Prodi

Prodi, l’ineffabile

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In un’intervista al Corriere della sera di oggi, 10 gennaio 2020, Romano Prodi non manca l’occasione di regalarci due perle delle sue. Contro il venticello proporzionale che spira, egli riafferma il suo credo maggioritario, perché “la legge elettorale è fondamentale anche per poter decidere”. E, per rafforzare il concetto, aggiunge: “la Francia, senza la legge che ha, sarebbe in una situazione peggiore della nostra”. Infatti, ormai da mesi si susseguono i sabati dei gilet gialli, e da settimane impazzano gli scioperi contro la riforma delle pensioni. Ma che importanza ha? L’importante è che il governa decida. Se poi la società da quelle decisioni viene squassata, se i conflitti non trovano sbocco politico, se la gente pur lavorando di più si immiserisce senza rimedio, che importanza ha? Il governo è lì, attaccato alla sua maggioranza, scroccata con una legge elettorale che tramuta l’acqua in vino, e questo è tutto. Dite che le leggi elettorali sono trucchi per permettere ad una minoranza di interessi di imporre legalmente la propria dittatura ad una maggioranza il cui destino è di faticare per produrre ricchezza da buttare nelle fauci insaziabili della razionalità di mercato? Fiato sprecato per vecchi scolasticismi marxisti. E qui viene il bello. Per Prodi, l’economia è il vero campo da gioco. E questo l’avevamo capito, da sempre è l’unica cosa di cui parla. Un vero esperto, come dimostra quest’ultima uscita sul costo del lavoro italiano che consegna all’intervista in questione: “Prendiamo il costo del lavoro. Attualmente è grandemente inferiore rispetto a quello tedesco e francese. E possiamo dire che è meno lontano da quello cinese: un tempo il nostro era 40 volte il costo orario del lavoro di Pechino, ora 2,3 volte. Non siamo a costo pari, ma ci stiamo avvicinando e bisogna preparare il futuro”. Ecco, prepariamoci al futuro, quando i cinesi ci pagheranno qualche centesimo all’ora per qualche gigjob di quelli che fanno la contentezza di tanti ragazzi e meno ragazzi di oggi. È proprio ineffabile, Prodi. Piove, e lui fa il giro del mondo, si catapulta a Shanghai, tiene un intero corso in mandarino, riprende l’aereo, sulla tratta controlla le carte, i teoremi e gli assiomi della teoria e, arrivato all’aeroporto di Bologna, conferma: piove. Non si pretende la critica dell’economia politica, ma almeno un barlume di senso critico, macché, bisogna solo prepararsi al futuro, che è tutto scritto, e Prodi ce lo racconta con le slides che gli passa l’ufficio studi di Monsieur Le Capital.

Il sì di Prodi al referendum del 4 dicembre

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L‘annuncio di Prodi che voterà sì al referendum costituzionale del 4 dicembre squarcia anche l’ultimo velo di ipocrisia intorno ad un ventennio in cui la sinistra, a causa della minorità politica e culturale con cui si autorappresenta, e che offre il destro al “sistema” per costringerla in tale paralizzante rappresentazione, è stata usata come serbatoio di voti per puntellare un fronte capitalistico che altrimenti non avrebbe avuto la forza di imporre la sua logica modernizzatrice alle sue frange più riottose. Certo, resta il paradosso di un capitano di ventura come Massimo D’Alema che, per i corsi e ricorsi del gioco politico, schierandosi per il no, si ritrova a poter mantenere la promessa fatta sul letto di morte a Dossetti di difendere la Costituzione del ’48, mentre il mulinista bolognese Romano Prodi le dà la pugnalata finale, in nome di una politica che, quando non è sangue, merda e sedute spiritiche, ha la sua garanzia nelle “scienze sociali” internazionali, nei cui numeri e tabelle svanisce come per magia la lotta di classe. Ma queste sono cose della sfera morale. Cosa accadrà invece dal 5 dicembre in poi? Fioccano le previsioni su governi tecnici, governicchi e governi per tirare a campare, ma su quali basi materiali questi governi di scopo, “per i decimali di Bruxelles”, “per la legge elettorale”, “per la fine naturale della legislatura”, potranno poggiare? La Costituzione che boccheggia, e che anche nel caso della vittoria del no non sarà più la Costituzione del ’48, segnala sommovimenti nella sottostante grammatica ideologica per la cui comprensione non è necessario un master che batta un colpo nelle prodiane scienze degli spiriti. La galassia renziana, che con la vittoria del sì aspira a divenire blocco egemone, propone un neocentralismo che, avocando a Roma poteri degradatisi in questo ventennio di disunione progressiva, mira ad avere più peso in un’Europa dei governi in cui la Brexit offre qualche opportunità in più per il pur sempre gracile capitalismo modernizzato italiano. Il neocentralismo comporta ovviamente una rinnovata politica di mance, che può segnare una nuova stagione di infeudamento del Mezzogiorno ad un potere che da un secolo e mezzo lo estranea da sé, costringendolo a estrinsecarsi principalmente come energia criminale, funzionale sul piano materiale a svolgere i bassi lavori del blocco di potere nordista, e sul piano simbolico a tacitarlo, perché i delinquenti non si invitano a tavola, e al massimo fanno gli stallieri. Il neocentralismo renziano, inoltre, comporta l’assorbimento subalterno di pressoché intera la sinistra (Pisapia docet: extra Piddiem, nulla salus), una sorta di compimento malandrino della dolce fregatura ulivista, portata avanti negli anni addietro dal succitato Prodi, che non a caso vota sì. Tout se tient. L’alternativa viene invece dal centrodestra, dove al neocentralismo che il 4 dicembre gioca tutta la posta, contrappone un sovranismo che comporta anch’esso un rinnovato centralismo romano, ma per scassare gli equilibri di Bruxelles e fare emergere un’Europa dei popoli, formula fascinosa dalla quale possono invece riemergere tutte le Erinni che la sconfitta hitleriana aveva sprofondato negli abissi: sangue, territorio, razza –ma può anche emergere un capitalismo trumpista, che combini assieme le pulsioni profonde con una rinnovata plutocrazia, la quale, dopo avere scorazzato per il mondo, ha bisogno dei vecchi confini nazionali per ricomporre le contraddizioni tra valorizzazione del capitale e scomposizione della forza lavoro. Il duo Salvini-Meloni che con lucidità cerca di mettersi in sintonia con questa impetuosa corrente internazionale, deve fare i conti con i colpi di coda, non tanto del vecchio e patetico separatismo lombardo-veneto, che può essere a sua volta tacitato con opportune mance, ma con il perenne affarismo meneghino, pronto a offrire i propri servizi al blocco vincente, con combinazioni fantasiose che possono anche arrivare ad una completa sostituzione della vecchia mafia siciliana con la performante ndrangheta calabrese. Resta sullo sfondo come un edifico di archeologia politica la mole del movimento anarco-qualunquista dei cinquestelle, condotto con sagacia da un capocomico che però non potrà mai calcare la scena in prima persona, e che perciò è costretto ad affidarsi a figure e figurine che, in un movimento già di per sé composito, si prestano ai trasformismi, con i quali cricche e cerchie sempiterne si riciclano: per assessori della giunta capitolina non si sono forse ricercati i consigli non del popolo, non della rete, ma di ben noti studi legali? Quel che resta di quella sinistra che negli anni Novanta si aggregò intorno alla resistenza rifondista, gioca di sponda con questo movimento che, come afferma il suo mentore, meriterebbe un premio per aver impedito che il malcontento si scatenasse nelle piazze, laddove da un lato si abbassa il conflitto di classe alle piazze turbolente, dall’altro si rivendica un ruolo oppiaceo che è proprio ciò che impedisce al discorso della sinistra di avere una base di massa. Continue sono infatti le lamentazioni circa il fatto che “il discorso anticapitalista” non ha consenso, ma nessuno ha davvero il coraggio di guardare in faccia il problema, e cioè che una sinistra senza partito è un piatto di lasagne dipinto nel muro: fa venire l’acquolina in bocca, ma poi si va a sfamarsi con la minestra che passa il convento. Dunque, neocentralismo, sovranismo, anarco-qualunquismo, queste le tre faglie da cui verrà fuori il terremoto del 4 dicembre, da cui la sinistra cerca di scampare in qualche container sindacale, ricostruendo pezzetti di welfare in fabbriche in cui il capitale invoca il fronte comune per reggere la concorrenza “globale”. Un dignitoso neo-corporativismo dal quale può uscire solo se intraprende quella “lunga marcia” da cui gatti, volpi e zecchini d’oro l’hanno da troppo tempo distolta.