Archive for Francesco Aqueci

Ragioni russe e contraddizioni europee

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Per l’onorevole Pina Picierno, l’articolo che riproduco qui appresso, tratto dal sito Ukraina.ru, è sicuramente un esempio di propaganda putiniana. Credo invece che si tratti di un’esposizione pacata delle ragioni russe nell’attuale contrapposizione con l’Occidente europeo e di un’analisi seria e pungente delle contraddizioni in cui si è impigliata l’Unione Europea nel suo sostegno a Kiev. Pubblico questo articolo anche per solidarietà con Angelo D’Orsi, che in questi giorni ha dovuto fronteggiare da par suo un maldestro tentativo di censura a una sua conferenza a Torino sui temi caldi del rapporto tra Europa e Russia.

 

Pavel Kotov, La guerra per cui tutti si stanno preparando. Cosa attende la Russia e l’Europa? (https://ukraina-ru.translate.goog/20251112/voyna-k-kotoroy-gotovyatsya-vse-chto-zhdet-rossiyu-i-evropu-1071479584.html?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it)

 

Si è tornato a parlare di una possibile guerra tra Europa e Russia. Questa volta, il presidente serbo Aleksandar Vučić non ha escluso la possibilità.

Le minacce di Mandon

Il presidente serbo è apparso sul canale televisivo Pink ed è stato invitato a commentare le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito francese, Fabien Mandon, secondo cui gli europei devono essere preparati a uno scontro militare con la Russia “tra tre o quattro anni”.

“Analizzando i fatti, giungo alla conclusione che la guerra tra Europa e Russia sta diventando sempre più evidente”, ha affermato Vucic.

Secondo lui, “tutti si stanno preparando alla guerra con la Federazione Russa”.

La dichiarazione di Mandon, che ha avuto un forte impatto, è stata fatta a ottobre durante il suo discorso a una riunione della commissione parlamentare per la difesa. Il generale francese ha poi approfondito questa idea, sostenendo che Mosca avrebbe “globalizzato” il suo conflitto con l’Ucraina e che la Russia “potrebbe essere tentata” di passare all’Europa dopo l’Ucraina.

Come al solito, l’ultimo profeta europeo non si è preoccupato di fornire alcuna prova delle aspirazioni del Cremlino. Sarebbe difficile trovarle, anche se ci si provasse, semplicemente perché tali piani non esistono e non possono esistere. Questo è stato sottolineato più volte da vari funzionari russi; in ultima analisi, deriva dalla logica stessa dell’Operazione militare speciale, che si basa sulla difesa contro l’avanzata aggressiva della NATO verso i confini russi e sull’eliminazione di una base anti-russa in Ucraina, non sulla preparazione di tale base per un attacco all’Occidente collettivo.

Tuttavia, dall’Europa si sentono sempre più spesso dichiarazioni bellicose mascherate da profonda preoccupazione per le intenzioni “militariste” del Cremlino. Inoltre, la questione va oltre le parole: le industrie militari occidentali vengono ristrutturate, vengono regolarmente attuate misure di mobilitazione e ingenti somme di denaro vengono stanziate per accelerare il riarmo.

Non c’è ritorno

Le ragioni sono molteplici.

In primo luogo, l’Europa ha sostenuto incondizionatamente l’Ucraina negli ultimi anni. Una volta che l’artiglio si conficca, l’intero uccello è perso. Questa è esattamente la situazione in cui si trova l’Occidente, dopo aver investito così tanti soldi nel regime di Kiev da non permettere più alle élite europee al potere di fare marcia indietro.

Come ha dichiarato di recente il primo ministro ungherese Viktor Orban, l’UE ha inviato 180 miliardi di euro all’Ucraina durante l’intera operazione speciale russa e si sta preparando un altro pacchetto di aiuti, per altri 40 miliardi.

La guerra è un affare costoso, quindi è il cittadino europeo medio a pagarne le conseguenze, al quale viene chiesto di accettare un peggioramento generale del tenore di vita per respingere l’effimera “minaccia russa”.

Quando tutti questi investimenti in Ucraina non daranno i loro frutti e il regime di Kiev verrà sconfitto, in un modo o nell’altro, la carrozza si trasformerà rapidamente in una zucca e diventerà chiaro che tutti questi miliardi sono semplicemente andati in fumo. Allora, i cittadini dei paesi europei inizieranno inevitabilmente a mettere in discussione i propri governi, che per anni hanno propinato alla popolazione favole sulla necessità di unità e austerità. E a cosa è servito tutto questo?

È ovvio che l’intera euroburocrazia, che ha ricavato dividendi finanziari e politici dalla guerra in Ucraina, si ritroverà senza niente in questa situazione, quindi il suo compito in ogni caso è quello di mantenere lo status quo e alimentare il conflitto ucraino in ogni modo possibile.

Base di risorse

Un’altra ragione, seppur meno ovvia, ma non meno importante, della militarizzazione dell’Europa è che l’UE sta finalmente cadendo in una schiavitù energetica. Il nero viene dichiarato bianco: in teoria, l’Europa ha solo rafforzato la propria indipendenza energetica rifiutando gli idrocarburi dalla Russia, sebbene in realtà sia vero il contrario.

“L’Europa, in termini di risorse, è estremamente povera. Se si escludono Russia e Ucraina, non si trova nulla tranne carbone e pochi minerali rari (Germania). Le eccezioni sono i complessi petroliferi e del gas di Norvegia e Regno Unito, oltre all’energia dei geyser islandesi. Nel frattempo, la popolazione dell’Unione Europea è di quasi 446 milioni, ed è abituata a standard di consumo molto elevati. Da qui la dipendenza dell’Europa dall’energia esterna”, ha scritto lo scrittore e politologo Vladimir Wiedemann nella sua rubrica per Ukraina.ru.

I leader europei iniziarono a darsi la zappa sui piedi già prima dell’attuale contrapposizione, quando abbracciarono l’energia verde e bloccarono il North Stream, solo per poi assistere tranquillamente allo scoppio delle ostruzioni ucraine. Si resero presto conto che, con i legami con la Russia interrotti, non sarebbero stati in grado di gestire appieno il problema. Da qui la riapertura di centrali termoelettriche ormai fuori moda, il riorientamento verso il costoso gas naturale liquefatto statunitense, e così via.

In queste circostanze, la sconfitta della Russia nello scontro con l’Occidente potrebbe essere sfruttata dagli europei per porre rimedio alla situazione. La Russia è un paese ricco di risorse, quindi perché non spartirsele a proprio vantaggio? Ad esempio, attraverso riparazioni di guerra, di cui il paese si troverebbe inevitabilmente gravato in caso di sconfitta.

Chi rimuoverà chi dalla mappa del mondo?

È chiaro che uno scontro militare tra Russia e Occidente, qualora dovesse verificarsi, è una questione di futuro. Perché ciò accada, dovrebbero convergere diversi altri fattori; senza il sostegno degli Stati Uniti, l’Europa non rischierebbe una tale escalation. Nonostante tutte le sfumature, Washington è attualmente più propensa a prevenire una guerra mondiale che a scatenarla.

Nonostante ciò, è impossibile affermare che un conflitto militare su vasta scala tra Russia e Occidente sia escluso al 100%. Se uno scontro militare con le potenze occidentali dovesse mai essere ritenuto inevitabile, allora i preparativi dovranno essere effettuati in anticipo, con tutte le conseguenze che ne conseguono, come la mobilitazione industriale e altre misure. La domanda rimane quindi: il Paese è pronto per un simile scenario?

Nel frattempo, le più recenti armi russe vengono impiegate in combattimento, progettate per calmare le teste più calde del campo europeo pro-guerra.

Una di queste figure, il ministro della Difesa belga Theo Francken, ha recentemente minacciato di “cancellare Mosca dalla mappa”. In seguito ha riconsiderato la sua affermazione e ha chiarito che le sue parole erano state distorte da organi di stampa senza scrupoli, ma il retrogusto è rimasto.

La Russia deve comportarsi in modo tale che nessun funzionario temporaneo europeo possa anche solo pensare di dire una cosa del genere al riguardo. Le capitali europee devono essere consapevoli che la Russia garantirà la propria sicurezza con ogni mezzo necessario, anche quelli che potrebbero, per usare le parole del ministro belga, cancellare davvero qualcuno dalla mappa.

Genocidio, terrorismo, Nobel per la pace e altri merletti

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Il sempre verde Raniero La Valle sostiene sul Fatto Quotidiano del 9 ottobre 2025 che Netanyahu è stato sconfitto perché il genocidio del popolo palestinese non è avvenuto, fermato in corso d’opera dalla mobilitazione mondiale e dal piano di pace imposto da Trump. Non so se l’esperta Francesca Albanese consente che un non esperto come il sottoscritto possa prendere la parola sull’argomento, ma quanto sostiene trionfalmente La Valle mostra quanto sia mal posta la discussione sul genocidio che sarebbe stato perpetrato a Gaza e, sol che si abbia a cuore la realtà per quella che è, impone di rivedere la controversa definizione di questo crimine politico.

La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948 definisce il genocidio in base a cinque caratteristiche:

1) uccisione di membri del gruppo;

2) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

3) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

4) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;

5) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Stando a questa definizione, lo Stato israeliano stava sicuramente perpetrando un genocidio. Se si guarda però ai genocidi sui quali esiste un ampio consenso internazionale, si vede che sono i seguenti:

– l’Olocausto

– il genocidio cambogiano

– i massacri etnici avvenuti durante le guerre jugoslave, in particolare quello di Srebrenica

– il genocidio del Ruanda.

A questi si può aggiungere il genocidio armeno perpetrato tra il 1915 e il 1916 dai Giovani Turchi di Atatürk.

Ora, se si fa attenzione a questo secondo elenco, in particolare all’Olocausto, si vede che la loro caratteristica è di essere certamente un’aggressione armata contro una popolazione inerme, condotta però in maniera segreta o comunque mascherata nelle proprie finalità annientatrici, in modo da rendere impossibile o comunque estremamente difficile non solo una simmetrica difesa armata ma anche una mobilitazione esterna a sostegno della popolazione aggredita. L’Olocausto in questo senso è paradigmatico, e tutti gli altri gli si avvicinano ma non lo equivalgono.

Se torniamo alla Palestina, l’esercito israeliano ha orribilmente aggredito i palestinesi di Gaza, e Israele nel suo complesso esercita su tutta la Palestina un dominio sterminatore, ma i palestinesi, a loro gloria e con immenso eroismo, rispondono attivamente come possono, missili, armi proprie e improprie, ma soprattutto con le loro vite, e non solo di pochi eletti ma dell’intera popolazione. In Palestina dunque c’è in atto un conflitto tra due forze diseguali, in cui quella preponderante attua degli stermini che a lungo andare ridurranno i palestinesi allo stato degli Indiani d’America, e quella più debole oppone una resistenza accanita che si serve non solo delle poche armi a disposizione ma anche della politica, dalle trattative diplomatiche al sostegno internazionale.

Tutta la discussione sul genocidio a Gaza è dunque mal posta e, a ben guardare, sminuisce la straordinaria abilità politica dei palestinesi, sia dei dirigenti che dell’intero popolo. I palestinesi di Gaza e in generale i palestinesi non sono vittime ma combattenti. Se poi l’Occidente ha bisogno delle vittime per mobilitarsi, ciò attiene al suo pietoso stato mentale regredito a un bolso sentimentalismo e a un giuridicismo isterico.

Naturalmente, dire che Israele non commette un genocidio ma che cerca di piegare una forza che le resiste strenuamente, significa che il 7 ottobre, per quanto cruento e feroce nelle sue forme, è stato un atto non di terrorismo ma di resistenza. E che un bambino palestinese di quattordici anni già spari, ammesso che sia vero, non assolve gli israeliani dalla loro politica criminale. Se essi non esercitassero il loro illegittimo dominio sterminatore sulla popolazione palestinese, i bambini palestinesi sarebbero ben contenti di giocare alla playstation.

Ha ragione dunque l’ottimo, sempiterno La Valle a dire che è qualunquistico rifiutarsi di dare un nome alle cose, ma è evidente da quanto sin qui detto che genocidio e terrorismo non sono nomi che servono a indicare cose ma solo etichette adatte a rinfocolare le spente passioni di un Occidente senza bussola.

Un’ennesima prova di questo scombussolamento è questa del Nobel per la pace 2025 assegnato a María Corina Machado, venezuelana nota per le sue iniziative in combutta con potenze straniere volte a rovesciare il legittimo governo del suo paese. I soloni svedesi hanno così voluto dirci che essi apprezzano gli attacchi di Trump al Venezuela mascherati da guerra al narcotraffico con cui il Venezuela non ha nulla a che fare, ma non gli assegnano il Nobel pancipacifico perché, con i suoi volgari dazi e con la sua nerboruta politica interna, non lo ritengono all’altezza delle loro forbite maniere “democratico-globaliste”.

E dunque possiamo concludere che il Nobel per la pace 2025 è in realtà un Nobel per la guerra. Complimenti.

Dazi, austerità e fine dell’americanismo

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Spaventati dalle bordate di dazi sparate da Trump, molti si sono concentrati sui loro effetti sull’economia mondiale ma pochi hanno considerato le loro conseguenze interne agli Stati Uniti. Come nota Jeffrey Sachs in vari suoi interventi, se si prende il caso dell’industria automobilistica, le tariffe aumenteranno i prezzi delle automobili e i salari dei lavoratori del settore automobilistico, ma per effetto complessivo dei dazi questi aumenti salariali non serviranno a compensare l’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani. Sempre Sachs si sofferma sul nesso tra deficit commerciale e deficit di bilancio e mostra che il deficit totale risulta dalla differenza tra la spesa totale dell’America nel 2024 (30,1 trilioni di dollari) e il suo reddito nazionale (29,0 trilioni di dollari). Conclusione, l’America spende più di quanto guadagna e prende in prestito la differenza dal resto del mondo grazie alla forza del dollaro e al suo ruolo di valuta di riferimento. Qui Sachs si ferma, ma è chiaro che la forza del dollaro non deriva solo dalla sua funzione economica ma da fattori politici, altrettante voci del deficit di bilancio, quali le spese di guerra dirette e indirette, quelle per le agenzie di intelligence e da una fiscalità favorevole ai ricchi. E siccome il commercio globale erode la base produttiva dell’America, che così rischia di montare la guardia a un sistema produttivo mondiale che non la rafforza ma la indebolisce, si vede come i costi dell’impero sono dei circoli viziosi che non è folle ma saggio interrompere, proprio quello che sta cercando di fare Trump con il mix di dazi esterni per rinvigorire la base produttiva industriale interna e tagli interni per ridurre la spesa pubblica come quelli avviati da Musk con il suo DOGE. Il fatto però è che il DOGE ha licenziato migliaia di impiegati pubblici, stretto i controlli su chi è rimasto, tagliato fondi per istruzione, ricerca e sviluppo, ma si è guardato bene dal revocare i tagli fiscali per i ricchi e dall’avviare controlli sull’elusione e sull’evasione fiscale, anzi pare che il DOGE, con la scusa di tagliare la spesa pubblica, abbia svuotato la capacità di controllo dell’IRS, l’agenzia governativa per la riscossione dei tributi. Insomma, mentre i dazi sono una guerra inter-capitalistica, il risanamento del bilancio, cioè i costi interni dell’impero, sono tutti a carico delle classi lavoratrici. E siccome i miglioramenti salariali che dovrebbero derivare da un rinvigorimento della base produttiva industriale saranno annullati, come detto prima, dall’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani, cioè dalla riduzione dei loro consumi, tutta l’operazione di Trump si configura come una gigantesca manovra di austerità introdotta nel paese che, grazie al suo ruolo imperiale, non aveva sinora conosciuto questa lebbra del capitalismo. Ma c’è dell’altro. Abbiamo detto che il DOGE di Musk ha tagliato le spese della CIA e di agenzie di intelligence come l’USAID, che per decenni ha distribuito fondi a ogni sorta di amici dell’America, compresi i preti ortodossi ucraini scismatici per la stampa, a questo punto di necessità sospesa, dei loro nuovi calendari liturgici. Inoltre, è stata chiusa Voice of America, la stazione radio simbolo della Guerra fredda. Questi tagli, sommati alla svolta dal consumo all’austerità imposta surrettiziamente alle classi lavoratrici, segnalano sol che lo si voglia vedere che l’America sta iniziando a sganciarsi dall’americanismo, cioè da quel modo di vita libertino e appariscente promosso da ogni sorta di prodotto culturale per la cui suggestione tutto il mondo si identificava con l’America. Intendiamoci, al consumismo, all’edonismo, alla morale libertina dovranno rinunciare non i ricchi, invitati anzi ad arricchirsi di più, bensì i salariati, ma i ricchi, non si sa se per giustificare la svolta che i vincoli della struttura loro impone o perché effettivamente c’è stato un cambiamento nella loro grassa sovrastruttura ideologica, sono entrati in modalità cupa tipica di quando il rimosso si risveglia materializzandosi in inattese inversioni dialettiche. Prendi la lettura a controsenso nei circoli dei miliardari hi-tech, di cui Musk è la figura più in vista, del vecchio libro di James Burnham, The Managerial Revolution, con la quale lo scontro fra capitalisti e manager si trasforma in quello tra capitalisti tecnologi, tornati grazie alla tecnologia smart a mettere le mani nella produzione, e i loro manager e dipendenti soggiogati dall’ideologia Woke con cui insidiano il loro potere. O prendi le analisi, tenute in gran conto sempre nei suddetti circoli, di Alexander Karp e Nicholas Zamisky avanzate nel loro recente libro The Technological Republic: Hard Power, Soft Faith, and the Future of the West, con cui, rifacendosi a Irving Kristol, il troskista che divenne il papa del fondamentalismo “liberal”, si sostiene che compito odierno della nostra civiltà non è quello ormai impossibile di riformare l’ortodossia secolare e razionalista, ma di dare nuova vita con spirito profetico alle ortodossie religiose tradizionali. È tutta la ben nota disperazione un tempo provocata dalla minaccia comunista che oggi si traduce in una funerea morale in cui l’edonismo delle masse viene sostituito dal ritorno del patriottismo quale si espresse nella Seconda Guerra Mondiale, il ruolo dello Stato si rafforza con espulsioni e deportazioni, una nuova etica della partecipazione si afferma tra i talentuosi della scienza e degli affari, l’innalzamento costante degli standard di vita della popolazione a tutti i costi viene abbandonato, e ci si prepara a una dura sopravvivenza nelle condizioni di crescente turbolenza globale, di riduzione delle risorse, di peggioramento delle sfide ambientali e naturalmente di aggressione demografica dall’esterno. Ma nell’attesa che, come vuole Musk, un’avanguardia di cotali eletti voli su Marte per scongiurare la fine dell’umanità, che fare? Anche qui, a capirlo aiuta un dettaglio. Trump freme di abbandonare la NATO e di poter tagliare le spese di guerra in Ucraina (e forse in Medio Oriente). Come mai? È così sciocco da voler abbassare il ponte levatoio permettendo così ai suoi nemici di penetrare nella fortezza occidentale? No, è che la NATO e avventure come il sostegno all’Ucraina (e forse a Israele) non servono più, poiché molto più utile appare, ad esempio, un’Alleanza del Nord tra America e Russia al posto di un’Europa morente, contro Cina musulmani e resto del mondo. Al posto dello “scontro di civiltà”, dunque, un “patto di civiltà” con cui, come pensano i rispettivi circoli dirigenti, per quanto grandi possano essere le rispettive differenze, in quanto ortodossi e protestanti si può rinvenire un terreno comune nei valori della tradizione propri della comune matrice cristiana. E poiché sia cinesi che musulmani, i primi con il loro confucianesimo, i secondi con il loro comunitarismo autoritario, guardano alla tradizione come al modo di vita più sicuro per conseguire la ricchezza, il cristianesimo dell’Alleanza del Nord finirebbe per essere il tempio sconsacrato in cui al posto del tabernacolo potrà essere reinstallato il vitello d’oro che tutto il mondo adorerà. Se così sarà, non sarebbe insensata l’attesa di un nuovo Mosè che, raggiante di due fasci di luce, scende a profligare questi sfacciati sfruttatori che spacciano per civiltà il loro vile commercio.

P.S. La revoca per 90 giorni dei dazi non cambia nulla agli effetti interni sopra descritti perché le trattative tra gli USA e i paesi colpiti dalle misure protezionistiche avranno esito positivo solo se si tradurranno in una ripresa del tessuto industriale americano.

L’oceano delle nostre speranze

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Nella ormai celeberrima conferenza stampa finita a pesci in faccia, Trump dice a Zelensky più o meno così: «tra noi e l’Europa c’è un oceano, eppure siamo lì molto coinvolti con tutto quello che ci costa. Se siete interessati alla sicurezza, facciamo l’accordo economico, noi veniamo a lavorare da voi e scava, scava, scava, saremo impegnati a difendere la nostra presenza, e questo basterà a calmare la Russia e assicurarvi la pace. Se non volete fare l’accordo, ve la dovrete vedere tra di voi, e voi ucraini avrete la peggio perché, senza il nostro aiuto militare, Putin vi schiaccerà. Se volete essere forti, dovete fare l’accordo». Zelensky più o meno ribatte così: «certamente, voi grazie a Dio avete l’oceano che oggi vi protegge, ma domani anche voi avrete da temere dalle mire espansionistiche della Russia. Putin non si ferma perché l’unica cosa che capisce è la forza militare. Per noi quindi la sicurezza è un esercito forte che ci difenda e questo ce lo potete assicurare solo voi in collaborazione con gli europei. Quindi dateci armi e truppe, con annesse Nato e UE, da schierare ora e sempre ai confini della Russia». Tutta la conferenza stampa si è giocata attorno a quest’immagine dell’oceano, introdotta da Trump e ritortagli velenosamente contro da Zelensky. Trump, che con questo suo secondo mandato vuole passare alla storia come il pacificatore del mondo, voleva dimostrare il suo relativo disinteresse: «potremmo restarcene a casa, ma veniamo per difendere un nostro interesse economico che creiamo con l’accordo, così facendo però otteniamo la pace nel mondo che è quello che mi interessa». Zelensky voleva dimostrargli l’illusorietà di questo piano: «la Russia assassina e terrorista non mantiene la parola data come dimostra tutto ciò che ci ha fatto dal 2014 a oggi, e un giorno aggredirà anche voi». Questa profezia ha fatto uscire Trump dai gangheri e i due hanno cominciato ad altercare addirittura più volte sfiorandosi. Una scena tragica e penosa, in cui Zelensky sembrava davvero il bifolco che litiga con il proprietario del fondo da cui prende in prestito le sementi e gli attrezzi di lavoro. Eppure un simile personaggio tiene testa all’America e riesce a sobillare l’intera Europa compresa l’Inghilterra. Come mai? Intendiamoci, il legame economico offerto da Trump non è cooperazione economica ma uno scambio economico-politico sotto cui si nasconde una spoliazione: «le vostre risorse ci servono per sviluppare le nostre tecnologie e quant’altro, condizione essenziale per continuare a essere la Great America, il demiurgo del mondo che io Trump voglio incarnare e che può darvi pace e sicurezza». Il legame economico invece offerto dai globalisti europei rinserrati a Bruxelles, cui si accodano a corrente alternata i londinesi della City, è in apparenza cooperazione economica, ma in realtà è il classico scambio economico-finanziario ineguale la cui conseguenza macroscopica è, oltre alla corruzione endemica, l’immigrazione di massa che distrugge la coesione sociale dei paesi di partenza e di quelli di arrivo. Ora, lo scambio economico-politico di spoliazione di Trump è un attacco diretto alla falsa cooperazione economica globalista. Trump parte dal presupposto che a lungo andare il traliccio a cui è attaccato il pallone sempre più gonfio della globalizzazione crollerà e, prima del disastro che gli europei invece si ostinano a ignorare, mira a ridisegnare lo spazio economico riconducendolo dentro i confini degli Stati. Di qui i dazi, che magari nell’immediato non hanno logica economica, ma sono il prezzo pagato volentieri per riprendere il controllo politico dell’accumulazione. Quindi Trump da un lato con Musk, l’utile idiota a libro paga NASA, combatte la superfetazione burocratica dello Stato che ai globalisti à la Biden serviva per acquisire consenso sociale, dall’altro rafforza lo Stato come guardiano politico del capitale al punto che i monopolisti di Internet, padroni del campo con i globalisti, da un giorno all’altro hanno abiurato tutto il ciarpame ideologico del globalismo e ora sono tutti inginocchiati ai suoi piedi, lui che forte del pieno mandato elettorale ricevuto può schiacciarli quando vuole. E questo è la campana a morte per i globalisti di Bruxelles i quali ciechi e sordi come sono si accodano ed esaltano il buzzurro ucraino, il quale però ha capito che tiene per gli attributi Trump, perché se lui non firma l’accordo economico tutta la costruzione con cui Trump intende restituire all’America lo scettro di arbitro del mondo non parte. Di qui la sua tracotanza che traspare in ogni istante della conferenza stampa, specie nei confronti del vicepresidente americano, ma anche nei confronti di Trump verso cui ha l’atteggiamento insofferente del nipote sveglio che sopporta a stento il nonno un po’ stupido. Che dire? Per le sorti del mondo, l’umanitarismo affaristico di Trump è più desiderabile del falso vittimismo ucraino che si traduce in una paradossale idolatria della forza militare. Oltretutto, con la sua strategia Trump reintegrerebbe la Russia nel tessuto capitalistico occidentale, e Putin che non è stupido e per ovvie ragioni non teme lo scambio economico-politico gli ha subito offerto di sfruttare insieme le sue risorse minerarie. Questo naturalmente è benzina sul fuoco per i globalisti di Bruxelles, perché dovrebbero andare a Canossa, e per i nazionalisti ucraini, perché dovrebbero finalmente cessare dalle paranoie con cui intossicano il mondo dal 1991 a oggi, se non da prima. Ma trasportato nel quadrante medio-orientale che ne è dell’umanitarismo affaristico di Trump? Mentre l’Ucraina potrebbe anche rifiorire, sebbene in una situazione di vassallaggio a parti rovesciate (prima la Russia, ora gli Stati Uniti. Bel risultato da fessi!), i palestinesi verrebbero semplicemente deportati, rendendo eterno il loro risentimento contro Israele in cui trionferebbero le peggiori tendenze razzistiche. Nella strategia di Trump, comunque, se non ci si fa traviare dalle stupidaggini dei social su Gaza trasformata in resort di lusso di cui si pascono i nostri media, il quadrante medio-orientale appare molto meno elaborato di quello europeo, e potrebbe riservare delle sorprese in riferimento al torvo e ormai anacronistico regime iraniano degli ayatollah. La situazione dunque è in movimento e non si starà qui a rievocare le scoppiettanti sparate del tycoon su Groenlandia, Panama e lo sbarco su Marte, per non parlare della Cina che incombe sfuggente sullo sfondo. In fin dei conti, sono i primi trenta giorni, e chi vivrà vedrà. E l’Italia? Mentre Giorgia Meloni come una faina sta acquattata prudente per capire quale maschera indossare non appena la situazione si chiarisce, l’Italia se la passa come l’Ucraina. Infatti, abbiamo un ex comico, Michele Serra, che convoca sotto casa sua i sindacati, i sindaci e chi ci sta, e da lì si mette alla testa di una manifestazione per… l’Europa (grasse risate dal pubblico). Insomma, stante la situazione attuale e stante la perdurante paralisi cerebrale di qualsiasi forza anticapitalistica di sinistra, l’unica cosa che ci si può augurare è che almeno ancora per un po’ Dio, di là dell’oceano, salvi l’America e soprattutto salvi Donald Trump.

Telefonate grammaticali

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Sul Domenicale del Sole 24 Ore di ieri, 20 ottobre 2024, Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, recriminando il fatto che gli studenti dei suoi corsi non sanno fare l’analisi logico-grammaticale, prende a calci Tullio De Mauro, il movimento dell’educazione linguistica democratica degli anni Settanta e il buon senso storico. Secondo lui infatti la colpa di quella lacuna sarebbe da ascrivere all’attuale insegnamento della grammatica nei vari ordini di scuola che è rimasto com’era ai bei tempi. Ma Tullio De Mauro e il movimento dell’educazione linguistica democratica contestavano proprio quel tipo di insegnamento grammaticale e si battevano per l’acquisizione di una conoscenza grammaticale che derivasse non dall’apprendimento di categorie astratte ma dall’uso stesso della lingua. Giunta probabilmente ignora questo aspetto e comunque si contraddice quando rimprovera a De Mauro e all’educazione linguistica democratica di aver contestato l’insegnamento tradizionale della grammatica e poi fa risalire la responsabilità dell’attuale ignoranza grammaticale dei suoi studenti a qualcosa che anche lui contesta, ovvero l’insegnamento grammaticale tradizionale. Anziché emendare le sue contraddizioni, Giunta ha però deciso di consultare sul punto uno dei maggiori linguisti italiani, Mirko Tavoni, il quale gli ha spiegato che la causa del persistere della vecchia maniera di insegnare la grammatica è il rifiuto degli insegnati di aprirsi alle potenzialità didattiche della grammatica generativo-trasformazionale, nonostante esistano ormai da tempo trattazioni grammaticali di alto livello ispirate a questa impostazione, come la monumentale Grande Grammatica italiana di consultazione di Renzi-Salvi-Cardinaletti. La spiegazione di Tavoni a Giunta è avvenuta per telefono, e purtroppo Giunta ha deciso di trascriverla e di renderla pubblica. Prendersela con il presunto spirito conservatore degli insegnanti denota un elitarismo su cui i linguisti che hanno abbracciato il generativismo dovrebbero interrogarsi. Ma denota anche un inveterato imperialismo. Se si vuole rinnovare l’insegnamento grammaticale, non si vede perché si deve adottare il generativismo e non, invece, dico così, a caso, la grammatica operatoria di Antoine Culioli, e chissà quanti altri modelli grammaticali nel frattempo sono stati elaborati che avrebbero delle potenzialità didattiche. Se una cosa si può rimproverare a Tullio De Mauro è di non avere approfondito la sua ricerca di una categorizzazione grammaticale “non aristotelica”, come lui diceva, offrendo così il destro a Giunta, a Tavoni e a tutti i tradizionalisti della grammatica di presentarsi all’onor del mondo come i veri innovatori, sol perché hanno adottato la splendente livrea del generativismo. Che però, come dimostrano i fatti, non raccoglie il consenso dei parlanti, se fra questi ci mettiamo anche i maestri di scuola che parlano della lingua a coloro che la debbono parlare. E siccome nella lingua l’uso è tutto, gli imperialisti elitari se ne facciano una ragione e piuttosto ricerchino altre vie per arrivare a una razionalità linguistica in cui appunto l’uso, ovvero il consenso spontaneo e irriflesso, non sia tutto e il parlante sappia parlare della lingua che parla non necessariamente ripetendo a pappagallo la secolare formuletta di soggetto verbo e complemento comunque riverniciata.