Ci voleva qualcuno che dicesse le cose come stanno, e alla fine il compito se lo è assunto una persona a modo come Sergio Romano. Il quale, nell’editoriale del Corriere di oggi, domenica 14 febbraio 2016, ha accostato l’assassinio di Giulio Regeni alla «salvaguardia della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui l’Egitto si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmana». Romano, inoltre, invita a considerare il fatto che «l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, e che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno dei suoi prossimi obiettivi». Tutto giusto. Ma che c’entra tutto questo con l’uccisione di Giulio Regeni? Che c’entra con l’uccisione da parte di un poliziotto, un anno fa, di Shaimaa al-Sabbagh, poetessa, militante del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana? Perché la lotta contro i jihadisti dell’Isis e la fazione radicale della Fratellanza musulmana deve comportare la repressione di chi lotta o anche solo studia come vengono sfruttati i lavoratori in Egitto? Lavoratori. Sfruttamento. Non si vorrebbero pronunciare queste parole, per non disturbare il placido sonno dell’ambasciatore Romano, ma egli che è così fine argomentatore, dovrebbe non accomunare, ma distinguere le nozioni, non accomunare, ma distinguere tra “lotte dei lavoratori” e “terrorismo”. Perché l’ambasciatore Romano non procede a questa elementare operazione argomentativa? Forse che il suo giornale e la sua stessa ideologia glielo impediscono? Non si vorrebbe davvero accedere a questo fosco sospetto. Eppure, se l’ambasciatore Romano e il suo giornale si svegliassero dal sonno dogmatico in cui li hanno precipitati dieci secoli di civiltà capitalistica, e trent’anni di capitalismo assoluto, vedrebbero che non solo i jihadisti dell’Isis, ma anche e soprattutto la fazione radicale e quella non radicale della Fratellanza musulmana sono i migliori alleati del generale Al Sisi nel consentirgli di consolidare con il suo potere un assetto in cui, reprimendo i “lavoratori”, si ottiene solo di perpetuare dei rapporti sociali ingiusti che, da un lato, alimentano lo jihadismo e la Fratellanza musulmana, dall’altro ingrassano i ceti capitalistici locali, ammantati di “socialismo di Stato”, della cui subordinazione al capitalismo assoluto globale il generale Al Sisi, molto più dell’infido Morsi, è divenuto, dopo Mubarak, il garante. È comprensibile che questi ghirigori dialettici in cui si dibatte la accaldata realtà egiziana e mediorientale, facciano girare la testa all’aristotelico ambasciatore Romano, ma egli si illude che tale realtà possa essere semplificata dal «giudizio dell’opinione pubblica», come pure conclude con fare ammonitorio il suo ispirato editoriale. Ispirato alla logica del realismo capitalistico, una visione che, come si sa, presume di essere l’unica realtà possibile. L’ambasciatore Romano e il suo democratico giornale, invece, farebbero bene a sottoporsi ad una adeguata terapia psicanalitica, che faccia loro riconoscere la gigantesca rimozione che sta alla base del loro concetto di realtà. Tanto prima decideranno di stendersi sul lettino della storia, tanto prima i concreti fantasmi contro cui lottano, jihadisti, terroristi, fratelli barbuti e non barbuti, dilegueranno, e tanto prima all’umanità intera sarà consentito di procedere oltre una civiltà e un meccanismo produttivo che sta mettendo in serio pericolo la sua sopravvivenza.
capitalismo assoluto
Capitalismo e rivendicazioni omosessuali
Mentre il Parlamento si avvia ad approvare, salvo sorprese, il disegno di legge Cirinnà sulle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”, vulgo, sui matrimoni omosessuali, vale la pena riflettere su una domanda che, magari in silenzio, magari sottovoce, molti si fanno: perché quelle che fino a poco tempo fa erano solo rivendicazioni delle organizzazioni LGBT, oggi sono diventate diritti civili, che non possono più essere ignorati? E, soprattutto, perché quelli che una volta si sarebbero chiamati i “circoli capitalistici”, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda ai governi democratici politicamente corretti, hanno fatto proprie le rivendicazioni omosessuali? In una parola, perché la connessione tra capitalismo e rivendicazioni omosessuali? Tentare di rispondere a queste domande comporta di fare un giro lungo, ma forse ne vale la pena. La premessa da cui partire è che nel capitalismo assoluto, di cui spesso in questo sito si parla, bisogna distinguere la civiltà capitalistica e il capitalismo. La civiltà capitalistica comprende il capitalismo come modo di produzione, ma è anche un sistema ideologico e un modo di vita. Esso storicamente è sorto in Europa da una ‘“fusione” di vari fattori da cui derivò la borghesia capitalistica europea. Questo “connubio” è tramontato con le due guerre mondiali e la fine del “compromesso socialdemocratico”, ma è rimasto il capitalismo “metropolitano” che risucchia nella “civiltà capitalistica” il capitalismo “periferico”, sorto dalla diffusione mondiale del modo di produzione capitalistico. La civiltà capitalistica ha dunque solo un legame storico con ciò che resta della borghesia europea, poiché costituisce uno strato cosmopolitico nuovo, che ha evidentemente bisogno del capitalismo come modo di produzione per riprodursi a livello mondiale. Ha bisogno cioè che si creino continuamente delle “periferie” per poter alimentare questo flusso continuo di riproduzione materiale e ideologica. Dunque, non solo merci, ma anche desideri. Non solo realtà, ma anche libido. Se il capitalismo è la realtà, la civiltà capitalistica è un particolare assetto del principio del piacere. La civiltà capitalistica è il godimento assoluto, che il modo di produzione capitalistico deve materialmente alimentare. Quando si parla di capitalismo assoluto, si parla quindi di un modo di produzione finalizzato al godimento assoluto, che è l’essenza della civiltà capitalistica. Qui torniamo alla domanda sul sostegno dei “circoli capitalistici” alle rivendicazioni LGBT: perché questa connessione tra civiltà capitalistica e omosessualità? La risposta che si può avanzare è che tale connessione consente un ulteriore “aggiustamento” del godimento assoluto proprio della civiltà capitalistica, basato su una precisa divisione internazionale del piacere: matrimoni “sterili” sia etero che omo nella “zona” ricca, dediti solo a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Questa divisione internazionale del piacere trova una sua verifica fattuale in quanto osservano i demografi, che notano non solo la correlazione attuale tra aree ricche e bassi livelli riproduttivi, e aree povere e alti livelli riproduttivi, ma anche la tendenza futura, secondo la quale la popolazione aumenterà più velocemente nelle aree povere, dove raddoppierà, a differenza di quanto accadrà nelle aree ricche, dove invecchierà e diminuirà. Il futuro dunque è di una civiltà capitalistica che produrrà periferie povere sempre più numerose per poter sostenere l’assetto produttivo libidico finalizzato al godimento delle aree ricche. E poiché il piacere è insito nella natura umana, e quindi anche i poveri lo desiderano e lo cercano, la civiltà capitalistica funzionerà sempre più non solo come un fattore di crescita demografica esponenziale, ma anche come una potente idrovora che risucchia verso le sue aree ricche le immense masse di poveri che tale civiltà produce in continuazione per poter assicurare la propria riproduzione. Dunque, il boom demografico, che sta proiettando la specie umana verso i dieci miliardi di esemplari, e le migrazioni bibliche, che i soloni pronosticano ininterrotte per i prossimi cinquant’anni, non sono calamità naturali, ma effetti del modo in cui la civiltà capitalistica utilizza il modo di produzione capitalistico per sostenere il proprio assetto libidico e quindi il proprio dominio mondiale. La questione omossessuale, allora, fa tutt’uno con la questione demografica e la questione migratoria, poiché come abbiamo visto risponde alla divisione internazionale del piacere su cui si basa la civiltà capitalistica. Però, non tutte le ciambelle vengono col buco. La civiltà capitalistica è dispostissima a riconoscere i diritti LGBT, dal momento che per essa è una ragione di vita “aggiustare” e approfondire il dispositivo del godimento, ma per sua sfortuna gli omosessuali, gay e lesbiche, sono degli esseri umani che, forse molto di più degli eterosessuali sazi del godimento dello “stile di vita” capitalistico in cui sono immersi, non si accontentano di essere dei puri ricettori di piacere. A loro quindi non basta il riconoscimento delle loro unioni come semplice matrimonio “sterile”, funzionalizzato a sostenere la norma del godimento. Essi invece vogliono anche avere figli, vogliono anche loro praticare il matrimonio “riproduttivo”. Tuttavia, per la civiltà capitalistica questa richiesta di affettività filiale non è un grave problema. Anche se i figli nelle aree ricche sono un costo produttivo, per la civiltà capitalistica trovarsi al suo interno un’enclave riproduttiva bizzarra (queer) non cambia molto nel bilancio produttivo che il capitalismo deve assicurarle. Inoltre, il desiderio procreativo di gay e lesbiche non potrà verosimilmente essere soddisfatto che attraverso la creazione di un ulteriore mercato, il mercato di uteri e spermatozoi. Un fatto che, nel ddl Cirinnà in discussione nel Parlamento italiano, ci si limita a riconoscere “a valle”, ricorrendo alla finzione dell’adozione del figlio dell’altro membro della coppia (stepchild adoption). Ma è evidente che un tale permesso non potrà che sviluppare ulteriormente il già avviato mercato dei fattori della riproduzione biologica. La civiltà capitalistica va così all’incasso due volte. La prima inglobando ed approfondendo l’area del godimento, la seconda creando un ulteriore settore produttivo per il modo di produzione capitalistico, che si allarga a comprendere la produzione di ogni genere di merci atte a soddisfare gli specifici bisogni della vita quotidiana delle coppie omosessuali. Chi si viene a trovare del tutto a mal partito è la “ragione”, sia essa dei laici o dei credenti, che non può affermare i diritti LGBT, ma anche il multiculturalismo e i diritti dei migranti, senza vedersi trasformata in orpello ideologico di un assetto libidico e di un meccanismo produttivo “altri” rispetto alle sue premesse di autonomia e di rispetto dell’individuo. La morale kantiana che, in quanto compimento laico della morale cristiana, era pure stata il grande acquisto universale della civiltà capitalistica borghese europea, sembra davvero diventata un ferro vecchio davanti alle inarrestabili dinamiche libidiche e produttive della nuova civiltà capitalistica cosmopolita. Né serve rispolverare il libertinismo per cercare di correre più velocemente del treno del godimento che follemente va, come fanno coloro che, però, in nome dello stesso laicismo radicale, di fronte al cozzo di usi, costumi e credenze, provocato dalle gigantesche migrazioni, dichiarano guerra al “sacro”, scambiando anche qui l’effetto per la causa. All’evidenza, infatti, non sono le religioni che si affrontano, ma gli individui portatori di religioni, usi e costumi differenti, che la civiltà capitalistica ammucchia nelle moltitudini migratorie di cui ha bisogno il modo di produzione capitalistico che l’alimenta. Spingere sul pedale dell’individuo radicalmente laico rischia di diventare quindi un delirio ideologico. Non l’individuo laico, infatti, trionferà, ma gli infiniti ricettori di piacere omogeneizzati dal godimento della civiltà capitalistica. Né meglio se la passano papi vescovi e cardinali, con i loro richiami alla “naturalità” del matrimonio eterosessuale procreativo. La corrente gelida del godimento, infatti, attraversa già il loro organismo con la pedofilia, che è l’esito storico di un assetto libidico e produttivo, precursore della stessa civiltà capitalistica1. I moniti cardinalizi sono dunque voci di un comando enunciato con lo stesso fiato di cui è fatto il grido che li contesta. Eppure, questi moniti planano su piazze che non aspettano altro che di essere mobilitate, e i laici radicali combattono nel sogno dell’ideologia le loro furiose battaglie, e gay e lesbiche vogliono procreare a dispetto del godimento e della sua logica strumentale, e i migranti solcano i continenti per sfuggire al meccanismo che li vuole poveri, cioè strumento passivo del godimento altrui. È vero, perciò, che il capitalismo assoluto coincide con la vita al punto da risultare incriticabile, ma dalla sua coltre spuntano continuamente teste braccia e gambe di corpi che convulsamente cercano di respirare le ragioni insopprimibili di quella vita che il capitalismo assoluto tende ad assorbire completamente in sé. Chi raccoglierà la spinta di questa scoordinata aspirazione al desiderio, cioè ad un piacere finalmente “disinteressato”? Potrebbero essere la scienza e la tecnica, con le loro collaudate ma anche nuove scoperte, ponti, strade, ferrovie, vaccini e computer, ma anche spermatozoi sintetici e uteri artificiali. Ma scienza e tecnica sono potenze intellettuali, incapaci da sole di produrre un contro-potere sociale, che restituisca le comunità ad un rinnovato “placido corso”. Qui ci sarebbe bisogno di una politica che, con le sue rigorose leggi strategiche e organizzative, tornasse alla guida degli “oppressi”. Ma, nell’attesa di un sì bel dì, essere pro o contro? A favore o contro i matrimoni omosessuali e le loro figliolanze per procura? Contro, si affiderebbe un divieto ad una civiltà che nel suo fondamento spinge al comportamento che con la legge vorrebbe vietare. A favore, non si impedirebbe che pur contraddittoriamente bisogni umani trovino una loro provvisoria espressione immediata. Piuttosto che un ulteriore arbitrio repressivo, non è meglio, allora, una contraddizione che lasci aperto il domani?
- F. Aqueci, Freud, Pareto, Lacan e la questione cattolica, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2010, pp. 33-39, poi ripreso in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153-165. [↩]
L’auto senza pilota. Gradualmente.
Si sa, “la Repubblica”, per bocca del suo fondatore, teorizza la compenetrazione di fatti e opinioni: dare tutte le notizie, ma colorate con la vernice che apertamente piace a noi. Così, quando l’articolista scrive: «Oggi è una frase da ricchi: “Manda l’auto a prendermi in azienda”. Domani potrebbe essere una frase di tutti»1, il lettore ancora prima di leggerla deve condividere che domani tutti lavoreranno in azienda, o comunque che tutti quelli che lavoreranno in azienda potranno farsi venire a prendere dall’auto. Associato a questa community ideologica dalla vasta estensione transnazionale, il contenuto dell’articolo è ripreso infatti dal meglio dell’informazione anglosassone, il lettore potrà allora immergersi nello scenario di vita quotidiana che il giornalista, come da manuale, gli prospetta: «Luisa si sveglia alle sette fa colazione, sale in auto e si fa trasportare in ufficio mentre consulta il tablet. Non ha bisogno di parcheggiare. L’auto torna immediatamente a casa da sola. L’attendono il marito di Luisa, Michele, e il piccolo Luigi. Il figlio saluta il padre, sale in auto e va a scuola. Durante il tragitto ripassa la lezione. Quando Luigi scende, l’auto torna a casa. Sale Michele che va a fare commissioni. Questo è il periodo della giornata in cui l’auto senza guidatore viene utilizzata in modo quasi tradizionale. E’ chiaro che mentre si sposta da una destinazione all’altra Michele può leggere e sbrigare faccende senza preoccuparsi del percorso e dei semafori. Ma l’auto si sposta sempre con lui fino a quando torna a casa, all’ora di pranzo. Mentre il padre prepara da mangiare l’instancabile automobile torna da sola a scuola a prendere Luigi e riportarlo a casa. In serata sarà ancora l’automobile vuota ad andare in azienda, prelevare Luisa e riconsegnarla sotto il suo appartamento». Fantastico! E che scenario politicamente corretto, per il lettore medio che il giornale in questione forgia giorno per giorno! È Luisa che va in ufficio, mentre il padre è un casalingo, magari con un lavoro da casa. E Michele e Luisa hanno un solo figlio. Maschio. Perfetto. È il mondo di oggi, così come la pubblicità odierna vorrebbe che fosse, ma proiettato nel domani, quando ci sarà l’auto senza pilota. L’auto senza pilota che quei demiurghi di Google stanno ideando per noi. Un mondo dove tutti sono ricchi, ma con una tale levità da poter farsi venire a prendere tutti dalla macchina a fine giornata in ufficio. Un mondo in pace con l’uguaglianza, l’ecologia e l’economia. Infatti, spiega fervorosamente l’articolista, l’auto senza pilota applica alla perfezione una delle regole di base dell’economia: «il capitale investito deve essere utilizzato il più possibile per essere ammortizzato in fretta. Lasciare un’auto parcheggiata otto ore sotto l’ufficio è uno spreco di capitale. Non solo e non tanto perché si paga la tariffa del parcheggio ma perché acquistando un’auto si spendono decine di migliaia di euro per comperare l’opportunità di spostarsi e non ha senso economico sfruttarla solo due volte al giorno». Non fa una grinza. Basta entrare nell’ordine di idee che spostarsi equivale a spostarsi con l’auto privata. È un altro effettucio ideologico che fa parte del contratto “niente fatti scissi dalle opinioni”, ma stiamo parlando della mobilità automatizzata di domani. Vogliamo metterci a fare i tignosi di fronte a questo radioso mondo firmato Larry Page? La mobilità automatizzata, cioè l’auto privata con il pilota automatico, non è uno scherzo. Si è mossa Barclays a studiare il progetto, dal cui rapporto provengono le informazioni apertamente partigiane che il bravo articolista sta bravamente contribuendo a diffondere. E quando si muove una banca, vuol dire che presto il sogno sarà incubo, cioè realtà. Barclays ha calcolato l’effetto che l’auto senza pilota avrà sulla produzione di automobili. Pare che dei 33 stabilimenti americani GM e Ford, ne resteranno 17. Sarà una bella lotta (intercapitalistica, se si può dire) tra gli inopinati giganti sbucati dal web e i dinosaursi delle automobili tradizionali. E di Luisa e Michele, e del loro figlio Luigi, che ne sarà? Quel desiderio di ricchezza media levitante sulle ruote leggere di un’auto senza pilota si realizzerà? Dipende. Come spiega l’infervorato articolista, «gli analisti prevedono che il cambiamento sarà graduale. Inizierà prima nelle grandi città e solo successivamente arriverà nelle campagne. Ma sarà inevitabile. Soprattutto se nei grandi centri urbani la mobilità automatica sarà incentivata da permessi di accesso non coinsentiti alle auto tradizionali». Ma poter farsi venire a prendere dall’auto senza pilota non doveva essere alla portata di tutti? Gradualmente. Peppino, Ignazia e Alfiuccio, che coltivano patate e mungono caprette in un agro lontano dalla città à la Page, dovranno aspettare un pochino, diciamo qualche generazione, e se vorranno venire in città con la loro fetida automobile tradizionale, dovranno lasciarla in un malfamato parcheggio a ore, e pagare una bella tassa di accesso. Uffa, va bene, le diseguaglianze, ma anche i ricchi piangeranno. Infatti, quelli con la passione rétro di far rombare i motori a colpi di accelleratore, saranno costretti a sgasare lontano dalla città perfetta, magari in quell’agro lontano dove Peppino, Ignazia e Alfiuccio buttano sangue tutto il giorno. È la «sconvolgente rivoluzione della mobilità», come la descrive neutralmente Barclays nel suo rapporto, che abbassa le vecchie élite e dà un’altra illusione ai poveri. Capitalismo assoluto? Ma no, solo scienza e tecnica, quelle “potenze” che filosofi sconsiderati chiamano spregiativamente Gestell, e che invece, messe a profitto da apostoli visionari come Larry Page e compagnia, operano incessantemente per elargire i loro doni all’umanità. Gradualmente.
- P. Griseri, L’auto senza pilota. Ne basterà una sola per tutta la famiglia e circolerà il doppio, ‘la Repubblica”, 17.1.2016, p. 21. [↩]
Europa, a proposito del suo contributo al mondo di domani
Con onestà pari all’ostinazione con cui prevede che il mondo finirà inghiottito nel buco nero della tecnica, Emanuele Severino riconosce che «proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo»1. Guido Rossi trova giustamente stimolante quest’analisi, e alla potenza della tecnica oppone giudiziosamente quella dell’idea. Peccato però che l’idea alla quale si appella, sia quella di un’Europa politica federalista, la quale secondo Rossi addirittura «potrà ristabilire l’ordine mondiale, dopo la fine della pax Britannica e il declino della pax Americana»2. In questi voli pindarici, Rossi è in buona compagnia. La pensa così Habermas, e la pensa così Scalfari, per citarne solo alcuni. Scalfari, in particolare, nei suoi articoli domenicali prospetta un mondo globalizzato governato da un direttorio composto da USA, UE, Russia, India e Cina. È una prospettiva che si ammanta di realistica saggezza, ma che in realtà occulta dati di fatto essenziali. Un tale direttorio, infatti, è tutt’altro che una meta di stabilità, per fatti logici e storici. Il fatto logico è che il federalismo non è portatore né di reciprocità tra governanti e governati, né di pace tra le nazioni. Il federalismo comporta una verticalizzazione del potere, e dà luogo a Stati che perseguno in vario modo la potenza. Basta ripassarsi la storia degli Stati Uniti, ma anche solo della Confederazione elvetica, per avere molte conferme storiche. Si dirà, ma come, la pacifica Svizzera persegue la potenza? A parte che la pacifica Svizzera è fra i paesi con la più alta diffusione di armi da fuoco, che fanno la loro comparsa nelle non infrequenti esplosioni psicotiche che rodono quel paradiso terrestre. Ma questa è una violenza interna. Ciò che conta è che con la potenza finanziaria dei suoi gnomi, la Svizzera ha prefigurato ciò che oggi sta diventando l’Europa con l’euro, il quale è la sublimazione finanziaria di ciò che un tempo fu la potenza militare. La sublimazione è un processo difficilmente controllabile, così a Rossi con le migliori intenzioni scappa di dire che l’Europa finalmente federale ristabilirà l’ordine mondiale. Come volevasi dimostrare. Un altro fatto che Scalfari occulta con la sua prospettiva di un direttorio mondiale composto dai cinque “grandi”, è che Russia, India e Cina non sono né Stati né nazioni, ma solo “grandi spazi”. In Russia, c’è chi, come Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere di Putin, rivendica questo fatto, parlando di “grande spazio eurasiatico”. Ora, il “grande spazio” è stabile come un castello di carte. Non è un caso che la millenaria Cina è colta dal terrore davanti alla fermezza con cui un uomo solo come Liu Xiaobo rivendica, sebbene, come lui stesso riconosce, con l’antiquato linguaggio della scienza politica occidentale, la “democratizzazione” della Cina, cioè la scomposizione ed emancipazione delle molte etnie che formano il suo spazio imperiale, di cui ciò che fu il glorioso Partito comunista cinese si è ridotto ad essere l’ultimo, ringhioso cane da guardia. Lo stesso si può dire dell’India, dove la presenza in superfice di istituzioni rappresentative rende solo più flessibili le oscillazioni profonde del castello di carte. Un mondo retto da un direttorio di tal fatta è dunque un mondo in cui popoli e nazioni saranno governati con il bastone del lavoro servile e con la carota di qualche lustrino consumistico. Non meraviglia che Scalfari non veda tutto ciò, essendo egli fermatosi nella sua analisi del capitalismo alla nozione puramente polemica di “razza padrona”. Severino, invece, nella sua analisi delle prospettive europee e mondiali, non ha nessuna remora a ricollegarsi alle analisi di Marx sul denaro, anche se la redazione del Corriere gli fa i brutti scherzi, come Landini al Marchionne di Maurizio Crozza. In una didascalia che dovrebbe spiegare all’inclita chi è Karl Marx, di cui si riproduce la classica icona del Carlo barbuto, il redattore scrive infatti che costui «nel suo famoso libro Il Capitale elaborò un’analisi dell’economia industriale moderna che oggi appare superata». Come mai allora il Corriere pubblica un articolo che si rifà alle tesi di tale “superato” filosofo? Tornando alle cose serie, il capitalismo di cui Severino con tanta spregiudicatezza vede lo stato di crisi terminale, è lo stesso sistema che, specie in questa fase di capitalismo assoluto, non ammette né pace, né reciprocità tra governanti e governati, ovvero le due cose di cui più ha bisogno il mondo di domani. Se c’è dunque un contributo che l’Europa può dare a tale mondo a venire, è quello di coltivare e sviluppare le differenze, ma in modo tale che ogni differenza sia una lingua universale in cui tutte le altre possano essere comprese e tradotte. È quello cui aspirarono gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, ma fermandosi per vincoli strutturali davanti all’invalicabile limite delle piccole cerchie intellettuali. La sfida ora è di scrivere quel grande libro passando dall’intelletto individuale alla mente collettiva.
Tsipras sulla via di Dubcek
Dopo la capitolazione greca, dovrebbe ormai essere chiaro che l’Unione europea è la cittadella del più tetragono capitalismo assoluto. Le prove si rinvengono facilmente sulle labbra candide dei migliori turiferari: «Come ci si sente nel ventre di un protettorato, lo scopriranno i deputati greci in Parlamento stamattina quando sarà chiesto loro di votare in due giorni più leggi che negli ultimi cinque mesi. Non sarà un’impressione aribitraria la loro ma un dato di fatto, a credere a Robert Fico. Ieri mattina all’uscita dal vertice di Bruxelles, il premier slovacco ha descritto la soluzione individuata per la Grecia così: un “protettorato” e, ha aggiunto, “non c’è niente di male in tutto questo”». E ancora: «Vista da Berlino, o dall’Aja, non c’è solo la repressione di una sommossa europea goffamente condotta da Tsipras. C’è soprattutto una dose tipicamente protestante di ruvida educazione ai riluttanti, nel loro interesse»1. Dunque, presunzione assoluta di verità, tanto da sapere meglio dei greci qual è il loro interesse. Ma ciò che bisogna notare nella vicenda del duo Tsipras-Varoufakis, è che per sei mesi le avanguardie di forze disperse ma potenti si sono potute aggirare nei meandri di questa fortezza, tenendo ai tavoli degli altezzosi principi che in essa comandano discorsi “inauditi”. Lo dimostra il fatto che Varoufakis non è stato mai confutato de dicto, ma in re, ovvero nelle sue pose motociclistiche, trattamento che nessun media europeo osa riservare alla carrozzella da cui il ministro delle finanze tedesco lancia i suoi sguardi di torvo asceta del valore di scambio. Quando, dopo il referendum del 5 luglio, la coppia Tsipras-Varoufakis si è scissa, l’inopinata “violazione di territorio” è apparsa ancora più chiara. Tsipras, che aveva cercato un’“Europa dal volto umano”, si è avviato al destino di un Dubcek, sottoposto al waterboarding delle trattative di Bruxelles come il cecoslovacco lo fu con il viaggio che Breznev gli impose nella Mosca imperiale dell’epoca2. Varoufakis, invece, ha rivelato dell’esistenza di un piano di riserva, cioè, assieme ad altre misure, della emissione dei famosi titoli di credito fiscali attraverso cui riguadagnare la sovranità monetaria. Nel caso greco, non c’è stato coraggio o conoscenze sufficienti per avviare una simile misura, e il falco Schaeuble ha fulmineamente rivolto l’arma contro gli intrusi, proponendo lui dei “pagherò” emessi dai greci che sarebbero però degli ulteriori debiti3. Per questa volta, dunque, la mano è persa, ma non c’è dubbio che di tutto ciò faranno tesoro quelle forze potenti ma attualmente disperse di cui si diceva. La natura totalitaria dell’Unione Europea è il punto debole di questa associazione di economie liberistiche. Essa non ammette un contro-discorso al suo interno, ed accumula quindi una crescente tensione verso parti di sé che, o perché provenienti dalla tradizione o perché restie ad accettare la religione liberoscambistica, è necessitata ad espellere. Come i terremoti, non si può dire quando questa tensione tra natura umana e capitalismo, evidentemente non coincidenti, scaricherà la sua energia. Dal 1968 alla caduta del Muro di Berlino passarono trent’anni. Inutile quindi le previsioni. Ciò che è certo è che l’Unione Europea per sua intrinseca natura non può derogare dal suo assolutismo capitalistico, che alimenta divorando se stessa (austerity), poiché solo così riesce a produrre quella potenza che le permette, nella totalizzante religione della merce cui è votata, di competere nella “globalizzazione”, cioè di alimentare la competizione intercapitalistica mondiale. Quando quel terremoto arriverà, è facile prevedere che l’assolutismo capitalistico europeo, proprio per la sua natura totalitaria, si rovescerà repentinamente nel suo contrario, nel senso che i discorsi “inauditi” prolifereranno sul suo corpo ischeletrito, ormai incapace di opporsi alle forze contrarie che con il suo autofagismo ha fatto nascere.
- F. Fubini, “Voto a passo di corsa sul pacchetto. Ma il governo è già in disfacimento”, Corriere della sera, 14.7.2015, p. 3 [↩]
- L’espressione “waterboarding mentale” è di una corrispondenza del Guardian. Cfr. “Greek crisis: surrender fiscal sovereignty in retunr for bailout, Merkel tells Tsipras” [↩]
- “Grecia, Schaeuble suggerisce emissione ‘pagherò’” [↩]