Archive for Francesco Aqueci

Una gravosa eredità

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Nel 1874, Friedrich Engels, scrivendo a un suo corrispondente, prendeva atto che l’Internazionale, l’organizzazione proletaria in cui aveva prevalso il socialismo “scientifico” ispirato da lui e Marx, nella sua vecchia forma aveva fatto il suo tempo e così preconizzava il futuro: «per poter creare una nuova Internazionale nel modo in cui si è creata la vecchia, un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una generale sconfitta del movimento operaio, come ha predominato dal 1849 al 1864. Ma il movimento proletario è diventato troppo grande, troppo ampio perché ciò possa avvenire. Ritengo che la prossima Internazionale sarà – dopo che gli scritti di Marx avranno agito per alcuni anni – direttamente comunista e che inalbererà apertamente i nostri principi». Sebbene dilazionata dall’interregno della Seconda Internazionale, la previsione di Engels si rivelò azzeccata, poiché la Terza Internazionale sorse su basi interamente comuniste ispirandosi alle teorie sue e di Marx. Ma non è per questo che suscita ancora interesse la sua previsione, quanto per la condizione che egli pone per la rinascita di una nuova Internazionale simile alla Prima, ovvero una ulteriore «generale sconfitta del movimento operaio» che egli però riteneva impossibile perché il movimento proletario era diventato «troppo grande, troppo ampio» perché ciò potesse avvenire. A smentita di tale premessa, il tempo presente è quello di un movimento operaio che, divenuto grande e ampio al punto da dar luogo a una Internazionale interamente comunista, è stato poi sconfitto e rinchiuso in una prigione a cielo aperto dove, da decenni ormai, la “coesione sociale”’ è l’ordine esistente, le “tensioni sociali” danno luogo non a lotte di classe ma a “delicate vertenze occupazionali” e, infine, le “specifiche rivendicazioni dei lavoratori” non devono mai tralignare nella “militanza politico-ideologica”. I più tosti si scagliano contro queste sbarre linguistiche, per la verità, senza molto costrutto, gli altri si abbandonano alla malinconia, un sentimento più reattivo della nostalgia ma che risponde più al narcisismo del proprio io ferito che non a una effettiva volontà d’azione. Si aprono così le porte delle celle a regime speciale, avvengono le bastonature “occasionali” da parte di forze dell’ordine “democratiche”, si moltiplicano le identificazioni delle questure, si alza la canea vociante contro prese di posizione “rivoluzionarie” che però si rivelano incaute anche per chi anela al martirio verbale. Eppure, ci fu un tempo in cui c’era chi, come Norberto Bobbio, poneva l’esigenza di elaborare una teoria volta a chiarire le modalità di inserimento dell’esperienza comunista nello sviluppo della civiltà liberale di cui, egli precisava, «il comunismo è certamente figlio, se pur non ancora a pieno diritto l’erede» (Bobbio, Politica e cultura, p. 131). Il non riconoscimento di tale diritto e addirittura la cacciata di casa del legittimo erede ha finito per compromettere la stabilità dell’intero edificio della civiltà liberale, governato ormai da vecchi dormienti e pazzi esagitati. Ma per restare a quel dovere degli “uomini di cultura” cui lo stesso Bobbio richiamava coloro che hanno a cuore le sorti della ragione, strano parto dell’umana cognizione che ne illumina il cammino al prezzo di qualche tragico errore, la discussione non può che ripartire da quegli snodi la cui mancata o insufficiente elaborazione ha provocato quella fatale rottura i cui deleteri effetti oggi constatiamo. Riflettendo sul rapporto Krusciov, Bobbio considerava la mancata previsione della tirannia di Stalin nel periodo di transizione della dittatura del proletariato come l’indizio di una deficienza della dottrina marxista (Bobbio, Politica e cultura, p. 248). Infatti, posto che si consideri la dittatura personale come il regime che esprime le difficoltà in cui si viene a trovare una classe dirigente in declino, la denuncia del regime di Stalin come una dittatura personale significava ammettere le difficoltà della trasformazione economica nel passaggio dal regime della proprietà privata a quello collettivistico (Bobbio, Politica e cultura, p. 259). Due punti non tornano in questo ragionamento. Anzitutto, le difficoltà non equivalgono al declino. Come si evince dagli indici di sviluppo economico, sociale e demografico, sotto Stalin la società sovietica pur tra grandi difficoltà non declinò, bensì avanzò. Fu piuttosto il rapporto Krusciov a segnalare l’inizio del declino che, dopo la stagnazione brezneviana, culminò nella mortale stagione della perestrojka. In secondo luogo, se la dittatura personale esprime il declino di una classe dirigente, che dire della dottrina liberale che non previde il sorgere della dittatura mussoliniana? Se il buco teorico c’è, ciò vale per la dottrina marxista come per quella liberale. Evidentemente, è la nozione di dittatura di classe che va qui chiarita. Essa non concerne la sfera politica bensì l’ontologia economica. La dittatura di una classe nella struttura può ben convivere nella sfera politica con una democrazia, diretta o parlamentare che sia, oppure con una dittatura personale. Ciò non vuol dire che non vi sia un rapporto tra i due livelli, ma il fatto che vi è una distinzione, storicamente attestata dall’oscillazione tra democrazia e dittatura politica nel regime di dittatura capitalistica nella struttura, significa che la dittatura del proletariato nella struttura, qualora la contingenza storica lo consenta, non necessariamente deve comportare la dittatura personale o comunque politica nella sfera politica. Quindi, benché ai puristi possa dispiacere, un comunismo democratico è possibile (il Venezuela attuale con il suo “costituzionalismo egemonico” è qualcosa che si approssima a questo modello). Il problema è nel trapasso dall’una all’altra ontologia economica. È evidente che il passaggio è violento, ma è stata violenta l’instaurazione dell’ontologia economica capitalistica ed è violenta la sua difesa, affidata com’è alla forza “legale” e al suo simulacro, il consenso. Imputare la violenza solo al progetto “rivoluzionario” di mutare il fondamento dell’ontologia in essere equivale ad affermare che l’unico ordine possibile è quello esistente. Il che è già un atto intellettualmente violento. Il cozzo delle ontologie si può evitare accordandosi a monte circa la legittimità della loro pluralità, almeno per un lungo periodo di transizione. Il liberalismo, dunque, se vuole risorgere staccandosi dall’abbraccio mortale con il liberismo cui ha incautamente affidato le proprie sorti, deve richiamare presso di sé il comunismo e chiedergli di farsi carico della sua gravosa eredità. Su questo sfondo di pluralismo ontologico, la formula della dittatura del proletariato può essere allora ripresa come architrave di una nuova alleanza internazionale che si proponga di riportare all’antico splendore l’edificio non tanto della civiltà liberale, ma della ragione, di cui la civiltà liberale è stato solo il primo, imperfettissimo passo. I detriti della storia non possono più essere un alibi per procrastinare questo accordo. Ogni giorno che passa, i nemici della ragione acquistano terreno, religioni vecchie e nuove, irrazionalismi del passato e del presente rialzano la testa e si propongono come il solo rifugio dell’uomo angosciato, la politica diventa puro confronto di potere e nella struttura ristagna il tanfo di un’antropologia sempre più corrotta. Per l’Occidente, è l’ultima chiamata.

Palestina, un profeta tra follia e realtà

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Un articolo di Guido Rampoldi sulla questione israelo-palestinese, apparso sul quotidiano “Domani” di domenica 22 ottobre, si sottrae alla coltre di plumbea propaganda in cui da giorni è immersa tutta la fanfara mediatica consentendo di discutere qualche aspetto di una realtà che di tutto avrebbe bisogno tranne che di schieramenti manichei. L’autore riconosce anzitutto che è nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza. Infatti, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, è chiaro che le vendicative “punizioni esemplari”, lo strapotere militare e l’esercizio sommario della violenza, producono solo un’ingannevole percezione di sicurezza. Rampoldi poi passa a considerare la posizione dei governi occidentali che, dicendosi convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, si librano solo a un esercizio di futilità diplomatica poiché, non avendo fatto nulla per arginare il dilagare degli insediamenti dei coloni, la situazione ora è di una progressiva integrazione di tali insediamenti nel sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Ne consegue, conclude l’autore, che la nascita anche solo di uno “stato minimo” palestinese provocherebbe la rivolta della destra religiosa e di molti tra i 640mila “coloni”, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. Se la realtà è quella di uno stato, lo Stato di Israele, il cui insediamento economico e militare non può essere ostacolato da niente e da nessuno, che fare? L’autore è così consapevole della follia in cui è precipitato l’uditorio cui si rivolge, da qualificare folle la proposta che egli stesso avanza. Scrive infatti letteralmente: «resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati». In realtà, questa soluzione folle è il pezzetto di senno dell’Occidente che ancora non se n’è volato sulla luna. Il fatto però è che questa soluzione ragionevole è assolutamente limitata, affidata com’è a un «percorso circospetto ma progressivo» che richiama tanto le categorie diplomatiche della lungimiranza, della moderazione, della disponibilità al compromesso cui ci si affida quando l’analisi della situazione concreta non mette a fuoco quel che pure confusamente viene intravisto come essenziale. Rampoldi ha infatti più volte ricordato che gli insediamenti sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Detto altrimenti, dovrebbe essere ormai chiaro che il kibbutz non è il germe di una futura società democratico-socialista ma l’imprenditore collettivo di un capitalismo in armi che colonizza la “campagna” e sottomette la “città” in cui sopravvive sempre più marginalmente una “coscienza liberale” cui è concesso al massimo di svolgere compassati ragionamenti su Haaretz. In queste condizioni, allora, lo stato binazionale potrebbe nascere non dal percorso circospetto e progressivo auspicato da Rampoldi, bensì da un vigoroso e prolungato conflitto di classe che dovrebbe vedere alleati il proletariato palestinese con quello israeliano. Trattandosi di figure di difficilissima individuazione e di ancor più difficile composizione, è evidente che siamo alle ipotesi di terzo grado. Si comprende allora che Rampoldi rinunci alla scalata e devii verso sentieri più percorribili. Infatti, dopo avere giustamente richiamato che Israele è già una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione, egli sottolinea che, qualora decidesse di istituzionalizzare tale stato di fatto, dovrebbe accettare di non essere più “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori, ma di tornare all’idea di una parte del sionismo originario che sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo sarebbe potuto ringiovanire. In altri termini, ostruito il moderno conflitto di classe da un rapporto di forza brutalmente coloniale, lo stato binazionale potrebbe sorgere sul terreno arcaico dei miti religiosi in cui la “casa ebraica” sarebbe chiamata a convivere con la umma araba. Un processo che non un diplomatico, non un capo politico, non un partito di classe, bensì solo un riformatore religioso potrebbe portare a compimento, fondendo il Dio ebraico e l’Allah islamico in un Tutto nuovo meno tormentoso tanto dell’uno quanto dell’altro senza con ciò accedere all’illusoria bontà del Dio cristiano. Poiché qui perveniamo alle iperboli più spinte, si comprende che Rampoldi devii un’altra volta per sentieri più agevoli. Ed ecco dunque l’analogia storico-politica che, avanzata ancora sotto le vesti della follia, dovrebbe convincere le parti contendenti: «proporre adesso [la] soluzione [binazionale] può apparire delirante: ma quarant’anni fa nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti». Anche qui il delirio è in effetti la proposta ragionevole, ma con tutto il rispetto per i bianchi e i neri del Sudafrica, Pretoria non è Gerusalemme dove invece tutte le maggiori divinità che ancora signoreggiano le menti umane non da ora si sono date convegno. Un Mandela quindi non basterebbe e, come abbiamo visto, neppure un Lenin. Sì, realisticamente, ci vorrebbe proprio un profeta…

Palestina, una via senza uscita

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La soluzione due popoli due Stati che, memori dei lontani e alquanto mitizzati Accordi di Oslo del 1993, si continua a prospettare per risolvere il problema palestinese, tradotta nel crudo linguaggio della realtà politica effettuale significa un trasferimento di potenza dal già costituito Stato di Israele, armato di tutto punto compresa la bomba atomica ben celata in qualche rotolo della Torah, all’ancora da costituire Stato della Palestina, implume come un pulcino ma fiducioso della potenza che Allah non vorrà negargli. Le vie di questo trasferimento sono due, o quella diplomatica o quella guerresca. Quella diplomatica, basata sull’avvio mai verificatosi della peristalsi di un capitalismo regionale nelle intenzioni bipartisan, si è cercato di percorrerla in passato ma un colpo di pistola alla schiena di Yitzhak Rabin l’ha interrotta. Quella guerresca in questi giorni vive un suo ulteriore capitolo in cui Hamas ha approfittato trucemente degli ozi di Capua su cui Israele ultimamente si era adagiato, mettendolo davanti all’alternativa diabolica di accettare tale trasferimento, secondo modalità alla cui fissazione poi parteciperebbero le altre potenze regionali supervisionate dalle rispettive potenze mondiali di riferimento, oppure di perpetrare un ennesimo, storico massacro, come sembra intenzionato a fare, che ne macchierebbe per generazioni e generazioni la già discutibile reputazione (ovviamente immacolata a prescindere per i pasdaran del Grande Occidente). C’è dunque in corso in questo momento una prova di forza nella quale come mai in passato Israele può essere costretto a cedere qualcosa della sua supremazia assoluta e i palestinesi possono guadagnare una posizione più favorevole per cominciare a costituirsi in una entità statualmente meno ectoplasmatica. Ciò sta a significare però che la pace in Palestina non è per domani e nemmeno per dopodomani, non solo per le modalità e l’esito in sé di questa prova di forza ma anche e soprattutto perché una volta che si pervenisse ai due Stati essi, come si può facilmente intuire, entrerebbero ben presto in contrasto su tutte le questioni su cui la via diplomatica in tutti questi anni non è riuscita a trovare un qualche accordo. Non si vede perché, infatti, il nazionalismo euro-israeliano e quello arabo-palestinese, rinfocolati già ora dai loro atavismi religiosi, dovrebbero svanire proprio quando la potenza di Stato consentirebbe loro di regolare definitivamente i conti. Se l’attuale realtà politica effettuale in Palestina è senza via d’uscita,  ciò è dovuto al fatto allora che il conflitto, da qualsiasi parte lo si affronti, è imbozzolato in un nazionalismo che, ad un tempo, corrompe le classi ma consente alle rispettive borghesie di continuare a ingrassarsi o con il più sofisticato dei capitalismi agrario e industriale (Israele) o con la corruzione (Palestina) o con la rendita energetica (Stati arabi). La prova di ciò sta nella marginalità politica in cui langue la composita classe operaia dell’area in questione che nella componente palestinese diventa addirittura marginalità esistenziale. Basta informarsi su cosa accade nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi diretti nei campi degli “avanzati” agricoltori israeliani, subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O basta considerare la sorte dei contadini palestinesi proletarizzati costretti a vendere la propria forza lavoro nei parchi industriali israeliani tirati su, in combutta con imprenditori palestinesi, nelle terre loro espropriate dove Tsahal, vero e proprio braccio armato del capitalismo israeliano, ha costruito quel moltiplicatore economico che è il Muro. O basta non ignorare che un lavoratore palestinese, se ha un’occupazione in Israele, deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, subendo per soprammercato quotidianamente le vessazioni dei check point di cui si diceva prima, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versando i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. E un po’ meglio invece va se il lavoro è nella Cisgiordania, dove vi è sì, più “libertà”, ma il salario è un terzo e il sistema sociale è un mero abbozzo. In questi giorni nei talk show sta furoreggiando l’affermazione di Giulio Andreotti secondo la quale se nasci in un campo di concentramento quale è Gaza non puoi non diventare un terrorista. Come tutte le arguzie di questo grande statista dal bacio facile, anche questa è una nebbiolina buona come un suffumigio per ammorbidire le grosse fauci della coscienza borghese. In Palestina, ma in generale dalle parti del Medio Oriente, non si diventa terroristi perché si nasce in un campo di concentramento, ma perché il capitale sfrutta il lavoro nella maniera più brutale, cioè secondo modalità in cui non esiste nessuna prospettiva non tanto di una trasformazione rivoluzionaria di tale condizione di sfruttamento, ma neppure di una sua mitigazione opportunistica o “riformistica” che dir si voglia, com’è nel caso del capitalismo metropolitano di cui Israele nel suo complesso è parte integrante. Perciò assieme al tedio che provoca l’irrancidimento nazionalistico della questione arabo-israeliana, monta soprattutto l’infinita pietà per i tanti esseri umani che nei modi più orribili a causa di esso perdono la vita.

I tre strati della guerra ucraina

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Partiamo da una domanda stupida, come quelle che si fanno chiacchierando davanti a una tazzina di caffè: la Russia ormai da trent’anni è un paese capitalistico; perché allora questa acerrima ostilità con gli Stati Uniti? Qualcuno inviterà già a precisare: in Russia c’è un capitalismo con caratteristiche russe. Certo, è una differenza. Ma a cosa ricondurla? E se tale differenza c’è, basta a spiegare l’acerrima ostilità? Forse che le potenze capitalistiche non si sono mai fatte la guerra? Sorbiamo un sorso di caffè e ripartiamo da capo. Nella guerra in Ucraina vi sono tre strati, lo strato del carnaio, lo strato ideologico e lo strato politico. Lo strato del carnaio è quello in cui un uomo quando è colpito da un proiettile o salta su una mina diventa un pezzo di carne sanguinolenta. La guerra in Ucraina sarà pure ibrida e altamente tecnologica, ma su una salda base di carne maciullata. I video in rete che lo provano non mancano. Lo strato del carnaio, presente in ogni guerra, è quello cui si richiamano coloro che denunciano l’“inutile strage”. Più cresce, più aumenta l’eccitazione di coloro che si esaltano alla vista del sangue ma anche lo sdegno di coloro cui ripugna, sino a quando dietro la spinta dell’istinto di sopravvivenza il parossismo del carnaio non straborda negli altri strati alla ricerca della “pace”. La controffensiva degli ucraini in corso in questi giorni sta facendo crescere il carnaio ma ancora non nella giusta misura da imporre tale ricerca. Che in ogni caso richiede che si passi alla considerazione degli altri due strati. Lo strato ideologico della guerra ucraina è dato dalla guerra civile culturale in corso all’interno del mondo russo che è l’espressione maggiore del mondo slavo a sua volta depositario autentico dell’Ortodossia. La Jugoslavia è stata l’anteprima di tale guerra civile culturale che ora dilaga apertamente nel più ampio contesto russo. Il nocciolo di tale guerra è il processo di secolarizzazione in corso nell’Ortodossia che avanza lentamente ma inesorabilmente. Liberandosi dell’ateismo di Stato della rigida forma di comunismo impiantato dai bolscevichi, l’Ortodossia pensava di aver guadagnato l’eternità ma non aveva visto il vero pericolo che incombeva sulla sua esistenza millenaria, ovvero il ritorno in forze del capitalismo in cui non è più lo Stato che preme per liberarsi di Dio ma la “società civile” per abolire le pastoie morali cui i pope fanno da guardia. Se l’Ucraina è la punta di lancia della secolarizzazione ortodossa, ciò non vuol dire che Putin è il chierichetto di Kirill. Papa Francesco ha ragione a rovesciare argutamente quest’immagine perché così, lo voglia o no, ci introduce al terzo strato della guerra ucraina, quello politico dei rapporti imperialistici. La secolarizzazione ortodossa in corso, con le profonde divisioni che provoca nel mondo slavo, è lo strumento mediante il quale l’imperialismo statunitense cerca di sopraffare l’imperialismo russo per potere perpetuare la propria supremazia mondiale. Lo scontro imperialistico, che da più di un secolo è la modalità di esistenza del capitalismo, si gioca oggi su tre formule egemoniche, l’unipolarismo con la variante multilaterale, il multipolarismo e l’umanità come comunità di destino comune. La prima formula è quella entro cui oscillano gli Stati Uniti e i loro vassalli europei, la seconda è quella per cui si batte la Russia convinta così di poter trasformare il mondo in un consesso oligarchico in cui spartirsi potere e ricchezze, la terza formula è quella della Cina nel suo ancora esitante imperialismo verso cui la sospinge quel capitalismo di cui si serve per sviluppare il suo “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. L’acerrima ostilità tra Stati Uniti e Russia non è dunque un’eredità della “guerra fredda” ma un’ostilità imperialistica. La “guerra fredda” fu lo strumento per bloccare il tentativo di modificare la base d’essere del mondo dal capitalismo al socialismo. È una fase conclusa della storia del mondo perché oggi in primo piano è di nuovo lo scontro imperialistico in cui Stati capitalistici più potenti divorano Stati capitalistici meno potenti. Potrà la Cina con il suo pallido marxismo da Seconda Internazionale riprendere il discorso del cambio di base d’essere del mondo? Sarà la “disumanità” del processo di secolarizzazione a imporre tale cambio d’essere? O tale cambio d’essere sarà rimesso all’ordine del giorno dal pericolo estremo della rovina della specie verso cui conduce lo scontro imperialistico nella forma di una guerra atomica? Quale che sia la direzione che prenderanno gli eventi è richiesto però un risveglio della coscienza anticapitalistica di cui la ripulsa del carnaio è solo una premessa.

La coscienza di classe a cent’anni da Storia e coscienza di classe

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Per una celebrazione non puramente celebrativa del centenario di Storia e coscienza di classe un gruppo di tesi sulla natura della società capitalistica rinvenibile in essa può essere adoperato per chiarire il significato di due rivendicazioni avanzate da odierni esponenti della classe capitalistica, quella dell’uomo d’affari Warren Buffett circa il fatto che nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino la lotta di classe l’avrebbero vinta i capitalisti, e quella dell’ideologo Francis Fukuyama secondo cui in seguito a quell’evento la storia è finita nel senso che con la vittoria del liberalismo sul comunismo essa avrebbe raggiunto il suo culmine. Le tesi utili a chiarire tali rivendicazioni possono essere così sinteticamente riassunte. La prima sostiene che nella società capitalistica l’essere sociale è lo stesso sia per la borghesia che per il proletariato, nel senso che per entrambe esso è immediatamente economico. La seconda pone che tale immediatezza comporta l’artificiale separazione e isolamento degli oggetti dalla totalità delle loro determinazioni reali al fine della loro quantificazione economica quali valori di merci. La terza afferma che, sotto la spinta degli interessi di classe, mentre la classe borghese dimora nell’immediatezza occultando la tensione dialettica tra gli oggetti e la totalità delle loro determinazioni con categorie astratte come appunto la quantificazione, il proletariato deve oltrepassarla perché solo ripristinando la totalità delle determinazioni reali degli oggetti può risolvere la propria tensione dialettica in quanto esso stesso oggetto, quale forza lavoro mercificata, del processo produttivo. La quarta stabilisce che la conoscenza della totalità sociale e delle sue leggi di sviluppo storico prodotta dalla presa di coscienza di tale tensione dialettica da parte del proletariato pone le premesse rivoluzionarie per la fine dello sfruttamento capitalistico e per il passaggio a una forma superiore di organizzazione sociale1.

Alla luce di questo insieme di tesi, la rivendicazione della vittoria capitalistica nella lotta di classe e l’affermazione che la storia è finita con il trionfo del liberalismo sul comunismo che abbiamo citato sopra, significano che la classe borghese non solo ha trovato il modo di impedire al proletariato di andare oltre l’immediatezza economica neutralizzando così la sua funzione rivoluzionaria, ma ha anche imposto tale immediatezza come modo d’essere esclusivo dell’essere sociale. In altri termini, rivendicare la vittoria capitalistica nella lotta di classe significa dichiarare apertis verbis la dittatura capitalistica, trasformando così il portato spontaneo del processo storico in un contenuto esplicito della coscienza di classe borghese. E poiché ciò avviene non nell’involucro di una aperta dittatura politica, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, ma sotto il regime trionfante della democrazia liberale, ciò equivale a esplicitare il contenuto politicamente dittatoriale di tale regime pur continuando a proclamarlo come il regime della libertà universale.

Di fronte a tale pretesa, non è ozioso allora ritornare ai fondamenti teorici della dialettica storica della coscienza di classe, non solo in riferimento alle prese di posizione sopra discusse ma anche ad ambiziosi sistemi teorici, eretti ancor prima che il trionfo del liberalismo venisse dichiarato, volti a universalizzare la posizione di classe borghese. Al fine di un loro esame, necessariamente limitato agli aspetti essenziali, partiamo da una definizione neutralmente “scientifica” di coscienza sociale, secondo la quale essa è la visione idealmente razionale che i membri di una classe sono in grado di assumere riguardo all’intera struttura sociale al fine di determinare corsi di azione che siano universalmente accettabili dall’intera società. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso una tale ricostruzione “universale” della coscienza sociale, proposta dal punto di vista liberale, è stata avanzata nei termini di un “velo d’ignoranza” inteso come posizione originaria assunta da individui desiderosi di dar vita a istituzioni giuste, spogliandosi da ogni condizionamento particolare, primo fra tutti il condizionamento di classe2. Ne è risultata una imparzialità astratta con cui statuire sulla distribuzione della ricchezza e del potere, non a caso denominati “beni primari”, in base al principio secondo il quale è legittimo che alcuni possano godere di una maggior quota di essi se il modo in cui li ottengono migliora la condizione di coloro che ne possono godere di meno3. A ben rifletterci, forse è in base a tale “diseguaglianza benefica” che oggi sembra accettabile che un manager possa guadagnare non quaranta volte, come nel 1970, bensì seicentocinquanta volte più di un operaio, a patto che il sistema complessivo consenta al governante di turno di concedere all’operaio un bonus fiscale di trenta euro in più al mese in busta paga.

Comunque sia, al fine di mitigare diseguaglianze simili, dall’attiguo campo liberale cosmopolitico si è levata la richiesta che nella competizione per i “beni primari” la perequazione non sia affidata solo alla tardiva comparsa di misure per “bisogni speciali”, ad esempio quelli di individui affetti da evidenti minorazioni come la cecità, ma che tali misure, anche per impedimenti come il maggior rischio di ammalarsi o vari gradi e tipi di patologie fisiche o mentali socialmente determinate, siano inserite sin da subito alla base dell’architettura istituzionale “giusta”, in modo da consentire che la complessiva dotazione umana degli individui (“funzionamenti”) possa essere messa in opera (“capacitazioni”) per il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta (“vita fiorente”)4. Di questa richiesta già in sé limitata si direbbe che nella pratica neanche la parte concernente la perequazione delle minorazioni più evidenti sia stata pienamente accolta, ma ciò che qui importa osservare è che, con grande anticipo circa le pretese di imparzialità della “giustizia come equità” e le limitate richieste ad essa rivolte di un’imparzialità più “aperta”, dal campo teorico alternativo del proletariato proprio in Storia e coscienza di classe erano state avanzate lungimiranti concezioni critiche.

Si è mostrato anzitutto che i cosiddetti “beni primari” non sono oggetti in sé conclusi di cui soggetti isolati gli uni dagli altri possono appropriarsi in una gara in cui può rilucere la loro competenza morale, innata quanto quella linguistica5, ma appartengono invece, come abbiamo accennato già sopra, a un universo reificato in cui gli oggetti, in realtà merci, risultano da un isolamento artificiale dal complesso delle loro determinazioni reali, ad opera delle operazioni produttive del soggetto capitalistico che per i suoi interessi di classe non può andare oltre l’immediatezza economica e deve pertanto tramite teorie ad hoc occultarne il fondamento parziale6. Questa reificazione in cui tale soggetto è irretito si manifesta in una molteplicità di contraddizioni, dalla contraddizione storica, a quella sociologica, a quella ideologica, a quella infine epistemologica7. Ai nostri fini, quest’ultima è quella che qui ci interessa maggiormente. Essa mostra infatti che, essendo il capitalismo l’ordinamento produttivo in cui l’economia assimila l’intera società, la coscienza borghese dovrebbe razionalmente possedere la conoscenza della totalità del processo di produzione, ma a causa dei suoi interessi di classe ciò le è precluso, divenendo così impossibile la gestione teorica e pratica dei problemi incessantemente posti dallo sviluppo capitalistico8. Ora, l’ambiziosa e influente teoria morale della “giustizia come equità”, enunciata ben dopo il quadro critico cui abbiamo accennato, appare oggettivamente ricadere in tale contraddizione, poiché se da un lato con il “velo d’ignoranza” vuole ottenere la conoscenza razionale derivante dall’assimilazione economica capitalistica dell’intera società, dall’altro basa l’assetto morale “giusto” che con tale “velo d’ignoranza” vuole instaurare sull’ontologia economica parziale degli interessi capitalistici, come dimostra la giustificazione teorica delle crescenti sperequazioni derivanti dall’applicazione di principi come quello della “diseguaglianza benefica”.

Tuttavia, poiché contrariamente a quanto si possa pensare il campo teorico del proletariato è tutt’altro che monolitico ma anzi vi dominano contrapposizioni anche sin troppo vivaci, la concezione critica espressa in Storia e coscienza di classe, nonostante i cospicui risultati con essa ottenibili, è stata variamente contestata e rigettata. In particolare, la critica della società borghese da essa sostenuta servendosi della categoria della “contraddizione” è stata giudicata “ideologica”, cioè non “scientifica”, perché determinata dall’ideologia filosofica della contraddizione e dall’ideologia morale dell’uomo onnilateralmente sviluppato9. La nozione di coscienza di classe, inoltre, poiché privilegia la coscienza rispetto all’essere, è stata giudicata di natura idealistica e, con riferimento al proletariato, si è proposto di sostituirla con quella materialisticamente più tangibile di istinto di classe10, per la cui indagine si ritiene necessario indagare non solo i rapporti di produzione e quelli politici ma anche quelli ideologici, che sarebbero costituiti da sistemi di idee-rappresentazioni e sistemi pratici di attitudini-comportamenti (costumi)11.

Qui si può già osservare che più che al funzionamento dei rapporti sociali ideologici si è interessati a una classificazione dei loro contenuti, uno slittamento che, come vedremo, non può non avere conseguenze negative nella teoria e nella pratica. Ma andiamo avanti. In questa visione “scientifica” della coscienza di classe, si afferma che una rivoluzione deve agire non solo a livello delle idee ma anche dei costumi, siano essi politici, tecnici, burocratici, e ciò tramite forme organizzative specifiche12. Ora, posto che in rapporto ai differenti livelli di ogni formazione sociale devono esistere differenti organizzazioni della lotta di classe, al livello economico il sindacato, al livello politico il partito, al livello ideologico l’organismo di controllo ideologico, si richiama il fatto che, storicamente, mentre nella Rivoluzione sovietica Lenin propose di far corrispondere al livello ideologico un organismo emanazione del partito denominato “Ispezione operaia e contadina” che, nell’inedita situazione della dittatura del proletariato, traduzione statuale dell’egemonia del proletariato, doveva regolare i rapporti tra Stato e Partito, nella Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta del secolo scorso l’organo di controllo dei rapporti tra Partito e Stato fu individuato in un’organizzazione espressione autonoma delle masse con il compito di denunciare e criticare i dirigenti che, attenendosi ancora ai vecchi costumi, si distaccavano dalle esigenze della nuova vita rivoluzionaria. In questo modo si sarebbe realizzato un avanzamento teorico e pratico, poiché partito, Stato e organizzazione di controllo ideologico risultavano distinti13. Resta il fatto però che, permanendo la concezione dei rapporti ideologici non come ruoli da modificare ma come contenuti da sanzionare, l’azione di controllo di questo platonico Consiglio notturno14 si scaricava sull’esteriorità del comportamento e non sulla matrice soggiacente che lo produceva e riproduceva, sboccando così, com’è storicamente accaduto, nella repressione e nell’autoritarismo anche se esercitati dalle masse.

È qui che può soccorrere l’elaborazione successiva a Storia e coscienza di classe, sia dello stesso Lukács con la proposta di una democratizzazione della vita quotidiana, sia di Gramsci di una nuova egemonia come superamento del rapporto di subalternità. È evidente che il perseguimento di tali scopi comporta un processo di apprendimento che deve potersi riprodurre da sé inserendo nella sua struttura di base il principio cui corrisponde il senso etico-politico che si vuole far acquisire. Ma questo residuo “educativo” si scioglie nel fatto che non viene instillato un contenuto bensì una forma, la forma compiutamente razionale della reciprocità cooperatoria la cui più vivida descrizione, per una volta, si può rinvenire in una fonte del tutto indipendente dai dibattiti marxisti, quella dell’onesta critica conservatrice del modo di produzione capitalistico:

 

quando un governo ha preso possesso di tutti i mezzi di produzione e del controllo di tutte le imprese non può distribuire in salari e servizi pubblici più di quanto l’industria, così organizzata, sarà in grado di produrre; probabilmente, e forse beneficamente, produrrà piuttosto meno di quanto prima è stato prodotto da capitalisti privati e rivali, dal momento che ci sarà meno ardimento nel correre rischi e minore ansia di ottenere salari più alti. La società sarà forse più felice ma più debole e più rassegnatamente tradizionalista. La febbre del diciannovesimo secolo per l’improvvisa ricchezza e del ventesimo per le meraviglie della meccanica avranno ceduto ad una saggezza classica, ad un nuovo livello industriale della vita. Penso che un tale governo, se razionalmente guidato dalla scienza e dalla storia, potrebbe rivelarsi un custode più sicuro di tutti gl’interessi naturali e quindi moralmente più rappresentativo sia del governo tribale che di quello patriarcale nonché di quello elettivo. I governanti e gli amministratori sarebbero nominati non per mezzo di elezioni popolari, ma per cooptazione tra i membri di ciascun ramo dell’amministrazione, come una sorta di promozione quale quella in uso nell’esercito, nelle banche, nelle università o nelle gerarchie ecclesiastiche15.

 

Solo una lettura superficiale potrebbe scorgere qui il vagheggiamento romantico della “decrescita felice”, quando invece vi è il riconoscimento politico che un piano razionale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e guidato dalla scienza e dalla storia è ciò che può dare luogo al nuovo livello industriale della vita ispirato a una saggezza classica. Per gli apologeti dell’esistente, che da tempo immemorabile spendono le migliori energie per scacciare questo spettro, si tratta di offrire sempre nuovi alimenti alla febbre delle vecchie tendenze secolari. Alle ricchezze improvvise e alle meraviglie della meccanica ora si sono aggiunte le mirabilie della scienza cognitiva, dalle reti neurali alla robotica all’intelligenza artificiale, con tutti i benefici per il corpo e per l’anima che promettono di arrecare. Ma se scatta l’allarme per qualche loro possibile conseguenza indesiderata, allora arruolando Gödel e Aristotele si rassicura che l’intelligenza umana non potrà mai essere assorbita da quella artificiale né logicamente, stando ai teoremi di incompletezza algoritmica, né antropologicamente, data la determinazione affettiva dei ragionamenti umani che l’intelligenza artificiale potrà solo simulare ma mai effettivamente provare16. Ma la mente desiderante, la sola che provando dolore e piacere produrrebbe religioni e ideologie, non la si mette in salvo magnificando le caratteristiche che la natura le avrebbe conferito dall’eternità. Non è la mente umana in astratto che produce religioni e ideologie, ma sono i modi di produzione, con cui i bisogni umani vengono soddisfatti, che estendendosi lungo le ere producono la storia. E i modi di produzione non sono semplici classificazioni ad uso degli storici ma modalità d’esistenza dei rapporti sociali. Bisogna capire allora cosa accade nei rapporti sociali capitalistici se l’esigenza di profitto intrinseca al capitale si afferma sostituendo progressivamente il lavoro vivo manuale e intellettuale con il lavoro artificiale robotico e algoritmico. E la conseguenza principale non può che essere, da un lato, la rarefazione dei rapporti produttivi e, dall’altro, il rigonfiamento di quelli ideologici in cui masse sempre più vaste di piccoli signori, divenuti tali dopo l’espulsione dai rapporti di produzione, soddisfano bisogni sempre più artificiosi comandando legioni di schiavi logico-meccanici per definizione incapaci di quella “presa di coscienza” di cui invece sono state storicamente capaci le masse salariate. Di fronte all’evenienza di un simile parassitismo, anziché adeguarsi alla presunta forza irresistibile dell’“innovazione”, appare invece sempre più necessario perseguire quel nuovo livello industriale della vita il cui governo non più tribale, non più patriarcale, non più elettivo, ma semplicemente “amministrativo” l’onesto critico conservatore del capitalismo addita come il sistema che meglio può garantire tutti gli interessi naturali. Con le sue vittorie e le sue disfatte, con le sue acquisizioni e i suoi errori, sinora l’interprete più coerente di questa prospettiva è stata la coscienza di classe proletaria così profondamente indagata in Storia e coscienza di classe, che nella politica secolare può però allargarsi a coscienza di specie per tradurre finalmente quella prospettiva in una forma di vita universale.

 

  1. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Sugar Editore, Milano 1967, p. 214 ss. []
  2. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 20083, p. 142 []
  3. Ivi, p. 104 []
  4. A. Sen, L’idea di giustizia (2009), trad. it. Mondadori, Milano 2011, p. 240 ss., p. 270 []
  5. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 64 []
  6. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 85, p. 216 []
  7. Ivi, pp. 80-83 []
  8. Ivi, p. 83 []
  9. L. Althusser, Socialisme idéologique et socialisme scientifique (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, Puf, Paris 2022, pp. 67-68 e p. 97 []
  10. Ivi, p. 99 e nota 2 []
  11. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., pp. 302-03; Id., Sur l’idéologie. Fragment inédit de «Sur la révolution Culturelle» (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., p. 320 []
  12. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), cit., pp. 303-04 []
  13. Ivi, p. 307 []
  14. Platone, Leggi, XII, 960-966 (Tutte le Opere, Sansoni, Firenze 1974, p. 1389 ss.). []
  15. G. Santayana, Dominazioni e Poteri (1951), trad. it. a cura di G. Buttà, in corso di pubblicazione, pp. 555-556 []
  16. F. Lo Piparo, Rassicurazioni utili per i catastrofisti e gli apocalittici. Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana, «Il Foglio», 19 maggio 2023, p. 2 []