antifascismo

Una nuova stagione della ragione democratica

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Non è senza significato il fatto, per così dire, frivolo dei fischi a Geolier per la sua vittoria nella serata delle cover a Sanremo. Parte del pubblico dell’Ariston è sfollato e sui social ci si è scatenati contro il napoletano che, supportato dai camorristi e dai morti di fame del reddito di cittadinanza, non canta nemmeno in italiano. Già, l’italiano. E la nazione italiana. Secondo un certo pensiero che qui adottiamo per amor di tesi, per fare una nazione ci vuole il sangue, la lingua e un territorio. Il territorio non è mai mancato, tanto che l’Italia a lungo è stata solo un’espressione geografica. Tralasciamo gli sgangherati tentativi leghisti di riportarla a tale stato con l’“autonomia differenziata”, ma il sangue e la lingua dove sono? Dai Sicani a oggi, la Sicilia ha avuto una dozzina di “invasioni”. Questo per quanto riguarda gli uomini liberi, perché in epoca romana gli schiavi provenienti da mezzo mondo allora conosciuto erano milioni e mischiarono il loro sangue con quello dei padroni. Dov’è il sangue “italiano” in Sicilia? La domanda si può porre per ogni altra regione della penisola, e se in Sicilia ci si dorme sopra, in Veneto issano lo stendardo del Leone di San Marco. Ma veniamo alla lingua. L’italiano ha impiegato così tanto a divenire lingua nazionale che nel 1948, quando la patria rinacque, i padri costituenti, che pure lo padroneggiavano alla grande, neppure lo menzionarono in Costituzione. E ciascuno di noi, ancora dopo decenni di martellamento televisivo nell’italiano espressivo della pubblicità, dello spettacolo e dell’intrattenimento politico, cresce e parla nei rigogliosi “dialetti”. Questo per dire che se si vuole proprio parlare di nazione, allora bisogna parlare della nazione veneta, della nazione sarda, della nazione siciliana, della nazione napoletana e via dicendo. E questo, al netto di tifo organizzato e altre diavolerie dell’epoca social, spiega perché Geolier vince al televoto. Perché fra tutte le nazioni della cacofonia italiana quella napoletana è, in special modo nella musica, la più “universale”, ovvero la più capace di elaborare la propria “particolarità” in un linguaggio che si impone anche a chi napoletano non è. Ma allora che cos’è l’Italia? È un territorio le cui molte nazioni che lo popolano hanno trovato la forza alla metà del XIX secolo di stipulare fra di loro un patto politico. Non è stato un idillio. Era un patto leonino fra nord e sud, fra città e campagna, fra classi alte e classi basse, ma comunque era un patto politico che ha avuto bisogno di aggiustamenti e rifondazioni, prima fra tutte la Costituzione del ’48, e avrà sempre bisogno di modifiche e revisioni. Se si deve proprio parlare di nazione italiana, il suo fondamento è politico e l’attentato più grande a tale fondamento è stato il fascismo. Il fascismo storico e il neofascismo che nei primi decenni della Repubblica è stato tra le forze che hanno attaccato la democrazia intesa come sbocco storico del patto risorgimentale rinnovato dalla Resistenza. Questo attacco non è mai finito. Oggi si ripresenta nelle vesti di un conservatorismo raccogliticcio che si fa forte di ciò che è ancora indicibile circa i tanti crimini di quei decenni e cerca una legittimazione in un’Europa debole e smarrita. Tanti errori e divisioni del passato possono essere superati in questa nuova stagione in cui l’antifascismo assume il significato dell’apertura di una nuova fase democratica che sviluppi ulteriormente le potenzialità del patto politico originario. L’europeismo oggi non può che essere antifascista. Ma il fascismo non va contrastato solo nell’Europa delle adunate tenebrose, delle memorie funeree, delle giornate dell’onore. Lo sterminio a Gaza è condotto da uno Stato occupato da una cricca fascista. Putin è un fascista e tutto il mondo russo, quindi compresa l’Ucraina che simula la democrazia, è percorso da un vento fascista. Trump è un fascista come può esserlo un plutocrate americano. Marcare la discriminante antifascista può chiarire ovunque la posizione scomoda, difficile ma necessaria delle nuove forze democratiche. Non siamo più nel 2011 quando la JP Morgan denunciò le costituzioni antifasciste di Spagna Italia e Grecia come ostacoli alla crescita economica. Le politiche di austerità continuano, certo, ma sono movimenti meccanici di un corpo in decomposizione. Siamo in una fase nuova in cui le contraddizioni capitalistiche possono essere superate in un’intensificazione democratica dove liberalismo, socialismo, comunismo, anarchismo, tornano liberamente a competere per riaprire il cammino di quella ragione universale che all’esordio della modernità generosamente li mise al mondo. Ma per cogliere queste opportunità deve essere chiaro che i fascisti devono sloggiare dai palazzi di governo che la democrazia regala loro quando si riduce ad arido formalismo elettorale. Deve essere chiaro che agli antifascisti non si mettono ceppi e manette: c’è la legge per giudicarli di eventuali reati. Deve essere chiaro che la democrazia non si soffoca con l’idolatria del capo. Deve essere chiaro che se il fascismo si nutre di radici, la democrazia svetta continuamente in fronde nuove.

Priebke

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La popolazione di Albano laziale si rivolta contro i funerali di Priebke, in corso in quel paesino per decisione del prefetto di Roma. Ma da dove spunta fuori questo antifascismo in una popolazione e in un momento storico in cui tutte le fedi, tutte le credenze politiche, sembrano spente? Non ci sarà sotto questo antifascismo un sentimento antitedesco contro il corso che la Germania sta imponendo alla crisi economica che colpisce sempre più duramente?

Liberatori

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Oggi, su “la Repubblica”, p. 34, Francesco Bei segnala alcuni libri che ripercorrono con nuove testimonianze lo sbarco angloamericano in Sicilia, nel luglio del ’43. Ecco una di queste testimonianze, riguardante la cosiddetta battaglia di Biscari, dal nome dell’aereoporto di una località del ragusano: «Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: “Avieri, vi siete battuti bene”. Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: “È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato”. Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali». West, processato poi negli Stati Uniti, si difese affermando che «avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Fu condannato, graziato e reintegrato in servizio come soldato semplice. Ed ecco l’ordine, direttamente, dal generale Patton: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero». Avendo sparato da una distanza inferiore ai 2-300 metri, si può dire tecnicamente che il sergente West disobbedì agli ordini. All’epoca, Apocalypse Now fu un onesto tentativo di riflessione “metafisica” su questa follia omicidiaria al servizio di una implacabile volontà di potenza, all’opera immutata nella Sicilia del ’43 come nel Vietnam degli anni Settanta, nell’aggressione all’inerme Grenada degli anni Ottanta come nell’Afghanistan e nell’Iraq dell’inizio del nuovo Millennio. Ma tutto il lavoro resta ancora da fare, perché è difficilissimo divincolarsi dal punto di vista del “liberatore”, introiettato dai “liberati”, su cui si fondano ideologie, tra cui lo stesso antifascismo, che hanno accomunato vittime e carnefici, assolvendo gli uni e imponendo alle altre di giustificare la violenza subita in nome di valori universali. E viene in mente La ciociara di Moravia che, sotto la generica denuncia della violenza della guerra, è una riflessione precocissima su una potenza che stupra il mondo, annichilendo le sue vittime, costrette poi ad un’esistenza deumanizzata, dove il flusso generale delle merci può scorrere senza più l’impaccio dei minuti scambi dei mondi particolari. Quando gli analisti di JP Morgan denunciano le Costituzioni antifasciste dei paesi del Sud Europa come fattori di rallentamento di tale flusso, si arriva al paradosso che l’antifascismo, già ideologia che occulta alle vittime il proprio massacro, non può più essere tollerato neanche in questa estrema funzione anestetica. È giunta l’ora, infatti, che il vinto si stacchi definitivamente dalla sua essenza, di cui un’ombra residuava nell’ideologia che l’accomunava al vincitore, e pervenga alla “novità categoriale” di un mondo senza storia. C’è da chiedersi perciò se, di fronte alla “smisuratezza” del vincitore, non sia venuto il momento per il vinto di denunciare l’impostura di un complesso ideologico – l’antifascismo, la libertà americana, il consumo – che, se nell’asservimento gli ha regalato una parvenza di umanità, gli chiede ora di estraniarsi del tutto da sé.