fascismo

Fascismo, il fatto “neutro” che ingrippa le istituzioni

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Centro «arrabbiato», «che non dirige il traffico» (Bersani, a “diMartedì” di qualche settimana fa). M5S, che ha un problema con la democrazia rappresentativa (sempre Bersani), e infatti v. Casaleggio jr., secondo cui i partiti tradizionali sono moribondi, la democrazia sarà sul web (lettera al “Corriere” del 3 aprile). Masse di elettori di sinistra che si spostano sul centro «arrabbiato», attratti dall’agitazione di temi tradizionalmente di sinistra. Negazione grillina dell’architrave destra/sinistra, ma riproposizione della contrapposizione dentro il “Movimento” (da ultimo, D’Alema, editoriale di “Italianieuropei” 2/2018). Chi nota tutto questo, purtroppo, e la cosa non meraviglia, continua a glissare sulla cosa più grossa, la dittatura del capitale sul lavoro, e del capitale finanziario sul capitale. Ma se, come nel gioco dei puntini, si uniscono con delle linee tutti questi elementi, balza fuori dai libri di storia la figura ben nota del fascismo, ridotto però a fatto “neutro”, necessario addirittura a far funzionare le istituzioni democratiche. Forse che Mattarella non spinge gli “arrabbiati” di Lega e M5S ad allearsi tra di loro, per un governo che soddisfi le “urgenze dei cittadini”, oltreché le “responsabilità internazionali”? Si obietterà che questi “vincoli” addomesticano il fascismo che alberga in quei due partiti, ma a loro volta questi partiti fiaccheranno il potenziale trasformatore che, secondo Costituzione, dovrebbe essere proprio delle istituzioni democratiche, le quali ristagneranno nell’inerzia in cui ingrassa l’attore principale, quel capitale finanziario che tutto permea di sé. Tonalità del presente, dunque, virante al nero. Ma negli anni Trenta c’era l’URSS, la Terza Internazionale, l’antifascismo, un campo largo che, pur con i suoi casini, faceva da supporto a chi resisteva. Oggi, chi avanza le analisi sopra richiamate guarda dall’alto in basso il socialismo latino-americano, per altro, disomogeneo di suo – Kirchner, di solito garrula, non ha emesso un solo tweet pro Lula. Oggi, chi avanza quelle analisi, al massimo, firma, appunto, qualche appello per Lula, e si chiede cinicamente perché mai ancora i cubani si ostinino nel loro comunismo residuale, e deve essere qualche onesto giornalista borghese (Bernardo Valli, su L’Espresso del 18 marzo) a riconoscere che Cuba, sì, sarà un inferno, ma è anche un paradiso. Eppure, il 4 marzo ha parlato chiaro, non c’è più spazio per la sinistra borghese di questi ultimi decenni, si presenti sotto le vesti del Pd o di LeU. Né c’è spazio per la sinistra goliardica di Potere al popolo. La sinistra è, se è proletaria, nazionale, internazionalista. Un lavoro immenso per riempire queste tre parole di sempre con i contenuti del tempo presente. Ma che altro fare?

Lavoro, parlamento, fascismo dopo il 4 marzo

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A volte, porsi domande lunari, serve ad afferrare più saldamente la realtà effettiva. E, dunque, a che punto sono le sorti del lavoro non alienato nel Parlamento appena uscito dalle elezioni del 4 marzo? Nel precedente Parlamento, c’era una grande area “riformista”, in cui si è accettato per qualche decennio che il lavoro venisse “riformato” per ”ridurre il danno” (“lo facciamo noi delicatamente, prima che lo faccia la destra brutalmente”), area che, sotto la pressione della crisi, si è scissa in una parte maggioritaria, tenuta al guinzaglio dal vasto raggruppamento liberista, che aveva in Alfano il suo cavallo di Troia, e in una parte minoritaria che, prima con timide protestazioni verbali contro il Job Act, poi con la scissione di LeU, si è venuta via via caratterizzando in senso laburista, sino al tardivo incontro elettorale di Grasso con Corbyn. Adesso bisogna aggiornare la mappa e anche la terminologia.

Dal voto è uscita l’area del centrodestra egemonizzato dalla Lega, che, al fine del mantenimento dell’ordine esistente, riconosce al lavoro la modesta quota parte utile alla sua riproduzione, ivi compreso un certo consumo affluente aggiornato al clima penitenziale dell’austerity, quest’ultima per altro contestata in senso sovranista, fra i mugugni dell’area euro-popolare di cui il Berlusconi redivivo si fa garante. Al capitale tocca, dunque, la grossa quota parte della flat tax, e al lavoro viene riconosciuto il risarcimento salariale differito dell’abolizione della riforma Fornero, più qualche mancetta in busta paga “per sostenere la domanda”. Questo non è populismo, ma il riconoscimento “corporativo” del lavoro, nel quadro di una dialettica nella quale il capitale immodificabilmente comanda su lavoro, soprattutto nei periodi di crisi, come accadde negli anni Venti del secolo scorso, dove il comando divenne dittatura politica, cioè fascismo.

Dal 4 marzo, è uscita poi l’area del lavoro “subalterno”, che nel precedente Parlamento era intestato ai modi civilizzati del riformismo. Quest’area adesso è ristretta al gruppo renziano, cui sta venendo in soccorso il focoso Calenda, ed è collegato per mille fili al liberismo europeistico di cui la Commissione di Bruxelles è il “consiglio di amministrazione”, che si muove su input della BCE ecc. ecc. In quest’area, il comando del capitale sul lavoro è altrettanto ferreo, ma viene a mancare il riconoscimento “corporativo”, poiché il capitale, avvolto nella spirale globalista, dove meglio si ossigena la sua bionda chioma guerriera, non tollera vincoli di sorta, tanto meno “corporativi”. Tecnicamente, questo è il fascismo “bianco”. Bianco perché, a differenza di quanto accade nella dialettica “corporativa” tra capitale e lavoro, non c’è più l’allusione al fascismo storico. Fascismo perché, secondo il suo significato essenziale, forgiato dalla storia negli anni Venti del secolo scorso, è fascista il dominio incontrastato, cioè dittatoriale, del capitale sul lavoro. Un significato storico, dunque, che è divenuto tecnico, dal momento che la dittatura del capitale non ha più bisogno di iscriversi nella sovrastruttura politica, sospendendo il parlamentarismo, ma si può esercitare semplicemente nella struttura, liquefacendo il lavoro, o tecnologicamente (info-robotica) o socialmente (delocalizzazioni).

A questa liquefazione del lavoro, sia in quanto lavoro differito nell’info-robotica, sia come sparizione nel sottosuolo infernale delle delocalizzaizoni, si richiama, con una fascinazione al limite dell’incanto magico, l’area del non lavoro, intestata agli allucinati visionari del M5S. Qui, un cattivo realismo (non “il capitale, per riprodursi, sta uccidendo il lavoro”, ma “il lavoro è morto”) diviene la giustificazione per una richiesta redistributiva, il reddito di cittadinanza, che, fatti due conti, al capitale conviene, eccome, dal momento che è assai meno costoso del Welfare, e socialmente, frantumando ancora di più le connessioni sociali, rende ancora più vulnerabile il lavoro, ascrivendolo al precario destino dell’individuo ridotto ad atomo consumistico austericizzato. L’area del non lavoro, dunque, propala l’enorme mistificazione grillo-casaleggiesca secondo la quale, l’accresciuta dittatura del capitale sul lavoro viene fatta passare per fine del lavoro. Non un momento storico della lotta di classe, ma un dato di fatto che la tecnologia entificata e la società naturalizzata incorporano nel percorso evolutivo della specie. Come contestare l’evoluzione naturale, quando per altro il reddito di cittadinanza si sposa facilmente con un sostrato storico assistenzialistico-clientelare, solo marginalmente attinto in passato dal “salto di civiltà” del lavoro classicamente alienato? Su questo, per altro, si appunta la critica di coloro che, dal fronte del lavoro “subalterno”, contrappongono il “lavoro” all’“assistenzialismo”, salvo poi liquefare il lavoro con il Job Act. Ma queste sono schermaglie dialettiche di poco conto.

Per completare il quadro, resta da citare, nel nuovo Parlamento, la sparuta area laburista, rappresentata dai naufraghi di Liberi e Uguali, che sono ritornati a riconsiderare la dura realtà storica della guerra del capitale contro il lavoro, ma senza fuoriuscire dall’illusione che, concertando concertando, il bastone capitalistico di oggi diventerà la carota socialista di domani.

Dunque, lavoro corporativo, lavoro subalterno, non lavoro, lavoro laburista, questo lo spettro delle posizioni presenti nel nuovo Parlamento, che si caratterizza perciò per un approfondimento della dittatura del capitale rispetto al Parlamento uscente, e questo proprio quando si celebra la fuoriuscita dalla crisi, a dimostrazione che le crisi si risolvono sempre “a destra”, mentre è lo sviluppo che consente virate “a sinistra”, verso cioè l’affermazione del lavoro come strumento per far fiorire l’essenza umana. Un punto che, almeno strategicamente, dovrebbe tornare al centro di una sinistra dalla ritrovata virtù, rimandando la tattica a qualche genio dell’azione prodigato da una favorevole fortuna.

Il fascismo che ritorna in una zoppicante riflessione di Michele Prospero

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Secondo Michele Prospero, che si interroga sul ritorno del fascismo, la destra radicale serve oggi alla destra normale, cioè al dominio incontrastato del capitale, per coprire l’accumulazione ingiustificabile di ricchezze e orientare il risentimento dei subalterni contro gli immigrati, “alieni” che invadono la “patria”1.

Ma perché, all’improvviso, i subalterni avrebbero dovuto, non solo preoccuparsi dell’invasione degli “alieni”, comprensibile perché sottrarrebbero loro il lavoro, ma addirittura riscoprire la “patria”, cosa di cui si danno pensiero più i piccolo borghesi che i lavoratori?

La tesi di Prospero va bene sino a quando evidenzia il “fascismo bianco” dell’odierna dittatura del capitale, ma zoppica quando sorvola sul fatto che il capitale per diventare tale ha dovuto sottomettere la quieta “comunità tradizionale”, dando vita alla frenetica “società civile”. Perciò, se la dittatura del capitale oggi si esercita efficacemente sul lavoro, meno efficace appare sul “ritorno del rimosso” che il fascismo, di ieri e di oggi, ha sempre incarnato presentandosi come forza della tradizione.

I subalterni oggi sono vinti non solo perché, in quanto consumatori, sono ammaliati dal marketing, ma anche perché sono in preda ad un bisogno di comunità che, caduto il progetto razionale del comunismo, soddisfano alla meglio con il surrogato della comunità tradizionale, un heideggerismo di massa in cui si incontrano intellettuali e popolo sfigurati dalla nostalgia. Salvini così può proporre non solo l’abbattimento della tassazione per il capitale, ma anche l’abolizione della legge Fornero.

Secondo Prospero la sinistra deve rinascere nella lotta contro queste due destre che rendono il capitale sia sistema che antisistema. Questo richiederebbe di cominciare ad accorciare le linee, tra chi, dichiarandosi di sinistra, sta nei palazzi illudendosi di volgere in proprio favore il “fascismo bianco” di cui si diceva prima, e chi si disperde in mille lotte riservando il più feroce disprezzo contro i “venduti” rinserrati nei palazzi di cui sopra. Ma quanto sia improbo questo compito lo dimostra già il fallimento di una lista unica a sinistra del PD per le imminenti elezioni politiche, che ha indebolito tanto Liberi e Uguali quanto Potere al Popolo. C’è da sperare che il disastro che si annuncia, portando al disfacimento dello stesso PD, serva da “nuovo inizio” che bruci tutte le scorie del passato.

  1. M. Prospero, Salvini servitore di due padroni, “il Manifesto”, 16.2.2018, p. 1 e 15. []

Brutto carattere

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Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.

  1. http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml []

L’attrazione fatale

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«Dobbiamo pertanto valutare costi e tempi delle due possibili uscite dalla crsi: abbandonare l’euro preparandosi a fronteggiare il (possibile?) attacco speculativo, ma recuperando il controllo delle nostre sorti […], o pagare il costo delle due (impossibili?) riforme per restare in questa Europa, accettando il degrado coloniale del Paese. Purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Chi lo scrive, Grillo? No, Paolo Savona, ex Banca d’Italia ed ex Confindustria, sul “Sole 24 Ore” di domenica 14 settembre, in un articolo richiamato bensì in prima pagina, ma cui la tremebonda redazione di quel giornale ha dato l’insignificante titolo L’edilizia resta il motore dell’economia italiana, quando invece si tratta di un vero e proprio j’accuse contro i governi degli ultimi vent’anni, in particolare contro l’ultimo, che reitera ciecamente le due riforme che in questi due decenni si sono rivelate «impossibili», lavoro e pubblica amministrazione. Non è che Savona all’improvviso si sia trasformato nel nuovo segretario della Cgil, visto che quella che c’è dorme saporitamente, o sia diventato il paladino dei “fannulloni” pubblici, sfaticati con lo stipendio bloccato a cinque anni fa, ma quel che qui ci interessa non è tanto come la pensa intorno a quei due punti, ma l’affermazione con cui chiude il suo articolo: «purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Di che attrazione parla l’economista Savona? Questo cupio dissolvi è un fatto inedito nella storia d’Italia, oppure siamo di fronte ad una pulsione che ciclicamente ritorna? Per rispondere a queste domande bisogna partire da due presupposti. Il primo è che la filosofia non è quella chiacchiera senza la quale il mondo resta tale e quale, ma è l’espressione culturale dei processi politici. Il secondo è che la storia è fatta di costanti che, venendo a mancare certi vincoli, si ripresentano periodicamente sotto mutate spoglie. La premessa è vasta, ma si può arrivare alle conclusioni in poche mosse. C’è stato chi, sulla scorta della dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, ha sostenuto che il nazismo e il comunismo sono stati i due movimenti opposti in cui la filosofia classica tedesca doveva spezzarsi nel suo attingere la realtà. Il primo rappresentava la comprensione unilaterale della figura del padrone, il secondo la comprensione unilaterale della figura del servo1. A parte la schematicità della tesi, chi ha sostenuto ciò, non ha spiegato perché questi due poli della relazione dialettica siano andati incontro a questa separazione. Ma lo stesso Hegel in proposito è assai chiaro. Parlando dell’Europa, ma in realtà della Germania, vista come la vetta dello spirito europeo, egli sostiene che il modo in cui essa si afferma nel mondo è l’appropriazione dell’altro: «all’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»2. Come si vede, per Hegel, l’altro, ovvero il non europeo, ovvero il non germanico, è il molteplice da ridurre all’unità semplice del proprio sé, è il negativo in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé, riconducendolo così all’unità della sintesi dialettica. Nella vicenda della filosofia classica tedesca, allora, che è la vicenda dello spirito europeo, schiavo e padrone si spezzerebbero nelle due unilateralità del nazismo e del comunismo, perché entrambi sono irretiti dall’idea di potenza, intesa appunto come proiezione nell’altro del proprio sé esplosivo. Di qui, allora, non una sintesi dialettica, ma un “compromesso storico” in cui lo schiavo è accomunato in posizione subalterna al padrone, nell’impresa di dominare il mondo. In questo schema non c’è nulla di nuovo, anzi, esso si può ritrovare nella genesi di ogni “moderna nazione industriale”3. Ma qui ci interessa sottolineare che, rispetto a questa derivazione filosofica del nazismo, il fascismo è altra cosa. Come è stato messo in evidenza, esso è la confluenza dell’attivismo nel pensiero dell’attualismo gentiliano, estrema versione dottrinale delle marxiane glosse a Feuerbach, e dell’attivismo nell’azione di Mussolini, suprema incarnazione della tipica pulsione italiana all’eversione individualistica di ogni ordine costituito4. Perché, allora, nonostante la differente genesi, il fascismo subisce l’attrazione fatale del nazismo? Perché non si mette sotto le ali del neutral-pacifismo di Pacelli, e si butta invece in un’alleanza con Hitler, che è un vero e proprio soggiogamento? Perché la tendenza che vince è quella del solipsismo eversivo, al tempo stesso, fatto culturale espresso dalla filosofia gentiliana e fatto caratteriale di un individuo che fa coincidere la propria personalità con la storia5. Che cosa ci dice sull’oggi questo gioco di forze storiche? La fase cruciale è quella del disciplinamento del lavoro che, all’inizio degli anni 2000, scatta in Germania. Maastricht era stato firmato da una decina d’anni, ma era ancora un vulcano in sonno. Con i governi Schröder, la Germania decide di sfruttare ciò che con Maastricht aveva ottenuto, cioè non politica della “piena occupazione”, ma politica della “stabilità dei prezzi” come missione della BCE. È ciò che gli americani fecero alla Germania nel 19476, che diventa ora modello europeo, ma con un significato del tutto differente. Come settant’anni prima, infatti, schiavo e padrone addivengono ad un nuovo “compromesso storico” che, nell’incivilito contesto dell’Unione Europea, ridia alla Germania, non più la rinascita, ma la potenza. Il patto corporativo e “antidialettico” tra operai e capitalisti è il solito appello al subalterno a “farsi carico”. Ma, nelle parole del suo stesso ideatore, il dirigente della Volkswagen Peter Hartz, esso genera «un sistema attraverso il quale i disoccupati vengono disciplinati e puniti»7. È quel che serve, per lucrare il differenziale da buttare nel credito e nelle esportazioni, i cui prezzi però sono ora espressi nella “moneta dell’altro”, in cui dunque si può tornare ad iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Chiedere alla Grecia, per avere conferma di questo moderno totalitarismo, che non prevede più stivali luccicanti ma troike itineranti. E siamo alla «pericolosa e crescente attrazione» di cui parla Paolo Savona. Chi ha scelto Maastricht ha pensato che il “vincolo esterno” fosse l’unico mezzo per raddrizzare il “legno storto” italiano. Ma, com’è noto, la via dell’inferno è lastricata dalle buone intenzioni. Nella processione che si è raccolta dietro le insegne di questo virtuismo azionista, in realtà si sono adunati tutti gli eversori di questo paese. Savona giustamente parla di «élite». Non siamo più alla personalità che assorbe la storia, sino all’esito tragico di appenderla a testa in giù con il proprio corpo martoriato, ma ad oligarchie, a cerchie, a logge più o meno piduistiche che, nel vincolo esterno europeo, hanno trovato lo strumento per dare corso alla storica pulsione eversiva, in una sarabanda di “riforme”, anche solo annunciate, ma bastanti a gettare nel marasma l’ordine repubblicano, nato faticosamente e stentamente dalla Resistenza. Adesso scorgiamo la meta che, con le oneste parole di Paolo Savona, possiamo indicare come un destino di sottosviluppo e degrado coloniale. Il problema però non è solo italiano, ma europeo. Ancora una volta l’Europa si trova sotto il peso di un asse, che non è certo l’asse d’acciaio di sinistra memoria, ma è comunque l’asse della partita distruttiva della potenza, giocata sul terreno della moneta unica, in cui entrano, in posizione subalterna, anche i nuovi arrivati, dai polacchi ai baltici ai nordici dei perfetti welfare, ma minati da demoni neonazisti ricacciati a fatica nel sottosuolo di una rinsecchita ragione pubblica. Un’attrazione fatale che al momento non sembra trovare ostacoli, né nella Francia, debilitata dall’inanità dei suoi enarchi, né nell’Inghilterra, rosa dalla finanziarizzazione che disgusta i popoli del suo regno sempre meno unito. L’Europa è al buio, e nel suo cielo si muovono solo rade stelle giovani e inesperte che non fanno luce.

  1. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, (1978), Torino, Aragno, 2004, p. 196, nota 19, in cui si rifà a G. Fessard De l’actualité historique, Desclée, Paris, 1960, t. I, pp. 130 ss. []
  2. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2004, p. 230. []
  3. Se ne veda la descrizione per la moderna nazione industriale americana, in G. Luraghi, La guerra civile americana, Milano, Rizzoli, 2013 []
  4. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 299 ss. []
  5. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 308. []
  6. M. Donato, Operazione bird dog, “Economia e politica”, rivista on line, 13 settembre 2014. []
  7. P. Hartz, Macht und Ohnmacht, Hamburg, Hoffmann und Campe, 2007, p. 224, cit. in Hartz-Konzept, voce di Wikipedia versione tedesca. []