Erdogan

Golpe in Turchia, se il popolo ama Erdogan

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Chissà se esiste una memoria delle immagini collettiva, ma quel tipo muscoloso che, a torso nudo, si è parato davanti al carro armato, nel corso del tentato golpe in Turchia, pare che non aspettasse altro nella vita che di poter riprodurre il manifestante che, nel 1989, si parò davanti alla fila di tank che avanzavano su Tien An Men. È vero, quest’ultimo era più esile e con la camicia bianca, ma il gesto è uguale, fare la storia in difesa della libertà. Ma i carri armati sono tutti uguali? A Pechino, i carri armati portarono a termine le riforme economiche avviate dieci anni prima da Deng Xiaoping, mettendo in riga un partito dove ancora covava il fuoco di pericolose idealità rivoluzionarie. I carri armati spiegarono bene che era lecito e doveroso arricchirsi, ma bisognava lasciar perdere ogni velleità di socialismo democratico, una confusa miscela che avrebbe portato di lì a poco al tracollo di Gorbaciov. E qui c’è l’altra analogia che il fallito golpe turco richiama. Chi si ricorda più di Jazov, Janaev, Krjučkov, Pugo, Pavlov, Varennikov? Formavano il comitato di salute pubblica che diresse il colpo di stato che, nell’agosto 1991, si riprometteva di ripristinare l’autorità del PCUS, scossa da un decennio di glasnost e perestrojka, la trasparenza e la ristrutturazione con cui Gorbaciov tentò di rendere astemia l’URSS. Anche quello fu un colpo di stato che, tra sparatorie a casaccio e inadeguatezze dei protagonisti, fallì miseramente, finendo per rafforzare chi voleva eliminare. In quel caso, Eltsin che, formidabile bevitore, montato su un carro armato compiacente, arringò la folla in difesa della libertà. La quale prese tosto possesso dei territori dell’ex Unione Sovietica, e nel giro di un decennio ridusse drasticamente l’aspettativa di vita dei suoi abitanti. Erdogan, anche lui autore di crociate contro l’alcool, ha avuto però la vita più facile di Eltsin, perché standosene al coperto, ha potuto occhieggiare da uno smartphone graziosamente sorretto da una vestale della libera informazione. Da lì, mentre il suo aereo volteggiava nei cieli della Turchia, in attesa di atterrare nel punto più affollato di fedeli supporter, ha incitato il popolo a resistere. Ma questi militari turchi i sondaggi non li leggono? Non sapevano che Erdogan ha un buon cinquanta per cento e passa di gradimento? Il popolo lo ama, perché con lui dalla stessa fonte sgorgano la fratellanza musulmana e la possibilità di “guadagnare denaro vero”1. Con lui, i turchi, che la laicità occidentalizzante di Atatürk alienava culturalmente e deprimeva economicamente, possono pregare e arricchirsi. Non era forse Maometto un ricco commerciante? Erdogan è un miscuglio di Eltsin e di Deng Xiaoping, e i militari sono solo i patetici rappresentanti di una antiquata modernizzazione che il popolo rifiuta in blocco. Il “popolo”, questa immensa campagna che, sotto le più varie insegne, ma tutte richiamantesi alla libertà, è attratta da ogni punto del globo nella fornace insaziabile di un modo di produzione che promette ricchezza ma regala stagnazione.

  1. P. G. Brera, “Ora noi studentesse possiamo tenere il velo. Erdogan ci difende”, la Repubblica, 14.7.2016, p. 12. []

Omeomorfismi

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In questo inizio di millennio, la dialettica appare sempre più scatenata nella sarabanda delle sue inversioni. Si considerino i seguenti eventi: a Tunisi, tre ragazze del movimento internazionale delle femens, si denudano il seno davanti al Ministero della Giustizia, per protestare contro la detenzione di Amina, una giovane tunisina che le ha eroicamente precedute in quella stessa pratica; a Istanbul, turchi di ogni età, sesso e professione protestano, tra bandiere rosse tornate a garrire al vento e getti di idranti e lacrimogeni polizieschi, a difesa di un parco di seicento alberi, minacciato di distruzione per far posto ad un megacentro commerciale e ad una nuova moschea; a Francoforte, manifestanti, ai quali i pavidi media italiani non dedicano la minima attenzione, protestano davanti alla sede della BCE contro quel “pilota automatico”, evocato da Mario Draghi, che esautora i governi e rende l’economia una forza perfettamente aliena. Come direbbero i pedanti cultori dell’intelletto astratto, è la linea dei diritti che avanza, manifestandosi per “equivalenti omeomorfi” nei differenti contesti storici e geografici: diritti civili, ecologici, sociali. Ma queste “passioni” della mente sociale rischiano di imbozzolarsi nella loro soggettività se non si collegano alle profondità della struttura. La coscienza del parco a Instabul è nata quando Erdogan ha promosso l’uso massiccio delle carte di credito, e il seno nudo di Amina è il vettore del flusso di merci che preme per riversarsi nei cunicoli stretti della società tunisina. È irritante doverlo ricordare, ma la lingua dei diritti è parlata alla perfezione dal capitalismo assoluto. A modo suo, Erdogan sembra averlo capito, ma non è certo giustapponendo la moschea al centro commerciale che sfuggirà, da un lato, all’avversione del ceto medio “modernizzato” da lui stesso promosso, dall’altro, alle richieste sempre più stringenti di quel capitalismo che egli si illude di ricondurre alla ragion politica del Corano. Sono questi leader incapaci di sintesi dialettiche che rendono “invisibili” lotte come quelle dei ragazzi di Francoforte, relegate così ad una spontaneità che non turba la perfezione olimpica dell’oderna religione della merce.