tecnica

Prezzi, valore, egemonia. A proposito di una recente distinzione

Download PDF

Con uno scavo nella struttura formale del concetto di egemonia, recentemente si è proposto di distinguere tra l’egemonia-consenso e l’egemonia-direzione1. L’egemonia-consenso consisterebbe nel potere democratico fondato sulla partecipazione e sulla trasparenza dei meccanismi decisionali; l’egemonia-direzione, nel saper offrire le soluzioni più efficienti e convincenti ai problemi sociali ed economici. Quest’ultima, si tradurrebbe in una “razionalità sostanziale” che starebbe alla base di una tecnocrazia in cui, dopo il declino dei partiti di massa e la crescente irrilevanza dei parlamenti, dominerebbe l’élite degli “esperti”, lontani dalle contraddizioni e dalle istanze della politica e delle “masse”, queste ultime troppo ignoranti per capire sia il proprio interesse che la direzione da far prendere alla società. Contro questa deriva elitaria, si propone allora di rafforzare il potere democratico a tutti i livelli, locale, nazionale e transnazionale, mettendo la rappresentanza al centro delle riforme istituzionali, e potenziando lo Stato di diritto rispetto alle nuove sfide.

La “razionalità sostanziale” che si ritiene alla base dell’odierna tecnocrazia, è già stata analizzata molti anni fa dai teorici della razionalità, che ne hanno trattato sotto la dizione di “razionalità adattiva”2. Al contrario di chi ne denuncia la potenza e la pervasività, i teorici della razionalità sono preoccupati dei suoi limiti, che si propongono di superare con misure ad hoc. Fra queste misure, ci sono l’utilizzazione della razionalità insita nei prezzi di mercato, l’adozione della ricerca operativa, della gestione aziendale e dell’intelligenza artificiale dei computers, l’estensione ad altri ambiti dei procedimenti per contraddittorio tipici dei sistemi giudiziari. Effettivamente, tutto ciò che può configurare un pernicioso “governo dei tecnici”. I teorici della razionalità adattiva ritengono però che mezzi altrettanto efficaci per superare i limiti di tale forma di razionalità siano una conoscenza adeguata dei procedimenti politici e istituzionali propri dello Stato di diritto, nonché l’affermarsi di mass media che non diano spazio alle novità quotidiane e all’effimero, ma agiscano adottando procedimenti come il contraddittorio dei sistemi giudiziari sopra richiamato.

Come si vede, è difficile tagliare l’anguria perfettamente a metà, perché i tecnocrati o, quanto meno, coloro che forniscono una filosofia di sfondo all’egemonia-efficienza, sono preoccupati anch’essi dell’egemonia-consenso, dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Come si spiega questa bizzarra confluenza? L’impressione è che la distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-efficienza sia una barriera troppo fragile per scalzare il fondamento teorico della razionalità adattiva o sostanziale che dir si voglia. Essa infatti si basa sulla riduzione del fatto economico strutturale a un fattore fra gli altri, tramite l’enucleazione del solo aspetto della razionalità insita nei prezzi di mercato. La sfera produttiva, dove è in ballo la formazione del valore e la sua appropriazione privata, viene così occultata e fatta sparire in una conoscenza sociale che vede nel prezzo l’utile meccanismo per risparmiare informazione (se pago un tot, non ho bisogno di indagare ulteriormente sull’origine della merce acquistata, su chi l’ha prodotta, quando è stata prodotta, secondo quali modalità, ecc.). Il resto, viene da sé, compresa la riduzione della storia ad appendice culturale dell’evoluzione naturale, di cui un tetragono darwinismo possiede la chiave teorica. La distinzione tutta sovrastrutturale tra egemonia-consenso e egemonia-direzione non sembra cogliere il nocciolo di questa costruzione ideologica. Appuntandosi sul solo livello della politica e delle sue istituzioni, non si avvede che i teorici della razionalità adattiva arrivano in anticipo su questo terreno, occultando la struttura in un sovrastruttura dipinta come la prosecuzione di processi naturali, che possono essere saggiamente migliorati facendo affidamento sugli stessi strumenti cognitivi forniti dalla natura (livelli di attenzione, ecc.).

Questi esiti nulli di pur nobili battaglie ideologiche mostrano che nell’analisi egemonica è sempre indispensabile tenere fermo l’elemento della “riforma economica”. A rinforzo polemico della distinzione tra egemonia-consenso e egemonia-direzione, si sostiene che la “teoria critica” avrebbe sbagliato sia a confondere la burocrazia con la tecnocrazia, sia a seguire Weber sulla strada della separazione della razionalità strumentale da quella sostanziale. Qualsiasi cosa ciò voglia dire, non si può non osservare che la “teoria critica” ha affrontato le distinzioni weberiane da molti decenni, almeno dal Lukács di Storia e coscienza di classe3. Ritornando al pericolo della tecnocrazia imperante, esso non sembra consistere tanto nel deperimento dello Stato di diritto, di cui, come abbiamo visto, sono preoccupati da tempo anche i teorici della razionalità adattiva. E, en passant, tale pericolo non sta neppure nel Gestell aborrito dall’idealismo reazionario cripto-nazista di Heidegger4 né, con ben altra dignità, nel compimento della follia dell’Occidente nel quale vagheggia leopardianamente di annegare Severino5. Il pericolo della tecnocrazia è la pietrificazione dell’ideologia proprietaria, che avviene, come abbiamo accennato, naturalizzando la sfera della produzione, cioè sciogliendone la specificità storica, attestata dai modi di produzione, in una speciosa continuità con l’evoluzione naturale. Perciò, nella lunga e confusa transizione verso la nuova egemonia, oggi come non mai bisogna provocatoriamente affermare la necessità di portare dall’esterno la coscienza di tale pietrificazione alla classe, qualsiasi cosa essa sia oggi sociologicamente. Laddove tale esteriorità non è l’opera pedagogica e autoritaria di un qualche soggetto precostituito, ma è l’operazione di presa di coscienza che la classe opera su se stessa. Questo è ciò che si trae da una lettura sine ira et studio del Che fare? di Lenin. Che poi tale operazione non possa esaurirsi in interiore homine, ma debba avere un luogo dove organizzarsi, sia esso un movimento, un partito o un novello Principe, questa è una necessità cui sinora nessuno è riuscito a sottrarsi. E, comunque, fa parte della tattica e della strategia politica inventare eventualmente luoghi nuovi dove accogliere tale presa di coscienza, evitando magari di cadere nelle allucinazioni di partiti digitali et similia6.

 

  1. “Tecnocrazia e democrazia. L’egemonia al tempo della società digitale” di Francesco Antonelli, https://www.letture.org/tecnocrazia-e-democrazia-l-egemonia-al-tempo-della-societa-digitale-francesco-antonelli/ []
  2. H. Simon, La ragione nelle vicende umane, (1983), trad. it. Bologna, Il Mulino, 20192. []
  3. Su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2016, p. 85 sgg. []
  4. https://www.duemilaventi.net/heidegger-cabalista-gli-abissi-contemporanei/ []
  5. https://www.duemilaventi.net/la-metafisica-del-capitalismo-emanuele-severino/ []
  6. https://www.duemilaventi.net/le-false-promesse-del-partito-digitale/ []

Il coro greco della tecnologia onnipotente

Download PDF

Davide Casaleggio ci informa che «la velocità con cui si sta evolvendo la tecnologia è impressionante: il problema per la società è proprio questo. Non abbiamo mai dovuto affrontare uno stravolgimento cosi repentino e massiccio. Lo shock più forte sarà nel mondo del lavoro. Avremo milioni di disoccupati in tutto il mondo perché ci saranno software e robot intelligenti molto più efficienti. Certo: ci saranno nuove esigenze, nuove competenze saranno richieste, ma un’intera generazione di lavoratori rischia di essere esclusa da un giorno all’altro perché non saranno più necessari e non potranno riadattarsi, nel giro di così poco tempo, per le nuove mansioni di cui ci sarà bisogno»1.

Purtroppo, questa visione della tecnica come potenza inarrestabile non è solo di questo imprenditore del consenso che, desideroso com’è di espugnare un Palazzo Chigi sempre peggio presidiato, non esita a promettere il miraggio del reddito di cittadinanza. Se si escludono i balbettii della destra, a sinistra si odono accenti simili, quando si constata che la nuova economia delle macchine intelligenti, se vive di poco lavoro, crea però una nuova classe di imprenditori e investitori super ricchi. E, allora, se «le nuove tecnologie portano con sé un aumento della disoccupazione e della disuguaglianza, e se la tendenza è che i giganti digitali decuplichino i profitti con un decimo dei dipendenti, solo la tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l’economia»2.

Come si vede, fine del lavoro, avanzata travolgente della tecnica, società robotizzata, disuguaglianze crescenti, reddito minimo o di cittadinanza, sono tutti temi che trapassano l’uno nell’altro e dissolvono confini politici e distinzioni culturali. Di più, la sinistra si fa forte di vedere nel M5S il sintomo del cambiamento epocale, ma finisce per parlare il linguaggio del sintomo.

In questa discussione su un futuro che la dura condizione presente rende ancora più nevrotica, prendono corpo allora vaticinii circa un mondo prossimo venturo in cui le decisioni verranno prese da intelligenze esterne alla specie umana, che non sarà più in grado di comprendere i motivi o le catene di ragionamenti che le hanno determinate3. Ma è davvero pensabile che il mondo decisionale diventerà per noi opaco, e che ci fideremo di quello che faranno le macchine per noi fino a che non avremo la più pallida idea di ciò che hanno in serbo per la specie umana? È realistica la prospettiva che il padrone, delegando sempre più lavoro al servo tecnologico, in realtà diventi sempre più dipendente da lui e incapace di svolgere il lavoro da sé, producendo così un ribaltamento del rapporto tale che il padrone si subordina e il vero padrone diventa il servo?

Già il fatto stesso che si evochi la dialettica hegeliana di servo e padrone, mostra che la questione non è la tecnica, ma la sfida politica posta da una società neo-signorile, in cui il lavoro morto delle macchine artificialmente intelligenti alimenta una rinata classe schiavistica che, per mantenere il proprio dominio, concede volentieri alla massa esclusa dalla produzione viva il panem del reddito di cittadinanza o minimo che dir si voglia, e i circenses di una società del consumo degradata però a merci vendute a un costo marginale spesso vicino a zero.

Il rimedio, allora, non può consistere nella spoliazione dei giganti digitali per ricavarne una illusoria redistribuzione di ricchezza, un po’ l’equivalente della parcellizzazione dei grandi feudi, per la quale si batté nella prima metà del secolo scorso l’agonizzante mondo contadino, ma nel lottare contro un dominio politico riformulato in chiave neo-schiavistica, da cui, se non contrastato, non potrà che derivare una nuova glaciazione sociale, analoga a quella che colpì il colosso imperiale romano.

E nella scelta di questa lotta politica, che rientra pienamente nell’ispirazione culturale della sinistra, cui il M5S è estraneo, prigioniero com’è di una corta cultura che si esprime in un infantile fantapolitichese, la tecnica non diventa affatto un nemico da cui guardarsi, ma un alleato di cui giovarsi. È un nemico se si parte dal presupposto che la battaglia contro la nuova società signorile alle viste è persa in partenza. Allora, avanzerà inarrestabile l’automazione, ovvero l’eliminazione della presenza umana dai processi produttivi, che confermerà la profezia dell’inevitabilità dell’avvento della nuova società signorile, cui non resterà che acconciarsi. Se, al contrario, si giudica che quella lotta è aperta, e ci si attrezza politicamente per combatterla, allora avanzerà non l’automazione, ma l’interazione tra gli uomini e le macchine4, al cui centro non starà il profitto, ma la soddisfazione di bisogni la cui quantità e qualità dipenderà dal processo interattivo stesso. E qui ci si potrà approssimare a quella onniproduttività che Marx ed Engels espressero con l’ideale dell’individuo che la mattina va a caccia, il pomeriggio pesca, la sera alleva il bestiame, e dopo pranzo critica, cosí come gli vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico5.

A Mark Zuckerberg, cui piace tanto atteggiarsi, perfino nella pettinatura, a novello Cesare Augusto, e che rivendica orgogliosamente il proprio status di capitalista, ivi compreso il diritto di eludere le tasse, bisogna dunque strappare non i profitti, ma il comando sociale impugnato, assieme ai Bezos, Page, Gates, Jobs, e tutto il corteggio di questi nuovi dei, reificando la tecnica, della cui oggettiva e inarrestabile potenza il coro greco di filosofi, sociologi e futurologi, vuole convincerci.

  1. D. Casaleggio, “Noi M5S come Netflix. Il candidato premier? In autunno il nome”, Corriere della sera, 3 aprile 2017, p. 6. []
  2. N. Rosa, “Il lavoro nell’era dei robot”, 3 aprile 2017, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=28517 []
  3. A. Moroni, “Facebook, Intelligenza artificiale e punto di singolarità”, http://www.angelomoroni.com/2016/01/18/facebook-intelligenza-artificiale-vicina/ []
  4. J. Lojkine, J.-L. Maletras, “Faut-il avoir peur du numérique?”, l’Humanité, 17 maggio 2016, p. 12. []
  5. K. Marx, F. Engles, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 24. []