Plaza de Mayo

Il giudice e il papa

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Nessuno è andato a vedere il colore dei calzini del giudice Thomas Griesa, perché Eugenio Scalfari queste cose non le fa, ma la sua ordinanza che, dall’alto della corte federale di New York, ha ingiunto allo stato sovrano dell’Argentina di corrispondere ai fondi speculativi il rimborso integrale dei bond spazzatura, acquistati a prezzo vile all’epoca del default del paese sudamericano, costituisce un chiaro avvertimento per l’intimo amico del fondatore di “Repubblica”, ovvero Jorge Antonio Bergoglio, il papa venuto dalla “fine del mondo”. Costui, infatti, si azzarda a stigmatizzare con insistenza “il sistema economico che sfrutta l’uomo”, e allora, affinché non sussistano equivoci, il giudice Griesa, con il sicuro istinto che gli deriva dalla sua calvinistica etica della convinzione”, gli ha ricordato cosa può fare ancora di buono questo “sistema” per la patria di papa Francesco, un ulteriore default, questa volta solo “tecnico”, come ci spiegano gli economisti bennati, ma sufficiente a ribadire la lezione a questa nazione che, dopo la “purga” dei generali, negli anni Settanta, e la “rivoluzione culturale” di Menem, negli anni Novanta, si ostina ancora a perseguire la propria riottosa essenza, fornendo addirittura al soglio di Pietro un suo così molesto esponente. A questo punto, non si capisce perché il gesuita argentino, ma forse si capisce perché è un prudente gesuita oltreché un solare argentino, tarda ancora a recarsi a Plaza de Mayo, ad intimare il suo “Pentitevi”, dal balcone del Palazzo del Governo, agli assassini dei trentamila desaparecidos argentini, sacrificati sull’altare di uno dei primissimi interventi “normalizzatori”, all’origine di quest’epoca di assolutismo capitalistico in cui siamo immersi. Dopotutto, molti di quei filantropi, a cominciare da Kissinger, il padrino di Pinochet, antesignano dei generali argentini, sono ancora in vita, e sarebbe un bello spettacolo vedere la loro faccia ad essere segnati a dito da una mano pontificale. O debbono pentirsi solo i mafiosi?

Papa Gorbaciov

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Si direbbe che il pesce ha abboccato all’amo. Ma si potrebbe anche dire che, il pesce, non aspettava altro che di abboccare. Questo viene da osservare, assistendo al “dialogo” andato in scena, nei giorni scorsi, su la Repubblica tra un Eugenio Scalfari sempre più sussiegosamente “illuminista”, e un Papa Francesco sempre più arditamente “riformatore”. Il riformismo di Francesco, naturalmente, non ha niente a che fare con quello di cui tutti si riempiono la bocca da un ventennio a questa parte, in Italia, ma richiama da vicino invece la perestrojka di Gorbaciov. Bergoglio è succeduto ad un cupo ideologo, Ratzinger, una specie di Suslov dimessosi, anzi, autodecapitatosi perché offeso dall’insensibilità delle moltitudini ai suoi predicozzi sofistici, e Francesco, da buon gesuita sudamericano, ha tratto lezione da questo evento: il mondo resiste e la nave affonda, bisogna buttar giù la zavorra. A Scalfari, perciò, che gli chiedeva, con la tipica malizia del “laico tollerante”, se Dio perdona anche i peccati di chi non crede, Francesco ha rispoto che chi agisce in conformità con la propria coscienza, non fa peccato. Le giulebbe di Scalfari! Ha fatto stampare subito un decreto con tanto di sigillo di ceralacca, e lo ha proclamato a tutte le genti: la Chiesa è finalmente entrata nella modernità. Placate le ubbie delle élites, solleticandone la vanità con il riconoscimento dell’“autonomia della coscienza”, Francesco poi s’è messo a fare cose di maggior sostanza, come proclamare un digiuno contro l’ennesima voglia di menar le mani degli Stati Uniti, questa volta contro la Siria, andare a visitare in utilitaria un centro immigrati, telefonare dall’altra parte del mondo alla vittima di uno stupro, e questo dopo aver incendiato, lui argentino, le masse brasiliane, e aver rivendicato da Lampedusa il nostro essere tutti migranti. Insomma, mentre Ratzinger predicava il suo libresco anticapitalismo nei chiusi consensi ai cardinali, i quali, appena fuori, si sfrenavano nelle più accese combinazioni di sesso, denaro e potere, Francesco lo pratica con tutta la potenza che può avere un disperato, cui ormai resta solo poco tempo, prima di soccombere sotto le macerie della magnifica ma fatiscente istituzione che governa. Qui la sua perestrojka si rivela con il segno opposto a quella di Gorby. Infatti, il segretario generale con la voglia in fronte buttava nella fornace palate e palate di ideologia, e mentre invocava il “ritorno a Lenin”, e si illudeva di edificare una “federazione democratica”, apriva di fatto la strada a quel capitalismo assoluto che l’avrebbe sbalzato di sella, preferendogli il più rustico Eltsin. Francesco deve fare esattamente il contrario. Se egli vuole salvare la nave che affonda, deve combinare la profondità del sentimento di giustizia con la logica strumentale del piacere. È qui che egli potrà ritrovare il contatto con le masse, e far fronte contemporaneamente al temibile ritorno della religione sessuale. Il suo anticapitalismo, la sua critica all’alienazione della vita contemoporanea, in tutte le sue forme, non è dunque un vezzo intellettuale, al pari delle scarpette rosse di Ratzinger, ma è una dura necessità cui è costretto dalla composita natura della Chiesa cattolica. La giustizia non è un suo libero, moderno, illuministico moto della coscienza, ma è la sola zattera cui può aggrapparsi, per non sprofondare nella logica senza volto del piacere che si esprime nel consumo illimitato delle cose e dei corpi. Non è fantascienza, allora, pensare che così come il grande Wojtyla fu costretto all’abiezione dell’apparizione in compagnia di Pinochet dal balcone della Moneda, così pure Bergoglio sarà costretto, un giorno non lontano, a riunirsi alle madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo.