Il miraggio dell’identità

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Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.

Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione,  si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione  alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.