Cultura

Sull’insegnamnto “scolastico” della filosofia

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Nell’anticipazione, pubblicata dal Domenicale del Sole 24 Ore del 7 settembre scorso, della sua conferenza al Festival della Filosofia di Carpi e Sassuolo in programma tra il 19 e il 21 settembre prossimi, Catherine König-Pralong si rifà a Pierre Bourdieu che, nei suoi scritti, attacca l’“illusione scolastica” che caratterizzerebbe l’insegnamento della filosofia nella scuola e all’Università, ancora succube della tradizione medioevale che addestrava gli studenti a praticare esercizi logici di argomentazione, in un distacco inconsapevole rispetto al significato sociale di questa pratica.

A parziale confutazione di questa tesi, la relatrice sostiene che a partire dagli anni Novanta, la filosofia, sempre più praticata fuori dalle Università europee e americane, come accade in Africa, ha iniziato a calarsi nella realtà sociale mettendo in contatto le diverse tradizioni linguistiche, al fine di produrre un effetto di spaesamento con cui far venire alla luce il suo modo di produzione e i suoi effetti politici.

Entrambe le tesi sono sghembe e distorcono le questioni in gioco. Anzitutto, come ricorda la stessa relatrice, Bourdieu non può fare a meno di osservare che il distacco che lui denuncia, risponde all’esigenza di sottrarsi ai vincoli e agli scopi pratici della necessità economica. La “scuola”, cioè etimologicamente il punto di vista disinteressato del tempo libero, è dunque la premessa indispensabile della riflessione filosofica. Ma il momento “scolastico” non necessariamente deve reificarsi nell’istituzione. Esso può essere parallelo e addirittura imbricato con l’azione. Marx non dice di non più interpretare il mondo, ma solo che è giunto il momento di trasformarlo. Non viene dunque abolita l’interpretazione ma non viene nemmeno esaltata l’azione per l’azione, cosa che invece ha sempre fatto un certo pensiero di destra che, da un lato, acceca la riflessione, dall’altro, usa la scuola e la filosofia ridotta a “scolastica” per fini autoritari.

Quanto alle disputationes medioevali, la loro artificiosità era in parte un effetto oggettivo della pervasività della realtà con cui la filosofia doveva confrontarsi. Se nel Medioevo la realtà pervasiva era la religione, oggi è il capitalismo contro cui però appare spuntata l’arma interculturale. Non basta tradurre le differenti tradizioni se non si contesta la loro base comune. Certo, la tradizione africana non è immediatamente capitalistica e fra di essa e la tradizione occidentale si frappone il colonialismo. Ma la tradizione africana non è di per sé nemmeno anticapitalistica. È solamente precapitalistica e bisognerebbe vedere quanto in essa, se lasciata libera di svilupparsi, avrebbe condotto verso esiti simili al capitalismo occidentale. La riflessione interculturale ben venga se serve ad arricchire di domande il pensiero storico-genetico. Altrimenti è solo un gioco elegante, buono per i trasferimenti dei professori dalle Università dei paesi colonizzati a quelle dei paesi colonizzatori.

Tornando alla tradizione medioevale delle disputationes, se la si riprende non per praticare esercizi formali di argomentazione  ma per indurre a riflettere sulle contraddizioni in cui si è implicati, non si realizza una integrazione logica di individui socialmente programmati, come sosteneva Bourdieu scagliandosi contro l’insegnamento filosofico scolastico, ma al contrario si offrono gli strumenti interpretativi per contestare una tale integrazione. Nel confronto con una realtà che in un certo momento storico si presenta massicciamente “totale”, è più efficace agire all’interno dell’istituzione che attaccarla frontalmente dall’esterno. Quest’azione certamente da sola non basta, ma ciò esula dal problema dell’insegnamento della filosofia e può semmai servire a porre la questione di una strategia rivoluzionaria complessiva che combini l’azione dentro e fuori le diverse istituzioni. Insomma, nient’altro che una ripresa delle buone pratiche leniniste, che però comportano un centro unico organizzatore purtroppo attualmente non alle viste.

Intervista

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Professore, come sta?

 «Bene».

Incontriamo il professor Aqueci in un pomeriggio di fine estate nella località, il cui nome ci chiede di mantenere riservato, dove da molti anni trascorre il periodo estivo. Autore di numerosi libri e di articoli apparsi in riviste italiane e straniere, ha legato il suo nome al varo di un’area di ricerca da lui denominata “semioetica”, in cui mette in connessione temi etici e linguistici in una prospettiva “dialettica”. Qui ripercorriamo con lui alcuni passaggi della sua vita di docente e di studioso in cui è maturata questa connessione che egli vede fecondata da una permanente tensione politica.

 Sappiamo che è in pensione.

 «Sì, da quasi un anno».

 Da professore, speriamo, e non da studioso.

 «Da professore, certo. È finito un impegno durato trent’anni».

E che sensazione ha provato?

 «Mah, c’è chi parla di morte civile, chi di piccola fine. A pensarci bene, per me è stata una liberazione».

E chi la teneva prigioniero?

«Le dico solo questo, da anni ormai l’“impegno” era diventato “carico”. Il “carico didattico”».

Pesava, eh?

«Pesava il “carico” e pesavano i “prodotti”, altro termine caratteristico con cui venivano indicati i libri, gli articoli, i saggi che ci capitava di scrivere e che dovevamo rendicontare per misurare la nostra produttività».

“Prodotti”?

«Sì, i “prodotti della ricerca”. Non la voglio annoiare, ma burocrazia informatizzata e aziendalismo accademico sono state negli ultimi quindici, vent’anni, le grate dietro cui è stata imprigionata l’Università. Se a ciò si aggiungono gli antichi costumi, che sempre piace indossare, del baronaggio e del nepotismo, il quadro è completo.

Capisco la “liberazione”. Ma prima com’era l’Università?

«Un posto dove ci si divertiva moltissimo a studiare. E non sui libri, ma discutendo. Di tutto. E soprattutto di politica, senza la quale c’è solo erudizione».

Lei ha iniziato all’estero.

 «Sì, dopo la laurea sono andato in Svizzera con una borsa di scambio, lo strumento con cui a quell’epoca si partiva a studiare nei vari paesi europei. La struttura che mi ospitava era il Centre de recherches sémiologiques diretto da Jean-Blaise Grize, fra i più stretti collaboratori di Piaget. A quel tempo, la semiologia era la reginetta delle discipline. Ma la semiologia di Grize era un po’ speciale. Sotto quell’etichetta, lui portava avanti la sua “logica naturale”, una “dialettica” sui generis su cui ho scritto un articolo che gli piacque molto».

Quanto è rimasto al Centre?

«In veste varia, borsista, ricercatore, dottorando, circa dieci anni, sino a quando non ho preso il dottorato, che in Italia cominciava appena ad esistere. Ma ho rischiato varie volte di dovermene tornare prima».

In che senso, scusi?

«Beh, una sera, con dei colleghi svizzerotti con cui avevo fatto amicizia, abbiamo cominciato a tirare sassi contro i vetri della Facoltà per vedere chi aveva la mira più precisa. I vicini hanno chiamato la polizia che però è stata molto comprensiva, soprattutto con me che avevo un permesso B, quello provvisorio che ti ritirano subito se non ti comporti bene. Il poliziotto ci ha detto solo che, se avevamo tanta voglia di tirare sassi, che li andassimo a tirare al lago lì vicino».

Ma professore… E che altro combinava?

«Eh, c’erano gli scherzi telefonici. Nelle stanze, avevamo due linee telefoniche indipendenti. Allora, una volta, sempre con i colleghi svizzerotti, m’è venuto di comporre due numeri e metterli in contatto rovesciando le cornette. La cosa ha funzionato e, nelle settimane successive, abbiamo affinato il modulo su vari disgraziati, sino a quando non abbiamo pensato di mettere in contatto il preside con il rettore che si odiavano a morte. Hanno passato tutto il tempo a farsi i salamelecchi e a interrogarsi su come poteva essere successo che si parlassero senza che nessuno dei due avesse chiamato l’altro. Siamo andati avanti per parecchio. Ricordo, in particolare, un povero prete mandato bruscamente a quel paese dal suo involontario interlocutore, nonostante giurasse di essere stato interrotto dalla sua telefonata mentre recitava le orazioni. Ma un’anziana signora, che avevamo preso di mira, ci ha fatto passare la voglia quando ha sussurrato che aveva chiesto alla polizia di mettere sotto controllo il suo telefono. Probabilmente ci ha preso in giro, ma è bastato perché smettessimo».

C’è altro, professore?

«Sì, ma non ve lo dico. Non è scattata ancora la prescrizione».

Addirittura?

«Scherzo, naturalmente».

Non ha mai pensato di restare in quel paese di bengodi dove si divertiva così tanto?

«Guardi, nella cittadina in cui mi trovavo, vedevo circolare tutto solo, in utilitaria, il ministro degli esteri della Confederazione, che era di quelle parti. Ecco, io mi immaginavo che fosse possibile instaurare quella semplicità a Roma».

Ma, professore, a Roma c’è il papa…

«Certo. E a Milano c’era la “Milano da bere” …»

Beh, ora c’è il “bosco verticale” …

«Appunto, sempre lì siamo…»

Insomma, se n’è pentito o no di essere rientrato in Italia?

«Onestamente, no. Personalmente, non mi è andata male, anche se ho perso un sacco di tempo ad aspettare le “priorità”».

Che cosa sono le “priorità”?

«All’epoca, i “capi” facevano circolare le liste con le “priorità”, fissate con criteri più o meno arbitrari, di chi doveva andare a occupare per primo i rari posti disponibili. E ci si doveva acconciare a perdere concorsi che si potevano vincere, e se non si partecipava a quegli inutili rodei, qualcuno in agrodolce ti rimproverava di aver fatto sfoggio di “saggia improntitudine”. Insomma, te la facevano pagare con un supplemento di “priorità”».

La sua “priorità” quando è maturata?

«Nel 1995, quando sono diventato ricercatore. Poi però ho fatto il resto abbastanza in fretta».

Cioè?

«Sì, in pochi anni, l’associazione su Semiotica e a seguire l’ordinariato su Filosofia morale. Aggiungo che, già da ricercatore, tenevo l’Etica della comunicazione, materia che la Facoltà introdusse su mia richiesta gentilmente appoggiata da chi all’epoca sovraintendeva all’area filosofica».

Ah, ecco la semioetica…

«Ma questo è l’aspetto formale. In realtà ci lavoravo da parecchio prima che la “priorità” maturasse. L’impostazione stava nel dottorato, dove per dissodare quell’arida pietraia della Sociologia di Pareto, oggetto della tesi, mi ero dovuto sobbarcare questioni dell’una e dell’altra disciplina. E così, cerca, cerca un termine per unificare quell’andirivieni, m’è venuto “semioetica”».

Della “semioetica” oggi si parla come capacità umana di ascoltare l’altro e capacità di critica responsabile, oppure anche come teoria della censura intesa come conflitto tra differenti sfere di valore, oppure ancora come riflessione sulla deontologia della semiotica e analisi critica dei fenomeni culturali.

«Non è quello che intendo io, ma il termine che ha preso a circolare – addirittura a Torino c’è un insegnamento che si chiama così – evidentemente ha colto un bisogno oggettivo di connettere le due aree partendo da diverse esigenze».

Certamente. Ma lei cosa intende, quel è la sua prospettiva?

«Io mi sono mantenuto basso e ho posto anzitutto una questione metodologica. La semioetica non è uno sviluppo della semiotica e neppure della filosofia morale, ma fuoriesce da entrambe le aree disciplinari. Di qui l’approdo alla prospettiva “dialettica”, cioè al recupero di tutte le tappe del pensiero storico-genetico che naturalmente a tutt’oggi culmina nel marxismo».

D’accordo, questa è la cornice. Ma nel quadro che ci dipinge?

«Beh, in effetti questo superamento delle restrizioni disciplinari produce un paesaggio più fluido, nel senso che il rapporto normativo, raffigurato nella sua dimensione discorsiva, diviene un oggetto nuovo che acquista un’inedita concretezza».

Ma in che senso?

«Nel senso che la semioetica guarda al rapporto normativo come qualcosa non da conservare ma da trasformare. In pratica, dice: ribellatevi!».

E il messaggio arriva?

«Sinché ho insegnato, in aula il messaggio è arrivato “forte e chiaro”, ed era divertente vedere come quel pubblico quasi sempre prevalentemente femminile, spinto a riflettere sulle contraddizioni sperimentate nella vita quotidiana, non indietreggiasse neanche davanti al tema scabroso della violenza con cui a volte si è costretti a ribellarsi».

Lei allevava delle amazzoni rivoluzionarie…

«Perché no? Del resto, il metodo era del tutto pacifico…».

Che metodo?

«Beh, dicevo sempre che la filosofia morale sotto l’egida della semioetica non è una filastrocca di teorie o un’infilata di concetti speculativi ma una pratica, una pratica discorsiva, certo, ma una pratica che dovevamo sperimentare nei nostri rapporti, dibattendo su temi su cui maggiormente ci poteva essere un conflitto».

Ma in questo metodo non c’era qualcosa dell’artificiosità delle disputationes medioevali?

«Ricordo che l’epoca delle disputationes è stato un’epoca di grandi trasformazioni, e comunque l’artificiosità sfumava quando c’era chi si alzava e abbandonava l’aula per la troppa tensione. Un fallimento, ma significativo».

Insomma, provocava il suo pubblico.

«In linguaggio accademico, direi che ci servivamo del discorso per agire collettivamente sui valori. Ma questa era la premessa. Lo svolgimento sta in quel che è rimasto di questo lavoro in quelle menti».

Lei cosa pensa che sia rimasto?

«Singolarmente molto, collettivamente poco. La contraddizione fondamentale del nostro tempo, il potere che ci schiaccia, non può essere risolta da un pugno di lezioni».

Lei però nei suoi libri non parla mai del potere in generale ma…

«Scusi se la interrompo, ma la ringrazio dell’osservazione, vedo che ha letto attentamente i miei libri. Prima ho usato genericamente la parola “potere” per sbrigarmi. È chiaro che ciò che ci opprime è il potere capitalistico. Un mio libro si intitola Capitalismo e cognizione sociale. La mia intenzione iniziale era di intitolarlo Semioetica e cognizione sociale. Ma durante il corso una studentessa fra le più attente se ne è venuta fuori dicendo: “stiamo parlando continuamente di capitalismo, e così sono andata ad approfondire questo argomento”. È lì che ho deciso di cambiare il titolo».

Cioè, professore, che cosa vuol dire? Non giriamoci intorno ma…

«Esatto. Questa realtà è così pervasiva che già il nominarla (capitalismo e non  economia di mercato) è un atto rivoluzionario».

Evito di chiederle se, oltre a nominarla, si può fare qualcos’altro. Piuttosto, adesso a cosa sta lavorando?

«I progetti sono tanti ma bisogna andare a chiudere».

Già. Come si vede, dopo la pensione?

«Immerso nella luce abbacinante dell’oscurità universale».

Professore, le arriverà una bolletta spaziale!

«Lì non si paga, è tutto a carico del comune…».

Va bene, professore, la ringraziamo del tempo che ci ha dedicato e le auguriamo una buona prosecuzione delle sue vacanze.

«Grazie a voi e a presto!».

Un guitto cosmico

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A che punto siamo? A un punto morto. Quando finirà la guerra? Non domani né dopodomani. Durerà a lungo. Perché più passa il tempo, più ognuno ci trova una scusa per allungarla. Dapprima erano gli Stati Uniti che, soffiando sul fuoco della guerra civile tra Russia e Ucraina, impedivano alla Russia di ricomporre l’area economica ex-sovietica, la costringevano nei confini del regno di Mosca del XVII secolo e impedivano il transito del gas russo verso l’UE così costretta a rivolgersi agli esosi americani per il proprio fabbisogno energetico. Poi la stessa Unione Europea, che indugiava in improbabili piani di riconversioni ecologiche, ha trovato nella guerra l’occasione per rilanciarsi economicamente, puntando al riarmo che dovrebbe anche metterla al riparo da eventuali turbolenze provenienti dagli Stati Uniti in fuga dalla Nato. Infine, la Germania sta cogliendo l’opportunità di ribaltare i risultati della Seconda guerra mondiale, riarmandosi e puntando di nuovo a disgregare la Russia, obiettivo in cui si ricongiunge egemonizzandoli con ucraini e polacchi, secondo lo schema già perseguito dal Terzo Reich. Qui precipitiamo nella notte dei tempi, nel millennio dell’alterno confronto tra Europa cristiano-germanica e l’originaria Rus’ dal cui disfacimento emerge il nome Ucraina, monta la potenza della Confederazione polacco-lituana, ascende il regno di Mosca a Impero zarista sino alla Rivoluzione d’Ottobre che lo sopprime costruendo al suo posto il razionale edificio dell’Unione Sovietica. Che si sia trattato di una costruzione razionale è dimostrato dal suo successo socio-economico. Il comunismo infatti in un ventennio ha trasformato il caos di quell’immensa area in un poderoso sviluppo economico. L’URSS ha poi retto l’urto dell’aggressione tedesca conquistando per contraccolpo Berlino, è divenuta la seconda potenza nucleare del mondo e ha raggiunto per prima lo spazio extraterrestre. Il comunismo dunque, almeno nella sua versione economicistica, ha tenuto fede al suo programma di sviluppo delle forze produttive ma, affidandosi solo a un povero evoluzionismo scientifico, non è riuscito a debellare le forze sedimentate dalla storia, cioè i nazionalismi etnici e l’Ortodossia. Queste forze spirituali vincitrici dello scontro animano ora la geopolitica, cioè la frammentazione dello spazio storico in una molteplicità di dialetti irriducibili. La guerra in Ucraina non finisce perché è in atto questo momento irrazionale, laddove la razionalità non è il disegno provvidenziale né le magnifiche sorti e progressive ma il finalismo delle forme che attraversa la materia in tutti i suoi ordini, dall’inorganico all’organico al sociale. Questa spinta esiste ma non ha nulla di predeterminato né si compie spontaneamente poiché è l’organizzazione del livello superiore cui essa di volta in volta perviene che la spinge a superare la stasi in cui altrimenti ristagnerebbe. Il momento geopolitico in atto è un momento di stasi in cui l’Occidente torna a giocare il ruolo che svolge da un secolo, produrre simulacri di razionalità, il cattolicesimo della “dottrina sociale”, l’americanismo come filosofia della “vita pratica”, l’intelligenza artificiale come “cooperazione assoluta”, allo scopo di prolungare l’agonia del modo di produzione vigente. Non tutto dipende dai modi di produzione. Se tutto dipendesse da loro il comunismo avrebbe già da tempo soppiantato il capitalismo. Ma i modi di produzione si scontrano con il sostrato delle forze spirituali, cioè le spoglie che il finalismo delle forme dissemina nel suo cammino. Esse, assurte a fantasmi della storia, fanno da scudo a un modo di produzione superato, ostacolando l’affermarsi di una nuova spiritualità che, scissa dalla storia, tragga la sua forza dall’immanenza della forma interamente compiuta. C’è solo da mettersi le mani ai capelli al pensiero che il percorso cosmico della natura che diviene trasparente a sé stessa abbia come attore un guitto come Volodymir Zelensky.

Feticci e simulacri

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La forma di vita capitalistica produce di per sé feticci. Il feticcio per eccellenza è la merce, i cui rapporti sociali di produzione vengono occultati in una cosa percepita attraverso il prezzo. Nel suo scorrere, però, la vita sociale preme da ogni lato sulla reificazione e così capita che il commerciante faccia una “carezza” al cliente, sorta di sconto sul costo del tempo di lavoro del produttore transitato lungo i vari passaggi sfociati sul suo banco di vendita. Ma la strumentale e involontaria critica del feticismo della merce contenuta nella “carezza” del commerciante evidentemente non può bastare. C’è stato un momento in cui tale critica era la bandiera di un potente movimento sociale, il movimento operaio. Quando lo si è cominciato a chiamare “movimento dei lavoratori” la sua forza già declinava, ma nel frattempo il capitalismo aveva preso una tale paura che, oltre ai feticci, ha cominciato a produrre simulacri la cui funzione era di impedire che i feticci venissero distrutti. Simulacri ideologici, organizzativi, della vita quotidiana, su cui “spostare” la critica rivolta contro i feticci. Una prima grande produzione di simulacri si ebbe con il fascismo e il nazismo, i cui partiti civetta convogliavano la rivolta contro la forma di vita borghese e la indirizzavano verso falsi obiettivi. Gli ebrei furono l’obiettivo preferito. Ma in quel tempo gli stessi ebrei, mentre venivano sterminati nei luoghi, nei tempi e nelle forme ben conosciute, producevano a loro volta dei simulacri e, in fuga dall’Europa in fiamme, li introducevano in quella che la loro ideologia di “spostamento”, cioè il sionismo, definiva la “Terra promessa”. Il sionismo comprendeva principi e pratiche socialiste. Il suo arricchimento in uranio lo ha trasformato nel simulacro nazionalsocialista dello Stato d’Israele che conduce in Palestina una guerra di sterminio su cui si discetta se configuri o meno un genocidio. Contando solo dal 7 ottobre 2023, il rapporto è di millecinquecento israeliani circa tra assassinati e sequestrati da Hamas contro cinquantamila palestinesi di Gaza massacrati dall’esercito israeliano in un anno e passa di bombardamenti e mitragliamenti che, secondo la denuncia di Papa Francesco, non ha risparmiato neanche gli infanti. È evidente ormai che l’Olocausto avvenuto in Europa ad opera del nazifascismo è divenuto a sua volta un simulacro che neutralizza ogni critica verso i misfatti del simulacro sionista. Quanto a Hamas, una questione a sé stante è la produzione di simulacri nel mondo musulmano. Le dinamiche politiche interne al nazionalismo palestinese e in generale mediorientale sono complesse e poco conosciute. Avanzare giudizi e valutazioni fondate è quanto mai azzardato. Resta il fatto però che in quel mondo da troppo tempo ormai si odono solo richiami a un passato religioso prodigo a sua volta di simulacri a difesa di feticci posti all’incrocio tra una deformazione della già deforme forma di vita capitalistica e le peculiarità più truculente di quella particolare civiltà. Tornando all’Occidente, una seconda e più potente ondata di produzione di simulacri che arriva sino ai nostri giorni si è avuta con l’americanismo, ideologia ovviamente da ascrivere alla ristretta cerchia imperialista che grava ormai da tempo su tutto il popolo americano. Un simulacro particolarmente efficace prodotto in tale solco ideologico è il marchio pubblicitario, sorta di feticcio di secondo grado: la merce va in giro a volto scoperto ma nessuno la riconosce perché il simulacro la avvolge in sé rendendola invisibile. Questa magia “sposta” dalla merce al marchio la critica dei “consumatori” i quali, riuniti in “associazioni” a loro volta simulacri dei partiti, si rivolgono ai tribunali dove entra in campo il diritto, simulacro sommo dei conflitti sociali, tramite le cui procedure si sanzionano eventuali pratiche fraudolente nella produzione di simulacri. Questa stratificazione di simulacri, che rende praticamente inscalfibile il feticismo capitalistico, appare particolarmente evidente nel caso della Ferragni, esponente di spicco del mondo degli influencer, ultima incarnazione dei produttori di simulacri dopo attori, sportivi, membri del jet set. È ormai osservazione comune che, mentre queste ultime categorie producevano simulacri come attività a latere, gli influencer sono capaci solamente di produrre simulacri, una merce che, essendo un simulacro, nessuno più si ricorda che è una merce, salvo appunto quando qualcosa va storto nella sua produzione. In tal caso, interviene il pentimento operoso dell’influencer che, rinnovando un’antica pratica medioevale, con somme di denaro compra l’indulgenza dei consumatori. Prende vita così un totalitario Mondo dei Balocchi al quale si accede lavorando molto e guadagnando poco. Nella sua produzione di simulacri, l’americanismo ha ottenuto formidabili risultati anche nella politica. In una prima fase si è ricorso a formule come i partiti di centro che guardano a sinistra o i partiti socialdemocratici. Erano pratiche dispendiose e poco efficaci, che richiedevano periodicamente l’ausilio di potenti cariche di esplosivo che simulacri di anarchici facevano saltare nei treni o in banche affollate. La svolta si è avuta quando, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il capitalismo, approfittando del momento di massima debolezza di quel movimento operaio portatore della critica del feticismo della merce, è passato dalla guerra di posizione a quella di movimento. Dapprima si è ricorso ai “partiti democratici”, i quali però presto si sono rintanati nei parlamenti e nei governi lasciando scoperta la falla sociale della critica ormai divenuta pura rabbia. Sono nati allora i simulacri del populismo, talmente efficaci nella loro opera di “spostamento” della critica anti-feticistica, da inoculare nelle vaste masse la convinzione della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra proprio quando la destra più estrema stava vincendo. Così, mentre il capitalismo rinnovava le proprie pratiche monopolistiche (i monopoli sorti su Internet), avviava una nuova sequela di guerre imperialistiche (dalla Jugoslavia all’Iraq, all’Afghanistan, alla Palestina, all’Ucraina), demoliva stati più deboli per ingrossare i più forti (è quello che si sta cercando di fare con la Russia e che forse si cercherà di fare con la Cina), il populismo ammansiva le masse depredate e impoverite da questo nuovo, disperato ciclo volto a rallentare l’inesorabile caduta tendenziale del saggio di profitto. L’Elevato Buffone, che ha fondato e ispirato il populismo italiano, ha più volte rivendicato il merito di aver impedito che la rabbia si trasformasse in consapevole rivolta sociale. È il simulacro che mostra il deretano e proclama beffardo: qui è la merce, qui devi saltare!

L’era di Trump

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Per trovare un simbolo dell’era di Trump non bisogna andare negli Stati Uniti, ma in Argentina dove due tappi di sughero portati su da un’ondata di fango planetaria salutano dalla Casa Rosada una rada folla di cui cercano disperatamente di attirare l’attenzione. Da quel balcone antistante la piazza in cui in questi decenni si sono ritrovate le madri dei desaparecidos, avrebbe dovuto affacciarsi Papa Bergoglio per chiedere perdono dell’affronto di Papa Wojtyla ad Allende, quando si è affacciato a sua volta in Cile dal Palazzo della Moneda in compagnia di Pinochet. Ma Bergoglio, vecchio e malandato, mostra di avere solo qualche vaga idea del futuro, essere in buoni rapporti con la Cina, non esagerare con i froci, finirla con la schifezza della pedofilia, e un buffetto agli ebrei in uniforme da scavezzacollo israeliani. Troppo poco per la più alta figura morale dell’Occidente, di cui i due succitati tappi di sughero dicono di voler difendere i valori, no alla maternità surrogata, no all’aborto, sì alla famiglia, sì alle radici cristiane. Curioso il destino di questi valori, difesi da una manica di apostoli dalla doppia morale che celebrano il paganesimo organizzando raduni orgiastici in cui la folla delira per un razzo che ritorna docile al traliccio che lo sosteneva prima del lancio. Un abbattimento di costi da ragiunatt trasformato in un rito religioso. L’era di Trump è il compimento della religione del capitalismo. Non ci sono più diaframmi, preti in paramenti che benedicono combattenti, imprenditori, finanzieri. I guerrieri, i capitani d’industria, i nababbi officiano in prima persona il pontificale della ricchezza, con la sterminata massa pustolosa di poveri che dalle ultime fila spera di essere toccata dalla medesima grazia. Tutto il mondo è unificato dalla stessa febbre dell’oro che si sublima nella guerra all’eros condotta con gigantesche esplosioni di pornografia, la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina del Partito comunista, in realtà nome di fantasia di un redivivo Partito socialdemocratico che ricicla il ciarpame umanitario della Seconda Internazionale. Ma nonostante il mondo sia unificato sotto le insegne rilucenti dell’unica fede nel capitale, mai come ora è stato così prossimo alla catastrofe nucleare. Liberali di tutto il mondo, spiegateci questo mistero gaudioso.