sinistra ad una oggettiva convergenza. Nell’articolo sopra citato, si sostiene che «se Matteo Salvini – che ha ormai de facto assunto il ruolo di leader del centrodestra – vorrà sfidare concretamente il Partito Democratico (erede del PCI di Togliatti e Berlinguer) non gli basterà vincere le elezioni ma dovrà sottrarre a quest’ultimo il monopolio della cultura». Ma se quel terzo incomodo l’avesse vinta, Salvini potrebbe anche mettersi a studiare volenterosamente Gramsci, ma non avrebbe più nulla da sottrarre al Partito democratico, per il semplice fatto che quest’ultimo intanto sarebbe divenuto il terminale di un comando eteronomo, promanante dai ben noti ma quanto mai oscuri centri decentrati dell’odierno capitalismo assoluto (in mancanza di meglio, si perdoni il tecnicismo ideologico). E non è finita. Davvero il Partito democratico, divenuto intanto non per caso Partito della Nazione, vorrà essere quel terminale che si è appena detto? Vi sono tanti segnali di un trasformismo giocato non più a Roma, ma a Bruxelles, volto a riaffermare tra le righe di un discorso ortodossamente liberistico il ruolo di uno Stato che rassicura il mondo affaristico (ponte sullo Stretto), libera gli spiriti animali (legge sul lavoro, spregevolmente denominata job act), si agita per ricostruire qualcosa che richiami l’IRI (manovre sulla Cassa depositi e prestiti), mima il thatcher-blayro-reaganismo (decreto antisindacale per l’assemblea dei dipendenti del Colosseo), e si potrebbe continuare. Flessibilità, insomma, anzi, flessuosità, di un mondo la cui massima pare sempre quella di Tancredi del Gattopardo, e che forse è la chiave dello stesso berlusconismo. Non per caso Eugenio Scalfari, dall’alto della sua sedia gestatoria, si duole ogni domenica che l’ex-strillone fiorentino non sia un federalista europeo, ma solo un confederalista. Ma, oggi, se si vogliono preservare le ragioni della storica contesa egemonica tra destra e sinistra, è meglio essere federialisti o confederalisti? Ed ecco, allora, che anche il detestabile bamboccio fiorentino va guardato con una certa attenzione nella oggettiva funzione di ostacolo che può temporaneamente svolgere. E questo per dire che, oltre agli apparati culturali del cortile di casa, resta un gran lavoro da fare per integrare tutti questi slittamenti transfrontalieri nel fecondo quadro dell’egemonia.

  1. G. Repaci, Matteo Salvini legga Gramsci,Il Giornale”, 29 settembre 15 []

Syriza e i problemi dell’egemonia

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Se si guarda alla tipologia del potere capitalistico, nelle due varianti parlamentare e fascista, si vede che dagli anni Ottanta del secolo sorso, c’è stato un progressivo svuotamento di quella parlamentare e un ritorno in forme criptiche di quella fascista, grazie ad una immersione del momento coercitivo in fondamenta economiche, istituzionali e ideologiche più ampie e profonde. Il compatto capitalismo assoluto che ne è sortito, ha spinto la sinistra a introiettare l’alternativa ciclotimica tra un cambiamento che non incideva nella realtà, e un governo cui sfuggiva il potere effettivo. A seconda che prevalesse l’uno o l’altro polo, essa si divideva in fazioni contrapposte, che si rimproveravano reciprocamente di essere in preda ad idealismo, frustrazione ed ingenuità, o a realismo, adattamento, astuzia di basso conio. L’assolutismo della realtà capitalistica è stato l’ostacolo che, provocando la sua scissione in fazioni contrapposte, ha tolto alla sinistra nella sua interezza la possibilità di una riflessione teorica che fosse anche una prassi adattata. Syriza, nata con lo scopo ambizioso di superare questa divisione, ha finito solo per assicurare una carriera politica al manovriero Tsipras. L’assolutismo capitalistico è dunque inscalfibile, oppure c’è stata un’incapcità soggettiva di perseguire quello scopo? Certo, non è facile uscire da una depressione trentennale, e questo tanto più, quanto più il riflesso abbagliante della realtà è che il capitalismo continua a reggere di fatto la totalità delle regolazioni sociali. Eppure, la crisi capitalistica apertasi nel 2007 non è un sogno ad occhi aperti, ma un incubo reale, altrettanto reale quanto la pervasività della realtà capitalistica. Si potrebbe allora affermare che il significato dell’odierna crisi, che fa seguito ad altre ormai consegnate ai libri di storia, è che, in contraddizione con quanto quotidianamente suggerisce la sua stessa ontologia, il capitalismo non potrà mai pervenire a quella chiusura sistemica che l’ideologia dell’autoregolazione di mercato e dei flussi globali suggerisce. Se l’indimostrabilità del capitalismo si apparenta del dibattito logico-teologico, la “distruzione creatrice” et similia sembrano teorie fatte apposta per i miscredenti che, per timore del giudizio sociale, continuano ad andare a messa. Quel che è certo, però, è che una crepa nella realtà c’è, in cui la sinistra può infilarsi, buttandosi alle spalle la sua annosa, disperante ciclotimia. Ma come avviare quelle pratiche di una nuova realtà sociale, che le facciano superare ad un tempo la propria autofissazione alienata e la falsa ontologia esistente? Evocando nomi suggestivi come quelli di Gramsci e Berlinguer, Tsipras era partito predicando la necessità di un nuovo pensiero egemonico, ma ha finito per biascicare le solite formule del politico di professione. Sull’argomento non ci sono lezioni da dare, ma riflessioni da avanzare, colloqui da tenere, discorsi da scambiare, anche come terapia di quella depressione che sembra inguaribile. Nell’epoca del marketing, la prima difficoltà che il nuovo pensiero egemonico incontra è che l’egemonia è un concetto composito: critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. È come dire “Bevete Coca Cola, diventerete schifosamente grassi”. Bisogna perciò scomporre il concetto, ed evidenziare come nel suo lato critico e analitico, esso corrisponde all’egemonia in atto, in quello finalistico e normativo alla nuova egemonia. L’egemonia in atto si presenta come una realtà monolitica, ma in effetti essa è un “testo bilingue”, il “mercato” e la corrispondente “traduzione interlineata” dell’economia critica. È essenziale che quest’ultima balzi fuori dalle ridotte in cui è stata confinata, e mostri la parzialità di una scienza economica che celebra i suoi fasti nelle business schools e nei premi Nobel. Ma la nuova egemonia non può essere solo uno scontro intellettuale, ma deve essere soprattutto una “filologia vivente” che parla il linguaggio intellettuale e morale della “riforma economica”. Su questo terreno, la partita si gioca tra gli “schemi naturalistici” dell’egemonia in atto e il “controllo metalinguistico” dell’agire storico collettivo. L’egemonia in atto è basata sul conformismo spontaneo “dell’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili”. La nuova egemonia non può che essere la “compartecipazione attiva e consapevole”, resa possibile dal rapporto di reciprocità tra governanti e governati, e dagli istituti che ne garantiscono l’esercizio. La nuova egemonia, dunque, non è genericamente la “democrazia”, ma quell’assetto sociale in cui si realizza consensualmente la “riforma economica”. Questo fatto del consenso, porta a postulare la necessità di un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi tesi ad imporre la norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Oltre che concetto critico-analitico e finalistico-normativo, l’egemonia è dunque una prassi che comporta il conflitto. Con quali modalità si può manifestare questo conflitto? Anche qui, la vicenda di Syriza offre spunti di riflessione. Pare che nel gruppo ristretto del primo governo Tsipras si siano fatti piani di sequestro dell’oro della Banca di Grecia per far fronte al prevedibile blocco che sarebbe seguito ad un eventuale rifiuto del memorandum. La questione è se una simile mossa avrebbe avuta una sua legittimità, tale da non configurarsi come atto puramente arbitrario di una parte contro l’altra. Le elezioni politiche di gennaio e il referenudm di luglio, per quanto ambivalenti nel mandato, restare nell’euro ma rifiutare l’austerità, offrivano senz’altro una tale legittimità, ma il punto è il “secondo colpo”: un tale atto di forza avrebbe garantito nell’immediato gli interessi della maggioranza dei greci, oppure avrebbe dato luogo ad un crollo tale da fornire agli adepti dell’egemnoia in atto la migliore prova della inaggirabilità della realtà esistene? La risposta a questa domanda non può consistere solo nell’azzardo del leader, ma nella costruzione di ulteriori patti associativi, certamente garantiti dal leader, che precedono e seguono l’eventuale atto di forza. La forza in sé diventa un atto banditesco se non è capace di raccogliere la maggioranza attorno al principio di reciprocità, che si articola in patti che garantiscono temporanemanete interessi che l’evolversi stesso della situazione tende a trasformare. Tsipras non l’ha fatto, scegliendo la via della vecchia politica. Ma la vicenda greca ha evidenziato senza ambiguità i dati del problema, mostrando come il rifiuto di usare la forza in un quadro dinamico di legittimità porta non alla “democrazia”, ma alla sottomissione di una parte all’altra che ribadisce gli assetti esistenti. I nuovi movimenti, da Podemos al new old labour di Corbyn alla “coalizione sociale” di cui si fantastica in Italia, non possono non tenere conto di ciò, pena un ritorno al mutualismo, se non peggio, una ricaduta nel politicismo che non li differenzierebbe in nulla dalle ormai stantie pratiche della sinistra del dopoguerra. Durante questo periodo, quando il fine egemonico non è stato ripudiato ufficialmente, com’è accaduto nelle Bad Godesberg in cui di volta in volta sono incorse varie sezioni della sinistra europea, l’egemonia di transizione è stata praticata in modo tale che la forza subalterna proponente, anziché assimilare la forza di governo dominante, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Nella sua versione più alta questo è stato il caso del togliattismo, mentre uno dei casi più miserandi di subordinazione del fine al mezzo è stato il blayrismo, che ha trasformato il partito in una macchina di governo, interessato solo a detenere il potere, cioè a servire gli interessi contrari alla propria base elettorale, giudicata “arretrata” e quindi bisognosa di “riforme”. Questo “centro” ottenuto usando la sinistra per soddisfare gli interessi della destra, ha distrutto la fiducia tra il popolo della sinistra e le sue organizzazioni. Compito prioritario è dunque un’intensa lotta ideologica volta a ristabilirla, poiché solo su di essa si potrà fondare una conquista del governo che, all’interno di quel quadro di legittimità dinamico sopra evocato, preluda all’egemonia come fine, cioè ad una democrazia che ecceda economicamente quella liberale, e si distingua culturalmente dalle forme di comunismo storico.

Tsipras, l’euro, Lenin e l’egemonia di Gramsci

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Il 73% dei greci che, secondo un sondaggio di neanche un mese fa1, continua ad essere favorevole alla permanenza della Grecia nell’Eurozona, cioè a favore dell’euro, è un fatto che si tende a scacciare come si fa con una mosca noiosa. Eppure è la spia di quell’egemonia di fatto in cui uguali e diseguali, ricchi e poveri, agiati e disagiati continuano a nutrire lo stesso sogno di opulenza, conto in banca e brio social che l’euro promette, coloro che già lo vivono o lo hanno vissuto affinché continui, e coloro che non lo hanno mai vissuto affinché si realizzi. A quanto pare, Syriza ha pure pensato a più o meno confusi piani B, compreso un assalto alla Banca centrale greca degno di un film di Sergio Leone, ma alla fine Tsipras è rimasto nel recinto del “mito europeo”, sforzandosi di far credere di poter trasformare il desiderio di opulenza, conto in banca e brio social in pratiche “virtuose” di ricchezza collettiva, espresse però sempre in euro. Ma la moneta non è un puro significante, di cui si può cambiare a piacimento il riferimento. Essa viene partorita dalle stesse doglie che generano il significato, cioè la struttura dell’economia che fa dell’opulenza, del conto in banca e del brio social delle manifestazioni di superficie di un individualismo profondo, che a sua volta è matrice di quell’assetto economico. Di fronte a questa compatta autoregolazione, Syriza, sin dal suo programma elettorale, ha mimato le movenze del Lenin del 1917, che riteneva che la disciplina burocratica di un’azienda statale come la Posta, assunta a modello per tutta l’economia nazionale, si sarebbe automaticamente rovesciata in una più alta disciplina sociale di tipo comunista2. Ma si sarebbe ormai dovuto comprendere che gli schemi comportamentali dell’egemonia di fatto non sono trasportabili sic et simpliciter nel “nuovo mondo”, le cui nuove abitudini vanno invece prodotte ex novo, con “dialoghi”, ovvero specifici processi di produzione sociale della nuova intersoggettività. Si osserva che la fuoriuscita dall’euro e il ritorno alla dracma era lo stesso obiettivo che si ponevano i liberisti assoluti à la Schäeuble3. Ma una cosa è essere cacciati dall’euro e un’altra è ripudiare l’euro. L’esito referendario, utilizzato senza machiavellismi, avrebbe potuto assumere il valore catartico di una fuoriuscita collettiva dalla bolla cognitiva dell’invidualismo, in grado di fornire l’energia necessaria a prevenire quella “verticalizzazione” del movimento che giustamente ora si stigmatizza4. Ma Tsipras è stato mai veramente interessato a trasformare la massa che esprime passivamente il dato statistico del 73% di favorevoli all’euro, in una collettività di individui che interagiscono attivamente in direzione di nuovi comportamenti che nessuna statistica può ancora prevedere? Sulla scena si affaccia ora Corbyn che, in Inghilterra, nel tentativo di rianimare il Labour Party dal lungo coma blairiano, propone un quantitative easing “per il popolo”5. Ma basta un cambiamento di segno delle vecchie pratiche dell’egemonia di fatto per innescare nuove pratiche di ricchezza sociale? L’impressione è che il semplice cambiamento di segno di tecniche e pratiche dell’egemonia in atto sia l’automatismo di una sinistra, o comunque di un “movimento”, che ha difficoltà ad andare oltre gli schemi rivoluzionari dei padri. Così, il buon Tsipras, con il compromesso firmato invocando Lenin6, ha creduto di dover riprodurre sotto il Partenone gli avanti e indré del grande Ilič, dimenticando la lezione intanto intervenuta dell’egemonia, che dovrebbe essere ormai l’abc di chi è interessato ad “orizzontalizzare” la politica. La posa leninista di Tsipras, invece, ha sprecato una preziosa occasione di passare dai sogni e dalle abitudini dell’inveterata egemonia di fatto, alla presa di coscienza della nuova egemonia produttrice di una realtà radicalmente altra, in grado di superare la matrice individualistica con cui Tsipras invece, in nome di un principio di realtà economica prodotto da quella stessa matrice, è venuto di nuovo a patti. L’obiezione è che il “passaggio” dalla vecchia alla nuova egemonia avrebbe provocato e distribuito solo miseria e privazioni, in uno stato di isolamento della Grecia che sarebbe presto divenuto insostenibile. Ma il compromesso accettato da Tsipras, mentre prolunga l’equivoco dell’eurosogno, procura hic et nunc una ulteriore discesa verso più forti diseguaglianze e crescenti miserie, per quanto compensate dall’acquolina in bocca della “fantasia” individualistica, che promette future risalite di uno zero virgola di prodotto interno lordo. Il risultato, dunque, non cambia, e per di più non innova “tecnicamente” la politica, anzi, ancora una volta, la riduce a quel “gioco autonomo” che alimenta l’estraneità tra governati e governanti, i primi oggetto passivo di decisoni prese altrove, i secondi accomunati dal feticcio dei rapporti di forza. Il no referendario ha offerto a Tsipras l’occasione di essere un politico della nuova egemonia, che agisce non accomodandosi al dato statistico, ma stimolando la base sociale che in esso si riflette a divenire protagonista di un “nuovo gioco” statisticamente non prevedibile. Egli invece ha scelto di essere uno stucchevole epigono di un leninismo così scolastico, se non furbesco, da rovesciarsi in una piatta politica “socialdemocratica”, proprio quella che i turiferari dell’egemonia in atto gli rimproveravano di non sapere incarnare, quando ancora titubava a buttarsi nelle braccia rassicuranti del vecchio che ristagna7.

  1. Grecia, Syriza vola nei sondaggi: se si votasse oggi, avrebbe il 42,5% e maggioranza assoluta []
  2. Lenin, Stato e rivoluzione, p. 25, []
  3. Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  4. Sempre Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  5. J. Corbyn, Invest in our future, 8.7.2015. []
  6. Interview with Alexis Tsipras: “Austerity is a Dead End”, traduzione dell’intervista rilasciata da A. Tsipras il 29 luglio 2015 a Radio Sto Kokkino. []
  7. E. Occorsio, Nouriel Roubini: “Grexit, scampato pericolo, sarebbe stato un disastro e avrebbe contagiato anche Italia e Francia”, “la Repubblica”, 14 luglio 2015. []

Il Gramsci di un nuovo inizio

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I libri, come il vino, hanno bisogno di tempo. Quando nel 2012 uscì il libro di Vacca su Gramsci1, ci si concentrò soprattutto sul suo carattere di indagine storica. Lo sfondo ideologico si intravedeva, eccome, ma lo si poteva tralasciare, in attesa che la realtà si incaricasse di verificarne le ambizioni. Non che, per i criteri di un’indagine storica, tutto fosse soddisfacente. Ad esempio, non si precisava mai in che lingua o lingue fossero redatti i documenti d’archivio inediti della Corrispondenza Schucht cui Vacca faceva continui riferimenti. Del ricco, variegato e drammatico mondo degli Schucht, verso il quale Vacca non nascondeva la sua insofferenza (p. 187), Tania, una donna colta e poliglotta, veniva fatta apparire, quando non «tortuosa ed allusiva» nella sua prosa epistolare (p. 269), semplicemente come colei che «traduce», «trasmette», «trascrive», «copia», insomma un semplice tramite tra Gramsci e i suoi ben più importanti interlocutori. Lo stesso ruolo, d’altra parte, Vacca assegnava a Sraffa, da Wittgenstein considerato la sua “miniera” filosofica2, e da Sen indicato come l’autore di una “svolta comunicazionale” in economia3, ma qui giudicato filosoficamente non all’altezza di dialogare con Gramsci (p. 217). Comunque sia, l’intreccio di vita e pensieri di Gramsci che l’opera proponeva, anche nelle esagerazioni della tesi del linguaggio esopico, era certamente innovativa, riuscendo ad evidenziare un profilo del prigioniero non solo come grande teorico, ma anche come fine politico. Dal 2012, però, è passata un’era geologica, e due fatti nuovi si sono imposti: la “ditta”, come da ultimo ci si era ridotti a chiamare ciò che restava del vecchio PCI, non controlla più il pacchetto di maggioranza del PD, e alla sua sinistra si è aperto un formicolio di iniziative, la più grossa delle quali è la “coalizione sociale”. Cosa c’entra, si dirà, il libro di Vacca con questo sommovimento politico, innescato dall’irrompere a colpi di primarie dell’ex strillone fiorentino? C’entra, perché quel libro, e in altra misura anche quello di Rossi, su cui in questo sito si è già intervenuti4, e su cui tornerò più sotto, apparivano come il manifesto ideologico di un PD che, avvicinandosi alla meta di un governo riformista ritenuto di lunga durata, si proponeva come il compimento della tradizione comunista togliattiana, le cui radici stavano in un Gramsci depurato dalla contaminazione bolscevica, democratico, moderno, americanista, strettamente incardinato nel produttivismo occidentale. Ecco qualche esempio in cui questa elaborazione ideologica appariva chiara nel suo metodo. Prendiamo la parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, su cui Gramsci insiste dal carcere, come strumento per attuare nella nuova situazione del fascismo imperante l’alleanza rivoluzionaria tra operai e contadini già prospettata all’inizio degli anni Venti. Nella ricostruzione che con lunghe formule Vacca ne fa alle pagine 155-157, Gramsci ipotizzerebbe che se il proletariato vuole riattivare le condizioni della lotta per il socialismo, deve prioritariamente battersi per rimuovere l’occupazione politico-militare del territorio nazionale da parte del fascismo. Questo obiettivo preliminare è imposto dal fatto che tale lotta avviene in un contesto mondiale dominato dalla rivoluzione passiva e dalla guerra di posizione, che trasformano la politica da lotta rivoluzionaria in lotta per l’egemonia. Ma che cos’è l’egemonia? L’egemonia è la lotta che si svolge sul terreno di uno Stato democratico, il quale però non prevede nelle sue finalità l’avvento della dittatura del proletariato. Ma prevede almeno il raggiungimento del socialismo? Su questo Vacca nella sua ricostruzione è assai riservato, anzi, se si considera che egli attribuisce a Gramsci un giudizio secondo il quale il comunismo sarebbe un comprimario, importante ma subordinato, del movimento mondiale di programmazione economica della struttura del mondo, guidato dalla borghesia più moderna (p. 140), si direbbe che anche il socialismo non è compreso nelle finalità dello Stato democratico partorito dall’Assemblea Costituente. Ciò che l’egemonia assicurerebbe, allora, sarebbe solo l’esistenza di un partito la cui lotta per definizione non può concretarsi né nella dittatura del proletariato, né tanto meno nel socialismo. Si dirà che è quel che è accaduto. Ed è anche ideologicamente legittimo ricostruire il passato in modo che l’Assemblea Costituente di Gramsci appaia come il germe di quel gramscitogliattismo che dalle vicende del dopoguerra in poi culmina nel PD, cioè nel partito divenuto ormai compiutamente “macchina per il governo” perfettamente adattata alla “democrazia”. Ma siccome qui siamo in sede di ricostruzione storiografica, non si capisce perché attribuire a Gramsci una ricostruzione ideologica in cui il proletariato dovrebbe lottare per la propria auto-dissoluzione. Gramsci è un pensatore paradossale, dilemmatico, se si vuole, anche utopistico, ma mai sofistico. Vacca, e veniamo così ad un secondo esempio del suo metodo, è molto attaccato all’idea della grande borghesia moderna che programma la struttura del mondo, e così, a proposito di Q. 8, § 185, p. 1053, dicembre 1931, si inerpica in un funambolico commento sulla povertà di elementi di piano della pianificazione sovietica, ahimé basata solo sugli schemi della riproduzione allargata del volume II del Capitale, e non sugli elaborati diagrammi della performante regolazione fordista. Ma se si legge quel passo di Gramsci senza l’ansia di essere più fordisti di Ford, si vede che esso ha tutt’altro senso che il riconoscimento della subalternità del comunismo, e in particolare del comunismo sovietico, rispetto alla potenza programmatoria della “borghesia più moderna”. Anzi, quel brano appare assai simile a quanto Stalin sosterrà, vent’anni dopo, nel suo famoso intervento sulla linguistica, a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastrutura. Leggiamo il brano di Gramsci:

Fase economica‑corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico‑corporativa, se ne deduce che il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione5.

E adesso leggiamo il passo di Stalin:

Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale, indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi. Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e cessi di essere una sovrastruttura. Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura6.

Somiglianze e differenze fra i due brani sono evidenti. Stalin è concentrato sulla funzione permanentemente strumentale della sovrastruttura, mentre Gramsci evidenzia un processo nel quale tale funzione è iniziale e comunque sempre transeunte. Entrambi però fanno parte di un campo ideologico che non mostra alcuna subalternità verso l’avversario capitalistico grande-borghese. Ma ecco un terzo esempio del metodo di Vacca, che si evidenzia in una sua definizione di rivoluzione passiva: «Il concetto di rivoluzione passiva designa un mutamento del processo storico mondiale, caratterizzato da una soggettività delle masse che si può condizionare e dirigere in un senso o in un altro, ma non si può sopprimere. Nella sua generalizzazione, si applica a tutta l’epoca moderna e, per quanto attiene al periodo fra le due guerre presuppone una (temporanea?) subalternità del movimento comunista internazionale alla direzione capitalistica del processo storico mondiale» (p. 129). In questa sinfonia verbale, la nota dominante, sapientemente nascosta, è quel “temporanea” messo tra parentesi e seguito da un punto interrogativo. La domanda è: subalternità temporanea nel periodo fra le due guerre, o temporanea in tutta l’epoca moderna? Nel primo caso, indicherebbe la speranza-illusione di Gramsci, nel secondo il dubbio di Vacca. Ora, tenuto conto che Gramsci muore nel ’37, e non possiede quindi il concetto di qualcosa che sta tra le due guerre, logica impone che il referente sia il dubbio di Vacca, il quale non solo possiede tale concetto ma, fortunato lui, ha tutta la visuale dell’epoca moderna. Peccato, però, che nonostante ciò, questo dubbio non possa mai essere risolto. Non abbiamo forse visto che il proletariato è svanito tra le spire della lotta democratica per il potere? Niente proletariato, niente comunismo, niente subalternità del comunismo alla direzione capitalistica del processo storico mondiale. Solo la notte nera della rivoluzione passiva dove, ancora una volta, non resta che il partito, come “macchina per il governo” propria dell’epoca della “borghesia più moderna”7. Ma nella fascinazione, per la verità ormai démodé, per la “grande borghesia moderna” e per “i punti alti dello sviluppo capitalistico”, c’è chi va molto più in là di Vacca, ed è Angelo Rossi, suo alterno compagno di ricerche e di sentire politico. Nella contrapposizione che egli ritiene di rilevare in Gramsci, tra il “marxismo sovietico” e la “filosofia della praxis”, tra Oriente e Occidente, il marxismo-leninismo costituirebbe «il dogmatismo, l’ideologia di un paese arretrato, “troppo contadino”, che non può costiuire un modello per i paesi che si collocano nei punti alti dello sviluppo capitalistico»8. Secondo Rossi, «il giudizio di Gramsci è che l’URSS […] può raggiungere risultati che la mettano in condizioni di competere solo quando si sarà formata un’intellettualità capace di svolgere le stesse funzioni assolte in Occidente, in America e in Europa, dagli intellettuali»9. E ancora: «La rozzezza del marxismo-leninismo, la sua pretesa di costituire la verità, il suo approccio alla varietà dei saperi e alla complicazione delle tecniche, tutto gli appariva così povero da costituire un insormontabile ostacolo ad una partecipazione cosciente alla modernizzaizone che lo sviluppo dell’americanismo imponeva»10. Eppure questo Gramsci così liquidatorio dell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, è lo stesso individuo che nel 1919 scriveva:

I bolscevichi in Russia hanno ristabilito l’ordine sociale, corrotto dai burocratici dello zarismo e dalla fraseologia democratica di Kerenskij. Hanno riorganizzato l’industria, per quanto era possibile farlo col blocco e con la guerra. Hanno eliminato tutte le cause di sperprero e di dissoluzione; perciò hanno resistito due anni alle aggressioni militiari su un fronte di 15 mila kilometri, e dopo due anni, vinti, nella guerra coi tedeschi, hanno vinto la coalizione mondiale delle nazioni vincitrici dell’intesa e della Germania stessa. Solo una società ordinata, disciplinata, forte nelle sue istituzioni economiche e politiche, poteva resistere tanto tempo e vincere così clamorosamente. Il bolscevismo (il comunismo) è l’ordine e la disciplina che i lavoratori hanno instaurato solidalmente. L’antibolscevismo è la corruzione, il disordine, la dissoluzione che continua fino alla catastrofe11.

D’accordo, qui siamo prima della morte di Lenin, prima dello scontro nel partito fra i suoi eredi, prima della lettera a Togliatti del 1926, prima del regime staliniano e di tutto quello che ne è seguito, sino alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica che Gramsci, a differenza di Rossi, non vide. Ma prendiamo quanto Gramsci scriveva qualche tempo dopo il passo che prima abbiamo letto:

Costruire una società comunistica vuol dire anzitutto fare in modo che la lotta di classe porti alla creazione di organismi i quali abbiano la capacità di poter dar forma a tutta la umanità. Un organismo, un istituto è tanto più rivoluzionario quanto più contiene in sé questa possibilità di sviluppo12.

Qui non siamo più davanti ad un giudizio storico, ma ad una definizione teorica, così come del resto si può constatare in quest’altro passo, che risale addirittura al Gramsci pre-ordinovista, quello che, un po’ maliziosamente, quasi a svalutarne la portata, viene chiamato il Gramsci degli “scritti giovanili”:

La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. […] Il giacobinismo è un fenomeno puramente borghese: esso caraterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe. […] Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l’ordine vecchio, impone l’ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario. La rivoluzine russa ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne. All’autoritarismo ha sostituito la libertà, alla costituzione ha sostiuito la libera voce della coscienza universale13.

Di fronte a questi paradossi, che prosciugano fiumi di chiacchiere sul “giacobinismo” della rivoluzione russa, e storicizzano l’elitismo che pretende invece di essere atemporale (la casta borghese che, restando sul terreno autoritario, sostituisce la casta aristocratica), la domanda che bisognerebbe porsi è se la loro ispirazione non sopravviva sin dentro ai Quaderni, sin dentro al cruciale concetto di egemonia. Che cos’è, infatti, questo rifiuto dell’elitismo, se non il germe dell’egemonia come sarà poi sviluppata nei Quaderni? Certo, se per egemonia si intende lotta non violenta per il potere, oppure potere prestigioso con cui controllare il potenziale d’azione altrui, allora di quel germe giovanile non resta niente. Ma se per egemonia si intende sostituzione del comando con la reciprocità, allora non deve sorprendere se Gramsci, già dirigente politico, già combattente sconfitto e incarcerato, ancora nel 1931-32, in stesura unica, quindi definitiva, nei Quaderni può scrivere:

Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale14.

Un passo, come si vede, dove si manifesta nel modo più sintentico il nucleo permanente del pensiero di Gramsci, che è lotta teorica e pratica per l’affermazione del valore universale della reciprocità. Opporre dunque un giovane Gramsci “liberal-libertario”, caduto nella “deviazione” bolscevica, ad un Gramsci maturo che con il concetto di egemonia sposa la lotta di potere democratica, moderna, riformatrice e produttivistica, è una mistificazione che, nel mentre nega l’unità ideologica del pensiero di Gramsci, finisce per inscriversi in posizione subalterna nel più generale paradigma del Gramsci che abiura. Ritornando a Vacca, un ultimo esempio del suo metodo su cui voglio soffermarmi, è il modo in cui tratta le note sul Concordato contenute nel Quaderni. Qui Gramsci si sofferma sulle cause culturali di lungo periodo che inducono lo Stato a cedere con il Concordato una parte della sua sovranità alla Chiesa, e delinea una concezione della questione cattolica tutt’altro che compromissoria, poiché indica nella riunificazione intellettuale e morale del paese, di cui i nuovi intellettuali espressione delle classi subalterne dovrebbero essere protagonisti, la via per il superamento, ad un tempo, del confessionalismo e del laicismo cavourriano del “libera Chiesa in libero Stato”15. Dal canto suo, in una presa di posizione della fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, Togliatti spiegò l’intento con cui votò l’art. 7 che recepiva il Concordato nella nuova Costituzione repubblicana: sarebbe stata la trasformazione strutturale derivante dall’applicazione progressiva e integrale del programma della Costituzione, a rendere così forte la sovranità della Repubblica, da ridurre la Chiesa ad un’articolazione “interna” della Repubblica stessa. Il Concordato, allora, avrebbe costituito la disciplina formale di questo rapporto di forze favorevole allo Stato repubblicano16. A quasi settant’anni di distanza, bisognerebbe ammettere che questa ardita scommessa è fallita, poiché da subito i rapporti di forza volsero contro il processo assimilatore, e il Concordato che doveva diventare il limite, in realtà divenne fonte di privilegi, che le successive revisioni hanno sistematizzato ed ampliato sino a quello che gli stessi cattolici “adulti” denunciano come una oscenità simoniaca, ovvero l’8 per mille17. Ora, di fronte a questi esiti storici, che imporrebbero una discussione sulla differenza tra l’analisi egemonica di Gramsci e la pratica assimilatrice di Togliatti, anche al fine di una riflessione attuale sulla questione cattolica scevra da fideismi di ritorno, Vacca, sempre facondo nell’esegesi, in questo caso si limita a relegare le note di Gramsci in una assai poco onorevole nota furtiva (pp. 180-81, n. 14). È qui, allora, che si ha netta l’impressione che il manifesto ideologico sotteso al suo palinsesto storiografico, non solo arriva a tempo scaduto ma, ascrivendo Gramsci ad una tradizione politica che ne ha, se non mistificato, certo edulcorato il pensiero, ne fa un monumento che non ha più nulla da dire su un presente in cui il capitalismo si trova in un punto non già alto, ma addirittura assoluto, del suo sviluppo. La realtà, però, non si adegua a tale assolutezza e, come ho ricordato all’inizio, alla metamorfosi finale del PD è seguita la reazione di un formicolio di iniziative, fra le quali quella della “coalizione sociale”. La “coalizione sociale”, o qualsiasi altra cosa che, per vastità e influenza, dovesse un giorno prendere il posto delle defunta “ditta”, non può però che avere un’ispirazione egemonica, perché un semplice ritorno al mutualismo arrabbiato non avrebbe futuro. Ma deve trattarsi di un’egemonia presa sul serio. L’egemonia è un concetto critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. Nel suo lato critico e analitico, corrisponde all’egemonia in atto, insediatasi nel momento in cui il capitale si è trasformato da momento logico-formale in fatto storico-reale, radicandosi nel sentimento di distinzione, che alimenta la “privatezza” della “società svivile”, e nel comando, che, a seconda delle epoche storiche, può essere alternativamente a predominanza economica o statuale. Nel suo lato finalistico e normativo, esso corrisponde alla nuova egemonia, che è la sostituzione della distinzione con la cooperazione e del comando con la reciprocità. La nuova egemonia, nella misura in cui le nazioni nel loro sviluppo sono tutte attratte nella cerchia del capitale, è un ideale che concerne la stessa condizione umana. Fra queste due forme di egemonia, esiste un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi in cui viene riconosciuto il punto di vista dell’altro, per assimilarlo alla norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Dal dopoguerra ad oggi, nelle differenti tradizioni nazionali, questa strategia è stata praticata però in modo tale che la forza proponente, anziché assimilare l’altro a tale norma più universale ed astratta, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Per limitarci alla nostra tradizione nazionale, la riscoperta del fine dovrebbe tradursi in quella “repubblica federale” che già Gramsci, nella morfologia sociale del suo tempo, proponeva quale reciproco riconoscimento tra gli operai e i contadini, e che oggi può riproporsi fra i differenti soggetti che, tanto sulla superfice nazionale, quanto nella struttura produttiva, hanno oggettivamente l’interesse al superamento dell’assolutismo capitalistico. C’è bisogno, allora, tramontati definitivamente i tempi della compassata “battaglia delle idee”, di un’intensa lotta ideologica volta a promuovere questa “presa di coscienza”, ad opera di una nuova leva di intellettuali interessati a ristabilire un’autonomia di pensiero lesa prima da quella antica cessione di sovranità denunciata da Gramsci, poi dal più recente asservimento mediatico. E questo non può che preludere ad un rapporto meno irenico e subalterno con il cattolicesimo che, per quanto scosso e sfibrato, con il rilancio sulla “questione sociale” dell’attuale papato mantiene la sua presa ideologica, specie in questo momento di disunione nazionale. La revisione dell’art. 7 sarebbe perciò altrettanto necessaria dell’abolizione dell’art. 81 sul pareggio di bilancio e di una disciplina “dissolutrice” dei monopoli mediatici, e su questi assi potrebbe prendere corpo il progetto di una nuova scuola, riportata alla sua funzione di formatrice della mente nazionale. Queste ed altre suggestioni si potrebbero trarre da una lettura non più ossessivamente filologica e nemmeno surrettiziamente ideologica dell’opera di Gramsci, non solo dei Quaderni, ma anche degli scritti pre-carcerari. Recentemente, è stato messo in evidenza come lo specifico della filosofia italiana consista nella tensione tra vita e norma18. Come ho cercato di mostrare, una lettura unitaria dell’opera di Gramsci mostra che il suo autore è sì un eterodosso, ma non solo rispetto al marxismo sovietico, con il suo recupero dell’idea marxiana di libertà, bensì anche nei confronti di una cultura nazionale, tanto marxista quanto e ancor più liberale o generalmente “laica”, che più o meno inconsapevolmente è elitistica, di quell’elitismo con cui l’ideologia italiana sublima in una chiusura verticistica la sua irrisolta tensione tra vita e norma, la quale dunque non è da rivendicare, ma da sottoporre a quella terapia riformatrice, per la quale Gramsci impegnò la sua vita19.

  1. G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937, Torino, Einaudi, 2012. I riferimenti a quest’opera vengono dati direttamente nel testo. []
  2. L. Wittgenstein, Lettere 1941-1951, Milano, Adelphi, 2012, p. 398. []
  3. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein and Gramsci, “Journal of Economics Literature”, vol. XLI (Dec. 2003), p. 1252. []
  4. F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di A. Rossi, http://duemilaventi.net/lineludibile-principio-proposito-libro-angelo-rossi-gramsci/ []
  5. Q. 8, § 185, p. 1053 []
  6. J. V. Stalin, A proposito del marxismo nella linguistica, (1950), in L. Formigari, Marxismo e teorie della lingua. Fonti e discussioni, Messina, La Libra, 1973, pp. 238-39. []
  7. Su questo punto, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014,p. 22. []
  9. Ibidem. []
  10. A. Rossi, Gramsci in carcere, cit., p. 23. []
  11. “Bolscevichi e antibolscevichi”, Avanti!, XXIII, n. 317, 16 novembre 1919, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 90. []
  12. “L’esempio della Russia”, Ordine nuovo, I, n. 33, 10-17 gennaio 1920, ripubblicato in A. Gramsci, Per la verità, cit., p. 97. []
  13. Note sulla rivoluzione russa, “Il grido del Popolo”, 29 aprile 1917, XXII, n. 666, ripubblicato in Scritti giovanili, Torino, Einaudi, 19754, p. 106. []
  14. Q. 8, § 179, p. 1050. []
  15. Q. 4, § 53, pp. 493-498, poi Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  16. P. Togliatti, Una proposta massimalista: abolire il Concordato, “Rinascita”, a. XVI, n. 5, maggio 1957, pp. 206-209, poi in Id., La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Milano, Bompiani, 2014, pp. 2242-2251. []
  17. A. Melloni, G. Ruggeri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Roma, Carocci, 2010, p. 139. Nella progressiva spoliazione della sovranità dello Stato che caratterizza il momento presente, si parla addirittura di un Concordato con gli atei, in base ad un principio di eguaglianza costituzionale evidentemente ridotto al suo puro formalismo. Cfr. R. Alciati, Rivedendo la revisione. Trent’anni dopo il nuovo Concordato. Intervista a Francesco Margiotta Broglio, “Historia magistra”, VI, 16, 2014, pp. 91-101 []
  18. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010. []
  19. È singolare che, nella sua ricostruzione, Roberto Esposito non abbia dedicato alcun cenno all’elitismo di Mosca e soprattutto di Pareto, che si può considerare come la formalizzazione filosofica di una costante dell’ideologia italiana. []

Eurasismo: l’ostacolo ucraino

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  L’Ucraina è un grosso ostacolo al disegno eurasiatico di Putin, e in generale per l’ideologia eurasiatica. Da Trubetskoj a Dugin, l’eurasismo si è sempre presentato come un concetto reale, che ha il consenso spontaneo dei popoli, se non di tutti i popoli che vanno da Lisbona a Vladivostok, certamente dei popoli slavi1. Ma la ribellione ucraina, che ha scisso in due quel paese, mostra che l’eurasismo suscita contrasti, e questo lo indebolisce perché significa che la sua egemonia non è spontanea, come pure sosteneva. In parte, la questione si era posta nei Balcani, negli anni Novanta del secolo scorso, quando la Serbia era più propensa a guardare alla Russia, mentre croati e soprattutto sloveni si volsero subito verso l’ambìto marco tedesco. Ma a che cosa si oppone l’eurasismo? L’eurasismo si oppone all’americanismo. Tanto questo afferma i valori dell’individuo, della globalizzazione e dei diritti umani universali, tanto l’eurasismo afferma i valori della comunità, dei mondi a parte e del pluralismo antropologico2. È il valore comunitario che spiega la confluenza di estrema sinistra ed estrema destra nel sostegno ai filo-russi d’Ucraina. Solo che, almeno in una visione “ortodossa”, per l’estrema sinistra la comunità è una costruzione “razionale”, per l’estrema destra, invece, un prodotto della “tradizione”. Al momento, queste particolarità ideologiche sono sospese, e nessuno può dire se un domani riprenderanno il sopravvento, o avverrà una fusione permanente. Contro questa fusione, milita intanto l’estrema destra che sostiene, anche sul campo, i nazionalisti filo-occidentali di Kiev. Qui può la “razionalità” sedimentata dal ricordo storico dei nazisti che, alleati di Hitler, combatterono contro i “bolscevichi”, nella seconda guerra mondiale, cui fa da contrappeso l’accusa di Putin a quelli di Kiev di essere dei “nazisti”. Ma tornando al contrasto tra eurasismo ed americanismo, non sono solo i contenuti ideologici a differenziare i due movimenti. Essi si differenziano anche per il loro rapporto con l’egemonia. L’eurasismo, l’abbiamo detto, rivendica il consenso spontaneo dei popoli in cui risiede lo spirito eurasiatico, ma non pretende di essere il vertice dello sviluppo dello spirito umano. Al contrario, esso proclama la coesistenza tra le varie culture umane3, e questo la dice lunga su certa disinformazione nostrana, che vuole la Russia protesa a ricostruire l’impero zarista o sovietico, dimenticando che questi imperi non furono mai un sistema coloniale mondiale, come quello, ad esempio, britannico, ma una fortezza circoscritta ad un territorio contiguo, per quanto immenso fosse. L’eurasimo, insomma, si batte per il mantenimento di un “mondo a parte”, e in generale dei “mondi a parte”, ed ecco perché suscita simpatia in coloro che vedono la “globalizzazione” come un pericolo, laddove “globalizzazione” è sinonimo di americanismo. Come dicevamo, per l’eurasismo, l’Ucraina è una grossa difficoltà, in parte però ricompensata dalla spontanea adesione alla Russia, il centro eurasiatico slavo, della Crimea e delle regioni orientali della stessa Ucraina, e non è un falso dire “spontanea” perché è inverosimile che Putin, per quanto rotto ai “metodi” sovietici, abbia manipolato l’80% della popolazione di quei territori, al momento del referendum4. Gli eurasisti possono ben dire, perciò, che la ribellione di Kiev, avvenuta sovvertendo con manifestazioni di piazza un governo democraticamente eletto, come non si può non riconoscere, è dovuta alla sobillazione dell’americanismo e dei suoi organi politici e militari, la Nato in testa, ma anche l’Unione europea, percepita come un’appendice mercantilistica dell’americanismo. Qui si può notare l’altra differenza che dicevamo circa il rapporto con l’egemonia. L’americanismo, infatti, pretende di essere norma universale e si arma per imporla, sia metaforicamente, con la forza dell’economia e del consumo, sia militarmente, occupando e intervenendo in nome della guerra giusta, della difesa dei diritti umani, della lotta al terrorismo. È vero che in Ucraina non è ancora intervenuto militarmente, ma la minaccia di costruire basi Nato, per quanto su “pressante” richiesta di forze “interne”, è un drappo rosso agitato davanti agli occhi di Putin, un mezzo per costringerlo ad una logica da guerra fredda, e far scadere l’eurasismo ad orpello ideologico delle sue mire geopolitiche. Ma tornando alle differenze tra le due ideologie, possiamo riassumere dicendo che l’eurasismo si fonda sull’egemonia in atto, l’egemonia assicurata dai legami comunitari tradizionali. L’americanismo, invece, si fonda sulla nuova egemonia, sull’egemonia che deve essere costruita, e che impone ai popoli riforme e trasformazioni. Questo carattere tecnicamente “rivoluzionario” dell’americanismo fu visto da Gramsci, che lo giudicò come l’espressione più genuina della vita moderna, a differenza del bolscevismo staliniano che ai suoi occhi era rozzo e primitivo5. Certo, sorprende che egli non dedicò alcuna attenzione all’eurasismo. Difficile credere che si trattò solo di misconoscenza. Fra i suoi teorici c’era un linguista come Trubetskoj, anche se all’epoca non era così conosciuto come lo divenne dopo, e ciò avrebbe potuto attirare la sua attenzione, nei suoi contatti con la cultura russa (ma se è per questo, non pare che egli sia stato attratto dal formalismo russo). Forse c’è una ragione profonda, e cioè che l’americanismo con la sua apertura universale gli offriva un modello di ciò che egli pensava dovesse essere un movimento rivoluzionario in Occidente. Il proletariato doveva promuovere l’uomo nuovo, il Leonardo da Vinci di massa, e questo poteva accadere impadronendosi della grammatica dell’americanismo, con la sua attenzione per gli aspetti tecnici della produzione e per la standardizzazione del lavoro e della vita quotidiana. Questo forse fu anche un limite della riflessione di Gramsci, perché egli non vide che impadronirsi di tale grammatica, autoimporsi la sua norma nel “corpo”, non avrebbe liberato automaticamente il “cervello” dei subalterni, come egli si esprimeva6. In altre parole, non avrebbe loro assicurato automaticamente l’egemonia sulla società moderna, senza contemporaneamente affrontare il problema marxiano dell’alienazione. L’accento sul legame comunitario “tradizionale” proprio dell’eurasismo forse avrebbe potuto suggerirgli una sintesi, per cui la nuova egemonia non avrebbe dovuto essere solo l’impossessamento da parte dei subalterni della tecnica produttiva, economica linguistica o culturale che fosse, ma nel suo universalismo avrebbe dovuto rendere l’individuo a se stesso, disalienarlo, reintegrarlo nella comunità, che certamente non avrebbe più dovuto essere la comunità particolaristica delle singole tradizioni culturali, ma la comunità sorta dalla loro convergenza e fusione attorno al valore universale della relazione tra soggetto e oggetto, resa al suo libero movimento, quel movimento che, ancora da redattore dell’Ordine Nuovo, lo induceva a tradurre il panta rei eracliteo come “Tutto si muove!”7. E, forse, questa questione così apparentemente “metafisica”, è oggi la questione che nella polvere e nel sangue della guerra ucraina, dobbiamo ancora affrontare.

  1. N. Trubetskoj, Il nazionalismo paneurasiatico, «Eurasia», 1/2004, pp. 25-37; A. Dugin, L’idea eurasiatista, ivi, pp. 7-23; A. Dugin, La visione eurasiatistica, «Eurasia», 1/2005, pp. 7-24. []
  2. A. Dugin, L’idea eurasiatista, cit., e A. Dugin, La visione eurasiatistica, cit. []
  3. Cfr. sempre gli articoli di Dugin prima citati. []
  4. A posteriori, in un articolo gonfio di pregiudizi, si riconosce che «del resto, paradossalmente, Mosca avrebbe presumibilmente vinto un referendum crimeano affidato alle Nazioni Unite o all’Osce senza dover ricorrere a forze mascherate e incorrere nella generale riprovazione e nelle sanzioni economiche, tecnologiche e soprattutto finanziarie», laddove non si capisce dove stia il “paradosso”, se non nella preconcetta ostilità dell’articolista (F. Salleo, Lo strabismo di Putin, “la Repubblica”, 12.9.2014, p. 31). []
  5. Su questo punto, v. il recente libro di Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida, 2014, che discuteremo prossimamente. []
  6. V. nell’edizione critica di V. Gerratana (Torino, Einaudi, 1975, voll. 4) il Q. 22, § 12, pp. 2170-2171. []
  7. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 90, lettera al militante socialista Leo Galeno del febbraio 1918. []