antifascismo

Tesi sul materialismo storico XXI secolo

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Dopo l’ubriacatura del punto di vista che è tutto, della decostruzione, della narrazione, dello sbriciolamento linguistico della realtà, il bisogno di realtà è enorme, ma si afferma tramite un’ontologia amorfa, ad opera di “intellettuali” che nei media e nelle case editrici riproducono il punto di vista “irreale” sulla realtà. C’è chi illuso cerca di “dialogare” con questi opportunisti chiedendo loro come mai dal novero delle ontologie escludono il marxismo, e naturalmente non ricevono nessuna risposta. Cosa dovrebbero rispondere? Che se si azzardassero a menzionare il materialismo storico, i loro lauti contratti verrebbero immediatamente rescissi e le televisioni non li inviterebbero più perché non risulterebbero più “interessanti”? C’è quindi poco da “dialogare” e molto da combattere per scalzarli dal terreno della realtà che occupano con i loro simulacri. Gli appunti che seguono, in forma di tesi da approfondire e rielaborare, hanno anche questo scopo.

1. La struttura è il rapporto storicamente determinato che l’attività umana sensibile realizza tra il soggetto e l’oggetto in rapporto con gli altri soggetti. Essa avanza per “epigenesi” i cui principi nell’ontogenesi sono riprodotti dalla psicogenesi e confermati dalla saldezza del senso comune. A questa circolarità sfugge la sociogenesi, la cui indeterminatezza logico-storica consente di porsi fini ulteriori rispetto alla socialità in essere. L’epigenesi che ha generato il capitalismo ha dato luogo a una socialità civile caratterizzata dalla scissione tra dato empirico dei sensi e scopi a priori della ragione. Il suo superamento è il contenuto dell’epigenesi avvenire in vista di una integrale umanità sociale.

2. Nella socialità delle specie non umane due sono gli elementi cruciali, ovvero la determinazione dei rapporti di potere, regolati all’interno dalla selezione individuale e all’esterno dalla selezione di gruppo, e la creazione di un sistema produttivo coincidente con le specificità anatomiche e comportamentali degli organismi. Il distacco del sistema produttivo da tali specificità, dopo che il lavoro è subentrato all’istinto grazie a un superiore modo di cooperazione, e la finalizzazione dei rapporti di potere all’appropriazione del plusvalore, in seguito alla socializzazione del sistema produttivo, danno luogo al divenire storico-genetico in cui la struttura si scinde estraniandosi nella sovrastruttura. All’inizio, la sovrastruttura sovra-determina la struttura, poiché la pratica è ancora dominata dall’appercezione immaginativo-senso-motoria (religioni naturali). Successivamente la struttura, intesa nel suo significato tipicamente strutturalistico di sistema di scambi di valori equivalenti di merci, determina progressivamente con la successione dei differenti modi di produzione le corrispondenti figure storiche della sovrastruttura (l’astrazione cristiana rispetto all’empirismo giudaico). Nello stadio storico del capitalismo tale determinazione è totale (religione “muta” della merce le cui divinità sono i “nomi” pubblicitari), ma la sovrastruttura non diviene un semplice riflesso poiché all’ombra del suo potere causale è possibile fissare i principi di una “epigenesi” controllata.

3. La realizzazione di tale socialità ulteriore richiede però la “presa di coscienza” dei procedimenti con cui opera l’attività umana sensibile. Verum est ipsum factum, ma non come ricostruzione conoscitiva di una mente isolata bensì come superamento “pratico-critico”, tramite un superiore modo di cooperazione, della “falsa coscienza” capitalistica che occulta la genesi e naturalizza la struttura. La riduzione della storia a tradizione derivante da tale falsa rappresentazione apre la strada all’irrazionalismo inteso come negazione dello sviluppo dialettico del pensiero. L’irrazionalismo da semplice tendenza filosofica diviene così ideologia di massa, che assume le forme storiche corrispondenti alle differenti civiltà.

4. Facendosi largo negli interstizi delle civiltà, la struttura si è sviluppata secondo due ordini, l’ordine diretto e l’ordine invertito dello sviluppo. L’ordine diretto si basa su una campagna industriosa che, alimentando una città amministrativa, sorregge il commercio all’interno di vasti e quieti “mondi a parte”. Il naturalismo anti-dialettico di tale ordine si manifesta nella glorificazione della tradizione (eurasismo, armonia confuciana) Diversamente, l’ordine invertito comporta una città mercato di scambi che sin da subito assoggetta la campagna (sussunzione formale) con uno “sfrenato movimento” i cui confini coincidono con il mondo intero (sussunzione reale). Nel naturalismo anti-dialettico di tale ordine la glorificazione della tradizione (irrazionalismo filosofico sino alle sue propaggini politiche del nazifascismo) si rovescia in un secondo tempo nella celebrazione di un falso divenire (americanismo). Nella sua espansione imperiale questo falso divenire travolge soggetti che vengono percepiti, per così dire, come semplici elementi del paesaggio i quali però, rianimati da tale intrusione, divengono ostili (moti di emancipazione dall’Occidente, migrazioni). Di conseguenza, mentre l’ordine invertito dello sviluppo inasprisce il proprio dominio indebolito dalle “oscure potenze” che ha evocato, l’ordine diretto si attiva per la conservazione dei “mondi a parte” promuovendo un policentrismo il cui assetto oligarchico si prospetta non meno caotico e conflittuale dell’unipolarismo in declino.

5. Intorno all’epigenesi avvenire volteggiano parole irridenti, disilluse, allucinate. Ontologie sociali? Teleologismi storici? Rileggetevi La scommessa di Prometeo, ghigna il nichilista incallito, poi fatevi una breve passeggiata a Nairobi o a Città del Messico e in ultimo provate a riscrivere L’ontologia dell’essere sociale.  Sicuramente gran parte dell’umanità ne comprenderà il senso! E chi può credere che l’adolescente di oggi che la vita adulta immancabilmente corrompe possa essere l’uomo della futura umanità sociale? Stalin ha ucciso Rousseau, strilla lo scettico disilluso, e il telefonino ha ulteriormente abbassato il livello di corruzione dell’età ingenua. L’infanzia in realtà riproduce l’essere della servitù volontaria in cui si è arenata la dialettica di servo e padrone che il connubio tra filosofia, critica sociale e movimento operaio non è riuscita a trasformare in un trionfo della ragione. Vengano avanti, allora, gli esaltati banditori di nuovi programmi e più radicali. Se servi e padroni sono servi di una servitù totale, le soluzioni possibili non possono più essere cercate nell’intersezionalità dei diversi rapporti di potere e nelle contraddizioni tra diversi gruppi sociali, ma solo in ogni esistenza individuale: da “la politica in prima persona” del sofisticato ’68 all’“uno vale uno” del più ruspante populismo italico. Superando le vecchie divisioni tra natura e cultura, natura e tecnologia, natura e arte, ciascuno a suo modo nell’urbanesimo globale e nelle reti cibernetiche ingaggi una battaglia all’ultimo sangue per una rottura che – però — deve essere pensata e vissuta nell’esistenza comune. E allora, contro gli asceti politici, i militanti cupi, i terroristi della teoria, contro coloro che vorrebbero preservare l’ordine puro della politica e del discorso politico, si mettano in atto pratiche etiche affermative portate avanti da corpi, affetti, nomadismi sdegnosi di lotte dialettiche (le vecchie, patetiche lotte antiautoritarie!) e capaci invece, in quanto pratiche del sé, di aprire spazi di contro-soggettivazione. Mondi plurimi di infiniti pluralismi, in cui detronizzare il troppo astratto, il troppo poco carnale potenziale vitale ipoteticamente insito nel non-nato umano. Altro che infanzia! Bisogna invece immaginare altri mondi/modi riproduttivi/produttivi dove l’impiego delle nuove tecnologie, dalla fecondazione assistita all’ectogenesi, dall’ingegneria genetica all’informatica, possa aprire un futuro non eteronormato, antispecista e geocentrato, per sovvertire l’attuale ordine familista al fine di intessere parentele postumane, possibilità di vita comuni e mai più antroponormate, anche perché è un fatto che la specie sapiens, camaleontica com’è, non è a rischio di estinzione,  perché «molto ampiamente distribuita, adattabile, in attuale aumento e non esistono rilevanti minacce che possano risultare in un declino della popolazione complessiva».

6. Dunque, la realtà è un’efflorescenza di negatività senza una logica soggiacente. E non c’è bisogno di intraprendere lunghi viaggi per rendersene conto, basta farsi un giro lì dove giacciono braccia amputate di corpi capitalisticamente eteronormati. La rivoluzione divora sé stessa, anche se sino a Stalin era viva e vegeta. Esistenza comune, certo, non bisogna farsi mancare niente, ma solo come aggregato di invalicabili contro-soggetti intuitivo-corporei. Conficcare nelle fauci della dialettica pratiche affermative, ancorché etiche, che scongiurino le sue sintesi aborrite e lascino sempre beante il desiderio. Potere alla tecnica che, come la specie, tutto può. E così dalle viscere mistiche della natura alla quale tutto è stato sacrificato rinasce il dio che ci può salvare invocato dal filosofo sciamano. Contro questa grancassa assordante, in cui una nuova specie di anarchismo si sposa con la più rutilante tecno-scienza, non basta ribadire che l’irrazionalismo è una forma di reazione allo sviluppo dialettico del pensiero ma bisogna proclamare alto e forte che l’irrazionalismo ha occupato e stravolto le storiche posizioni politiche del pensiero storico-dialettico e con i simulacri così fabbricati è divenuto “popolare”, rivendicando di volta in volta di essere né di destra né di sinistra o di sinistra dei diritti o di destra anti-establishment e altre possibili combinazioni tutte convergenti nell’attacco più o meno consapevole all’unica posizione che si propone realmente il superamento del regime capitalistico, cioè quella della sinistra ancorata alla teoria e alla pratica scientifica dello sviluppo storico. Senza ulteriori attendismi, la posta in gioco è di riprendersi le proprie posizioni per tornare a essere non demagogicamente ma egemonicamente popolari, con interrogativi che scaturiscono dalla realtà effettiva. Ad esempio, se il moto dalla “campagna” alla “città” porta con sé un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica della “città”, cosa può succedere alla “città”, se cresce non per la sua stessa forza genetica, ma per immigrazione: «potrà compiere la sua funzione dirigente o non sarà sommersa, con tutte le sue esperienze accumulate, dalla conigliera [mondiale] contadina?» (Gramsci, Lettere dal carcere, ed. Caprioglio-Fubini 1965, p. 281). E, riguardo al genere, sino a che punto il “maschilismo” può essere paragonato a un dominio di classe? Esso ha più importanza per la storia politica e sociale o per la storia dei costumi? (Gramsci, Q. 25, § 4, p. 2286).

7. È inevitabile che una strategia tutta volta al dover essere dei diritti, ancorché subalterna allo sfrenato movimento economico, produca errori di tattica. Ad esempio, è evidente che l’egemonia dal basso, l’egemonia che vuole realmente scalzare l’egemonia secolare dei differenti ordini di sviluppo, non può tenere assieme il lavoro e l’impresa nell’illusoria prospettiva di una “società dei produttori” che releghi la parte sordida del capitalismo nella sentina della rendita. Questo virtuismo “ricardiano” non coglie il fatto che tanto il profitto quanto il salario vanno negati assieme se si vuole affermare l’essere della nuova umanità sociale. Questo contenuto dialettico, pratico-critico, rivoluzionario, dell’egemonia dal basso, che il riformismo in tutte le sue varianti elude con compiaciuto servilismo, insegna anche che va ormai respinto il ripetuto appello allo “schieramento antifascista”. Nel suo contenuto economico, il fascismo è il profitto senza la bombetta dalla City londinese, ma lo “schieramento antifascista” è la commedia dell’arte del capitalismo in cui al lavoro nella parte del servo sciocco viene concessa la battuta quando le fazioni borghesi lo chiamano a schierarsi da una parte o dall’altra nelle loro dispute di potere. È un errore fatale, commesso ancora solo ieri in Francia, dove pure per un’astuzia della storia il sistema elettorale se differentemente usato avrebbe consentito ben altri esiti, non dotarsi per tempo di un coeso organismo (tu chiamalo, se vuoi / partito) con cui affrontare in autonomia lo scontro diretto con il profitto, quale che sia la maschera che indossa.

8. L’egemonia dal basso è la nuova “epigenesi” volta al superamento del valore di scambio come “premessa tipica” della forma di vita capitalistica. Ciò che è non è il capitalismo ma il processo morfogenetico. Questo divenire razionale non fluisce errando nel mondo astratto del dover essere ma si attua nella “concretezza del suo tempo”. Tale concretezza è il lato esterno dell’agire egemonico dal basso, il cui lato interno non è indeterminato poiché volto alla finalità di una riforma strutturale che, nel suo sviluppo, «sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento [tale riforma] e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Gramsci, Q. 13, § 1, p. 1561). Tale finalità, se perseguita senza tener conto della “concretezza del suo tempo”, diviene indeterminata. L’indeterminatezza del lato esterno è dunque la condizione della determinatezza del lato interno e dall’unità di questi opposti deriva la possibilità che l’agire egemonico dal basso raggiunga il suo scopo. Poiché il lato esterno è indeterminato, tale possibilità può anche non realizzarsi nell’immediata “concretezza del suo tempo”, ma ciò non pregiudica che possa realizzarsi nella concretezza di un tempo concreto successivo, a condizione che permanga un nesso soggettivo nella successione temporale oggettiva. A tal fine una funzione essenziale svolge la preservazione del patrimonio ideale e pratico purché non si riduca a coltivare o, peggio, a celebrare sentimenti nostalgici o malinconici su cui costruiscono le loro fortune piccole cerchie “monastiche” dedite ad accaniti studi ermeneutici o élite politiche il cui verbalismo “egemonico” nobilita il loro stato fossile o, peggio, maschera pratiche di potere anti-dialettiche.

9. I movimenti fascista e nazista della prima metà del XX secolo furono una reazione consapevole della classe dominate a ciò che temeva di più: la svolta del socialismo. Di cosa hanno paura oggi? Come mostrano gli scoppi improvvisi avvenuti di recente in Inghilterra, hanno paura dell’ira delle masse lavoratrici, che trovano sempre più difficile sopportare le regole crudeli che vengono loro imposte. Si parla sempre più frequentemente di “guerra civile” negli Stati Uniti, in Francia, nella stessa Inghilterra. Uno scenario del genere riguarda le masse lavoratrici, in particolare il suo nucleo di classe operaia, sviata dalle politiche di austerità verso un razzismo corporativo le cui rivolte spontanee giustificano poi la repressione per ristabilire l’“ordine democratico”. Qualsiasi, ulteriore gestione riformista di questo circolo vizioso non offre alcuna via d’uscita e favorisce solo l’equivoco rovinoso di un Occidente ridotto alla sola idea di potenza cui si aggrappano le sue vecchie classi dominanti in preda alla disperazione. La “guerra civile” che esse vogliono imporre a una classe operaia immiserita e criminalizzata per reprimerla e assoggettarla del tutto, diventi l’occasione per smascherare la falsa “politica democratica” con cui si persegue lo stesso fine che negli anni Trenta del secolo scorso si ottenne con i movimenti fascista e nazista. Non c’è più la prospettiva immediata della svolta del socialismo ma c’è più pesante che mai il fardello dello sfruttamento capitalistico. Il compito immediato dell’egemonia dal basso è il chiarimento di massa di questa realtà da troppo tempo oscurata. Ma non sarà certo la rilettura delle Riflessioni sulla violenza, riedite dai soliti confusionari, a chiarire le idee. Non è con i miti che si costruisce il nuovo mondo. In questo campo, il capitalismo si è mostrato molto più abile del socialismo.

10. Nel romanzo di fantascienza Stella rossa, Aleksandr Bogdanov descrive il socialismo come una civiltà superiore costruita su Marte che, messa in crisi dal suo stesso super regolato industrialismo, progetta di attaccare la civiltà più arretrata del pianeta Terra per sfruttarne le risorse. Ma oggi sono i super capitalisti come Musk a progettare su Marte una simile civiltà superiore. Non bisogna confondere il socialismo con certe sue deviazioni e prenderle a pretesto per abbandonare la teoria e liquidare l’organizzazione. Due sono state le strade intraprese per arrivare al socialismo, quella del lavoro culturale prima e quella del lavoro culturale dopo la conquista del potere politico. Il percorso “egemonico” non è mai pervenuto al socialismo, mentre il percorso della “dittatura del proletariato” non è riuscito a svellere il precedete sostrato culturale ed è stato perciò rovesciato. L’esperienza storica mostra che è fondamentale conquistare il potere politico, ma che la “dittatura del proletariato” deve acquistare un significato più ricco e articolato. Suo scopo principale deve essere il superamento dei nazionalismi. La nazione è la culla delle borghesie e il nazionalismo lo strumento per dividere le masse lavoratrici. Ma l’internazionalismo non può essere una fede astratta. Esso deve sorgere dalla convinzione che in determinati contesti è l’unica soluzione possibile dei conflitti. È evidente che la contrapposizione israelo-palestinese non può essere risolta su base nazionale ma solo su un criterio di classe. Ma come raccordare una classe operaia “privilegiata” con una “oppressa”? Questi sono i compiti che il socialismo finalmente deve essere in grado di porsi.

11. Il socialismo può risorgere se, confrontandosi con la realtà nuova insediatasi dopo il crollo del 1989, i nuovi cammini che dovrà percorrere nella teoria e nell’organizzazione saranno nel solco storico-materialistico, l’unico che, raccogliendo e potenziando l’eredità del pensiero dialettico, è sinora quello che nonostante tutto gli ha assicurato i maggiori successi. Qual è questa realtà nuova? Un mondo fluido su un’unica base d’acciaio. Un arcipelago di isole fisse nel tempo. Un simulacro di divenire che permea “armonicamente” il mondo di sé. Queste le tre potenze che dall’ultimo scorcio del XX secolo proiettano la loro ombra minacciosa sul XXI. Sono potenze negative nel senso che, confliggendo tra di loro, disarticolano la “globalizzazione” e, così facendo, negano la pretesa del capitale di unificare il mondo sotto il suo dominio. Ma non sono capaci di additare un avvenire, bensì rischiano di precipitare l’umanità nella catastrofe. Il socialismo può riproporsi come sintesi razionale della vita in progresso se del suo patrimonio ideale e pratico valorizzerà tutti quegli elementi che, negati od oscurati da errori e deviazioni, gli consentano di porre il suo umanesimo su una base nuova e più adatta al millennio che inizia. Se nel Novecento è stato un socialismo statalizzatore, nel Duemila dovrà essere un socialismo socializzatore; se si è affidato al complesso tecnico-scientifico e militare-industriale, ora dovrà sottomettere queste forze produttive ai bisogni locali di comunità che si autogestiscono; se ha governato amministrando, ora dovrà coordinare i diversi livelli di democrazia diretta; se ha predato la natura, ora dovrà adattarsi ai suoi ritmi riproduttivi. Le piaghe dell’urbanesimo desertificatore, dell’esplosione demografica, delle migrazioni bibliche potranno essere così lentamente riassorbite e potrà prepararsi il terreno per una civiltà terrestre che, proiettandosi nell’Universo, saprà intessere il dialogo con i nuovi mondi.

 

Rodi e la rosa, il salto e la danza / la croce è questa, salta danzando

Una nuova stagione della ragione democratica

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Non è senza significato il fatto, per così dire, frivolo dei fischi a Geolier per la sua vittoria nella serata delle cover a Sanremo. Parte del pubblico dell’Ariston è sfollato e sui social ci si è scatenati contro il napoletano che, supportato dai camorristi e dai morti di fame del reddito di cittadinanza, non canta nemmeno in italiano. Già, l’italiano. E la nazione italiana. Secondo un certo pensiero che qui adottiamo per amor di tesi, per fare una nazione ci vuole il sangue, la lingua e un territorio. Il territorio non è mai mancato, tanto che l’Italia a lungo è stata solo un’espressione geografica. Tralasciamo gli sgangherati tentativi leghisti di riportarla a tale stato con l’“autonomia differenziata”, ma il sangue e la lingua dove sono? Dai Sicani a oggi, la Sicilia ha avuto una dozzina di “invasioni”. Questo per quanto riguarda gli uomini liberi, perché in epoca romana gli schiavi provenienti da mezzo mondo allora conosciuto erano milioni e mischiarono il loro sangue con quello dei padroni. Dov’è il sangue “italiano” in Sicilia? La domanda si può porre per ogni altra regione della penisola, e se in Sicilia ci si dorme sopra, in Veneto issano lo stendardo del Leone di San Marco. Ma veniamo alla lingua. L’italiano ha impiegato così tanto a divenire lingua nazionale che nel 1948, quando la patria rinacque, i padri costituenti, che pure lo padroneggiavano alla grande, neppure lo menzionarono in Costituzione. E ciascuno di noi, ancora dopo decenni di martellamento televisivo nell’italiano espressivo della pubblicità, dello spettacolo e dell’intrattenimento politico, cresce e parla nei rigogliosi “dialetti”. Questo per dire che se si vuole proprio parlare di nazione, allora bisogna parlare della nazione veneta, della nazione sarda, della nazione siciliana, della nazione napoletana e via dicendo. E questo, al netto di tifo organizzato e altre diavolerie dell’epoca social, spiega perché Geolier vince al televoto. Perché fra tutte le nazioni della cacofonia italiana quella napoletana è, in special modo nella musica, la più “universale”, ovvero la più capace di elaborare la propria “particolarità” in un linguaggio che si impone anche a chi napoletano non è. Ma allora che cos’è l’Italia? È un territorio le cui molte nazioni che lo popolano hanno trovato la forza alla metà del XIX secolo di stipulare fra di loro un patto politico. Non è stato un idillio. Era un patto leonino fra nord e sud, fra città e campagna, fra classi alte e classi basse, ma comunque era un patto politico che ha avuto bisogno di aggiustamenti e rifondazioni, prima fra tutte la Costituzione del ’48, e avrà sempre bisogno di modifiche e revisioni. Se si deve proprio parlare di nazione italiana, il suo fondamento è politico e l’attentato più grande a tale fondamento è stato il fascismo. Il fascismo storico e il neofascismo che nei primi decenni della Repubblica è stato tra le forze che hanno attaccato la democrazia intesa come sbocco storico del patto risorgimentale rinnovato dalla Resistenza. Questo attacco non è mai finito. Oggi si ripresenta nelle vesti di un conservatorismo raccogliticcio che si fa forte di ciò che è ancora indicibile circa i tanti crimini di quei decenni e cerca una legittimazione in un’Europa debole e smarrita. Tanti errori e divisioni del passato possono essere superati in questa nuova stagione in cui l’antifascismo assume il significato dell’apertura di una nuova fase democratica che sviluppi ulteriormente le potenzialità del patto politico originario. L’europeismo oggi non può che essere antifascista. Ma il fascismo non va contrastato solo nell’Europa delle adunate tenebrose, delle memorie funeree, delle giornate dell’onore. Lo sterminio a Gaza è condotto da uno Stato occupato da una cricca fascista. Putin è un fascista e tutto il mondo russo, quindi compresa l’Ucraina che simula la democrazia, è percorso da un vento fascista. Trump è un fascista come può esserlo un plutocrate americano. Marcare la discriminante antifascista può chiarire ovunque la posizione scomoda, difficile ma necessaria delle nuove forze democratiche. Non siamo più nel 2011 quando la JP Morgan denunciò le costituzioni antifasciste di Spagna Italia e Grecia come ostacoli alla crescita economica. Le politiche di austerità continuano, certo, ma sono movimenti meccanici di un corpo in decomposizione. Siamo in una fase nuova in cui le contraddizioni capitalistiche possono essere superate in un’intensificazione democratica dove liberalismo, socialismo, comunismo, anarchismo, tornano liberamente a competere per riaprire il cammino di quella ragione universale che all’esordio della modernità generosamente li mise al mondo. Ma per cogliere queste opportunità deve essere chiaro che i fascisti devono sloggiare dai palazzi di governo che la democrazia regala loro quando si riduce ad arido formalismo elettorale. Deve essere chiaro che agli antifascisti non si mettono ceppi e manette: c’è la legge per giudicarli di eventuali reati. Deve essere chiaro che la democrazia non si soffoca con l’idolatria del capo. Deve essere chiaro che se il fascismo si nutre di radici, la democrazia svetta continuamente in fronde nuove.

Priebke

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La popolazione di Albano laziale si rivolta contro i funerali di Priebke, in corso in quel paesino per decisione del prefetto di Roma. Ma da dove spunta fuori questo antifascismo in una popolazione e in un momento storico in cui tutte le fedi, tutte le credenze politiche, sembrano spente? Non ci sarà sotto questo antifascismo un sentimento antitedesco contro il corso che la Germania sta imponendo alla crisi economica che colpisce sempre più duramente?

Liberatori

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Oggi, su “la Repubblica”, p. 34, Francesco Bei segnala alcuni libri che ripercorrono con nuove testimonianze lo sbarco angloamericano in Sicilia, nel luglio del ’43. Ecco una di queste testimonianze, riguardante la cosiddetta battaglia di Biscari, dal nome dell’aereoporto di una località del ragusano: «Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: “Avieri, vi siete battuti bene”. Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: “È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato”. Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali». West, processato poi negli Stati Uniti, si difese affermando che «avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Fu condannato, graziato e reintegrato in servizio come soldato semplice. Ed ecco l’ordine, direttamente, dal generale Patton: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero». Avendo sparato da una distanza inferiore ai 2-300 metri, si può dire tecnicamente che il sergente West disobbedì agli ordini. All’epoca, Apocalypse Now fu un onesto tentativo di riflessione “metafisica” su questa follia omicidiaria al servizio di una implacabile volontà di potenza, all’opera immutata nella Sicilia del ’43 come nel Vietnam degli anni Settanta, nell’aggressione all’inerme Grenada degli anni Ottanta come nell’Afghanistan e nell’Iraq dell’inizio del nuovo Millennio. Ma tutto il lavoro resta ancora da fare, perché è difficilissimo divincolarsi dal punto di vista del “liberatore”, introiettato dai “liberati”, su cui si fondano ideologie, tra cui lo stesso antifascismo, che hanno accomunato vittime e carnefici, assolvendo gli uni e imponendo alle altre di giustificare la violenza subita in nome di valori universali. E viene in mente La ciociara di Moravia che, sotto la generica denuncia della violenza della guerra, è una riflessione precocissima su una potenza che stupra il mondo, annichilendo le sue vittime, costrette poi ad un’esistenza deumanizzata, dove il flusso generale delle merci può scorrere senza più l’impaccio dei minuti scambi dei mondi particolari. Quando gli analisti di JP Morgan denunciano le Costituzioni antifasciste dei paesi del Sud Europa come fattori di rallentamento di tale flusso, si arriva al paradosso che l’antifascismo, già ideologia che occulta alle vittime il proprio massacro, non può più essere tollerato neanche in questa estrema funzione anestetica. È giunta l’ora, infatti, che il vinto si stacchi definitivamente dalla sua essenza, di cui un’ombra residuava nell’ideologia che l’accomunava al vincitore, e pervenga alla “novità categoriale” di un mondo senza storia. C’è da chiedersi perciò se, di fronte alla “smisuratezza” del vincitore, non sia venuto il momento per il vinto di denunciare l’impostura di un complesso ideologico – l’antifascismo, la libertà americana, il consumo – che, se nell’asservimento gli ha regalato una parvenza di umanità, gli chiede ora di estraniarsi del tutto da sé.