Ucraina

Ragioni russe e contraddizioni europee

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Per l’onorevole Pina Picierno, l’articolo che riproduco qui appresso, tratto dal sito Ukraina.ru, è sicuramente un esempio di propaganda putiniana. Credo invece che si tratti di un’esposizione pacata delle ragioni russe nell’attuale contrapposizione con l’Occidente europeo e di un’analisi seria e pungente delle contraddizioni in cui si è impigliata l’Unione Europea nel suo sostegno a Kiev. Pubblico questo articolo anche per solidarietà con Angelo D’Orsi, che in questi giorni ha dovuto fronteggiare da par suo un maldestro tentativo di censura a una sua conferenza a Torino sui temi caldi del rapporto tra Europa e Russia.

 

Pavel Kotov, La guerra per cui tutti si stanno preparando. Cosa attende la Russia e l’Europa? (https://ukraina-ru.translate.goog/20251112/voyna-k-kotoroy-gotovyatsya-vse-chto-zhdet-rossiyu-i-evropu-1071479584.html?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it)

 

Si è tornato a parlare di una possibile guerra tra Europa e Russia. Questa volta, il presidente serbo Aleksandar Vučić non ha escluso la possibilità.

Le minacce di Mandon

Il presidente serbo è apparso sul canale televisivo Pink ed è stato invitato a commentare le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito francese, Fabien Mandon, secondo cui gli europei devono essere preparati a uno scontro militare con la Russia “tra tre o quattro anni”.

“Analizzando i fatti, giungo alla conclusione che la guerra tra Europa e Russia sta diventando sempre più evidente”, ha affermato Vucic.

Secondo lui, “tutti si stanno preparando alla guerra con la Federazione Russa”.

La dichiarazione di Mandon, che ha avuto un forte impatto, è stata fatta a ottobre durante il suo discorso a una riunione della commissione parlamentare per la difesa. Il generale francese ha poi approfondito questa idea, sostenendo che Mosca avrebbe “globalizzato” il suo conflitto con l’Ucraina e che la Russia “potrebbe essere tentata” di passare all’Europa dopo l’Ucraina.

Come al solito, l’ultimo profeta europeo non si è preoccupato di fornire alcuna prova delle aspirazioni del Cremlino. Sarebbe difficile trovarle, anche se ci si provasse, semplicemente perché tali piani non esistono e non possono esistere. Questo è stato sottolineato più volte da vari funzionari russi; in ultima analisi, deriva dalla logica stessa dell’Operazione militare speciale, che si basa sulla difesa contro l’avanzata aggressiva della NATO verso i confini russi e sull’eliminazione di una base anti-russa in Ucraina, non sulla preparazione di tale base per un attacco all’Occidente collettivo.

Tuttavia, dall’Europa si sentono sempre più spesso dichiarazioni bellicose mascherate da profonda preoccupazione per le intenzioni “militariste” del Cremlino. Inoltre, la questione va oltre le parole: le industrie militari occidentali vengono ristrutturate, vengono regolarmente attuate misure di mobilitazione e ingenti somme di denaro vengono stanziate per accelerare il riarmo.

Non c’è ritorno

Le ragioni sono molteplici.

In primo luogo, l’Europa ha sostenuto incondizionatamente l’Ucraina negli ultimi anni. Una volta che l’artiglio si conficca, l’intero uccello è perso. Questa è esattamente la situazione in cui si trova l’Occidente, dopo aver investito così tanti soldi nel regime di Kiev da non permettere più alle élite europee al potere di fare marcia indietro.

Come ha dichiarato di recente il primo ministro ungherese Viktor Orban, l’UE ha inviato 180 miliardi di euro all’Ucraina durante l’intera operazione speciale russa e si sta preparando un altro pacchetto di aiuti, per altri 40 miliardi.

La guerra è un affare costoso, quindi è il cittadino europeo medio a pagarne le conseguenze, al quale viene chiesto di accettare un peggioramento generale del tenore di vita per respingere l’effimera “minaccia russa”.

Quando tutti questi investimenti in Ucraina non daranno i loro frutti e il regime di Kiev verrà sconfitto, in un modo o nell’altro, la carrozza si trasformerà rapidamente in una zucca e diventerà chiaro che tutti questi miliardi sono semplicemente andati in fumo. Allora, i cittadini dei paesi europei inizieranno inevitabilmente a mettere in discussione i propri governi, che per anni hanno propinato alla popolazione favole sulla necessità di unità e austerità. E a cosa è servito tutto questo?

È ovvio che l’intera euroburocrazia, che ha ricavato dividendi finanziari e politici dalla guerra in Ucraina, si ritroverà senza niente in questa situazione, quindi il suo compito in ogni caso è quello di mantenere lo status quo e alimentare il conflitto ucraino in ogni modo possibile.

Base di risorse

Un’altra ragione, seppur meno ovvia, ma non meno importante, della militarizzazione dell’Europa è che l’UE sta finalmente cadendo in una schiavitù energetica. Il nero viene dichiarato bianco: in teoria, l’Europa ha solo rafforzato la propria indipendenza energetica rifiutando gli idrocarburi dalla Russia, sebbene in realtà sia vero il contrario.

“L’Europa, in termini di risorse, è estremamente povera. Se si escludono Russia e Ucraina, non si trova nulla tranne carbone e pochi minerali rari (Germania). Le eccezioni sono i complessi petroliferi e del gas di Norvegia e Regno Unito, oltre all’energia dei geyser islandesi. Nel frattempo, la popolazione dell’Unione Europea è di quasi 446 milioni, ed è abituata a standard di consumo molto elevati. Da qui la dipendenza dell’Europa dall’energia esterna”, ha scritto lo scrittore e politologo Vladimir Wiedemann nella sua rubrica per Ukraina.ru.

I leader europei iniziarono a darsi la zappa sui piedi già prima dell’attuale contrapposizione, quando abbracciarono l’energia verde e bloccarono il North Stream, solo per poi assistere tranquillamente allo scoppio delle ostruzioni ucraine. Si resero presto conto che, con i legami con la Russia interrotti, non sarebbero stati in grado di gestire appieno il problema. Da qui la riapertura di centrali termoelettriche ormai fuori moda, il riorientamento verso il costoso gas naturale liquefatto statunitense, e così via.

In queste circostanze, la sconfitta della Russia nello scontro con l’Occidente potrebbe essere sfruttata dagli europei per porre rimedio alla situazione. La Russia è un paese ricco di risorse, quindi perché non spartirsele a proprio vantaggio? Ad esempio, attraverso riparazioni di guerra, di cui il paese si troverebbe inevitabilmente gravato in caso di sconfitta.

Chi rimuoverà chi dalla mappa del mondo?

È chiaro che uno scontro militare tra Russia e Occidente, qualora dovesse verificarsi, è una questione di futuro. Perché ciò accada, dovrebbero convergere diversi altri fattori; senza il sostegno degli Stati Uniti, l’Europa non rischierebbe una tale escalation. Nonostante tutte le sfumature, Washington è attualmente più propensa a prevenire una guerra mondiale che a scatenarla.

Nonostante ciò, è impossibile affermare che un conflitto militare su vasta scala tra Russia e Occidente sia escluso al 100%. Se uno scontro militare con le potenze occidentali dovesse mai essere ritenuto inevitabile, allora i preparativi dovranno essere effettuati in anticipo, con tutte le conseguenze che ne conseguono, come la mobilitazione industriale e altre misure. La domanda rimane quindi: il Paese è pronto per un simile scenario?

Nel frattempo, le più recenti armi russe vengono impiegate in combattimento, progettate per calmare le teste più calde del campo europeo pro-guerra.

Una di queste figure, il ministro della Difesa belga Theo Francken, ha recentemente minacciato di “cancellare Mosca dalla mappa”. In seguito ha riconsiderato la sua affermazione e ha chiarito che le sue parole erano state distorte da organi di stampa senza scrupoli, ma il retrogusto è rimasto.

La Russia deve comportarsi in modo tale che nessun funzionario temporaneo europeo possa anche solo pensare di dire una cosa del genere al riguardo. Le capitali europee devono essere consapevoli che la Russia garantirà la propria sicurezza con ogni mezzo necessario, anche quelli che potrebbero, per usare le parole del ministro belga, cancellare davvero qualcuno dalla mappa.

Un racconto di guerra

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Mentre i figli del Gotha ucraino sgamano l’arruolamento in guerra studiando all’estero, come del resto insegna il figlio di Netanyahu che soggiorna nell’ospitale Florida lasciando che sia la bassa forza del suo paese a vedersela con gli incubi del massacro dei palestinesi poi smaltiti nelle “vacanze italiane”, mentre l’Europa pensa di tirarsi fuori dai suoi sempre più gravi problemi socioeconomici sostituendo l’austerità con il riarmo volto a provocare un agognato attacco russo che lo giustifichi a posteriori, i russi di ogni età e condizione vanno in guerra a difendere l’esistenza del proprio paese che invece una muta di cani affamati vorrebbe smembrare per impossessarsi delle sue immense ricchezze ed eliminare la sua potenza, fra i principali ostacoli ai disegni di dominio mondiale di un mondo occidentale tanto più decadente quanto più aggressivo. È quanto testimonia questo asciutto e drammatico racconto di guerra che pubblico sfidando la prevedibile accusa di far parte della “propaganda di Putin”.

 

Lo storico Yuri Kuleshov andò a combattere per la sua nativa Oblast’ di Kursk con il figlio. Il loro gruppo resistette per quasi due settimane, frenando l’avanzata nemica nei pressi di Russkoye Porečny.

Nella vita civile, Yuri è storico, medievalista, esperto di armi, esperto di armi a tempo pieno e responsabile del settore di assistenza militare presso il Museo-Riserva del Campo di Kulikovo.

La sua specializzazione è la storia militare dell’Orda d’Oro nell’Europa orientale. Ha partecipato a spedizioni e organizzato convegni accademici.

Uno dei principali progetti di Yuri è stato il convegno internazionale “Cultura militare nel contesto archeologico”, tenutosi nel 2022. Nonostante le sanzioni, studiosi provenienti da Spagna, Ungheria e altri paesi europei hanno partecipato al convegno.

I principali collaboratori e partner di Yuri sono storici ed esperti di armi turchi, che studiano le battaglie dell’XI secolo, la conquista di Costantinopoli e le battaglie tra i turchi selgiuchidi e l’Impero bizantino. Ma tutto questo è accaduto in tempo di pace.

Nella primavera del 2024, il figlio maggiore di Yuri comunicò al padre che sarebbe andato all’SVO [Operazione Militare Speciale]. La motivazione del ventiduenne era ovvia. Molti amici di Yuri erano già in zona di guerra.

Padre e figlio partirono insieme, ma in segreto, confidandosi solo con il nonno e il figlio più giovane di Yuri Kuleshov. Informarono la moglie, la madre e altri parenti della spedizione. In realtà, andarono in Cecenia: prima a Grozny, dove si unirono all’unità Akhmat.

L’addestramento in Cecenia durò solo un mese, ma fu molto intenso. Il figlio di Yuri era un atleta, un sollevatore di pesi e fisicamente ben preparato. Assimilò rapidamente tutto ciò che gli insegnavano.

Dopo l’addestramento, padre e figlio si ritrovarono nella regione di Kharkiv, vicino a Vovchansk. Non appena le Forze Armate ucraine iniziarono l’offensiva nella regione di Kursk, il gruppo Kuleshov fu trasferito in quella direzione.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto, un’unità composta da padre e figlio fu localizzata a otto chilometri da Sudža, nel villaggio di Cherkasskoye Porechnoye. Dovevano attraversare il fiume Sudža per raggiungere l’altra sponda, controllata dalle Forze Armate ucraine. Diversi gruppi di Akhmat attraversarono il fiume Sudža. L’obiettivo era localizzare e distruggere l’equipaggiamento nemico.

«Abbiamo trascorso le prime 24 ore a identificare le posizioni e i percorsi dei veicoli, poi abbiamo iniziato a lavorare. Le nostre prede includevano due veicoli blindati Hummer, due veicoli blindati Kazaki e un pick-up Nissan con a bordo delle truppe. Il gruppo, che comprendeva Yuri e suo figlio, trascorse tre notti e quattro giorni. Dopo aver completato le nostre manovre, le Forze Armate ucraine iniziarono a setacciare il villaggio, cercando di scoprire dove fossimo. Avevano sede nella scuola e nel centro comunitario del villaggio. Il quarto giorno, finalmente riuscirono a localizzarci. Il nostro gruppo perse lì sei soldati e ne trasportammo cinque gravemente feriti».

 

«Ho chiuso gli occhi del bambino e mi sono diretto verso le nostre posizioni»

Il gruppo si divise. Alcuni combattenti furono uccisi durante la ritirata, il comandante fu ferito e Yuri assunse il comando. Il gruppo emerse dal fienile in fiamme; tutto il resto fu distrutto da mine e droni.

Quando il gruppo di Yuri si avvicinò al ponte sul Sudzha, divenne chiaro che le unità a guardia avevano abbandonato le loro posizioni e solo tre soldati di Akhmat lo difendevano. I feriti furono evacuati e il resto del gruppo rimase a combattere per il ponte. La battaglia infuriò per tre giorni e le truppe ucraine non riuscirono ad attraversare il fiume.

L’avanzata nemica continuò: le posizioni furono bombardate con carri armati e altre armi. A un certo punto, si decise di inviare un gruppo al ponte per osservare il nemico; Yuri e suo figlio si offrirono volontari.

Si rivelò impossibile ottenere lì un punto d’appoggio: l’intera strada fu distrutta da un incendio durante la notte. Il gruppo entrò in una delle case, ma la posizione si rivelò insostenibile: le finestre erano sigillate con materiale isolante, impedendo ai soldati di osservare l’area circostante – le Forze Armate Ucraine avrebbero potuto avvicinarsi inosservate.

E lo fecero.

Yuri sentì lo scricchiolio dell’ardesia sotto i piedi di qualcuno che si avvicinava. Ne seguì una colluttazione e Kuleshov rimase ferito.

«Hanno circondato la casa su tre lati e ho deciso di chiamare via radio un gruppo di supporto, altrimenti saremmo morti lì. Il gruppo di evacuazione arrivò e li colpì alle spalle – loro abbandonarono i loro e fuggirono».

Il gruppo non poté fuggire allo stesso modo: tutto era in bella vista. Mentre i soldati medicavano i feriti, un drone atterrò, distruggendo una stanza. Ne seguì un secondo. Il gruppo di Yuri tentò di evadere e si ritrovò sotto il fuoco dei mortai.

Dopo uno dei lanci, il figlio di Yuri rimase ferito: si ruppe un braccio e una scheggia gli finì nella gamba. Durante l’esplosione successiva, anche Yuri fu ferito, al ginocchio e all’inguine. Gli uomini riuscirono a nascondersi tra le macerie della casa.

Quella notte, i Kuleshov feriti si resero conto di non avere altro posto dove nascondersi. Cercando di sfuggire ai droni, Yuri si rifugiò in un angolo del cortile e suo figlio dietro un’autocisterna.

Poi i droni ripresero a volare: avevano individuato gli uomini e iniziarono nuovi attacchi. Il giovane Kuleshov aveva le gambe rotte, ma assicurò al padre di stare bene. Yuri perse conoscenza diverse volte e, quando si svegliò la mattina, vide che suo figlio non respirava.

«Ho perso di nuovo i sensi, poi ho ripreso i sensi. Ho guardato l’orologio: erano le cinque e mezza. Mi sono appoggiato alla mitragliatrice, mi sono alzato, ho chiuso gli occhi di mio figlio e mi sono diretto verso le nostre posizioni».

Yuri, gravemente ferito, dovette percorrere a piedi 15 chilometri per raggiungere l’ospedale. Si nascose dai droni tra i cespugli di ribes e in una zona boschiva. Lì, due dei suoi soldati di Akhmat lo trovarono: lo fasciarono e gli diedero del tè. Ma dovettero andarsene: le Forze Armate ucraine avevano iniziato un attacco.

Un altro compagno fu chiamato da una postazione lontana, che aiutò Yuri a camminare. Gli uomini si riconobbero: erano sullo stesso volo da Mosca a Grozny.

Raggiunsero il punto di evacuazione, ma non c’erano mezzi di trasporto, quindi dovettero proseguire. Si diressero verso una stazione di soccorso medico permanente gestita dal Ministero della Difesa.

«Ma anche lì dissero che l’equipaggiamento era bruciato e che i rinforzi non sarebbero arrivati: era troppo pericoloso andarci. Ci riposammo per un’ora e poi proseguimmo verso il villaggio più vicino, attraverso una zona boscosa, perché muoversi in campo aperto era impossibile a causa dei droni nemici».

Solo verso sera, grazie all’aiuto dei soldati incontrati, Yuri finì all’ospedale di Soldatskoye, da dove fu trasferito a Kursk. Lì, nel centro regionale, ricevette finalmente cure mediche complete.

Yuri trascorse tre giorni in ospedale, poi fu trasferito a Mosca.

Il figlio di Yuri morì. Lui crede che tutto sia destino, e questo è il suo destino: lasciare la vita nella sua terra natale. Tutte le lacrime sono state versate, ma il ricordo di suo figlio rimane per sempre.

“Sinodik” https://t.me/AptiAlaudinovAKMAT/14309

fonte: https://colonelcassad-livejournal-com.translate.goog/10077883.html?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_hist=true

Un guitto cosmico

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A che punto siamo? A un punto morto. Quando finirà la guerra? Non domani né dopodomani. Durerà a lungo. Perché più passa il tempo, più ognuno ci trova una scusa per allungarla. Dapprima erano gli Stati Uniti che, soffiando sul fuoco della guerra civile tra Russia e Ucraina, impedivano alla Russia di ricomporre l’area economica ex-sovietica, la costringevano nei confini del regno di Mosca del XVII secolo e impedivano il transito del gas russo verso l’UE così costretta a rivolgersi agli esosi americani per il proprio fabbisogno energetico. Poi la stessa Unione Europea, che indugiava in improbabili piani di riconversioni ecologiche, ha trovato nella guerra l’occasione per rilanciarsi economicamente, puntando al riarmo che dovrebbe anche metterla al riparo da eventuali turbolenze provenienti dagli Stati Uniti in fuga dalla Nato. Infine, la Germania sta cogliendo l’opportunità di ribaltare i risultati della Seconda guerra mondiale, riarmandosi e puntando di nuovo a disgregare la Russia, obiettivo in cui si ricongiunge egemonizzandoli con ucraini e polacchi, secondo lo schema già perseguito dal Terzo Reich. Qui precipitiamo nella notte dei tempi, nel millennio dell’alterno confronto tra Europa cristiano-germanica e l’originaria Rus’ dal cui disfacimento emerge il nome Ucraina, monta la potenza della Confederazione polacco-lituana, ascende il regno di Mosca a Impero zarista sino alla Rivoluzione d’Ottobre che lo sopprime costruendo al suo posto il razionale edificio dell’Unione Sovietica. Che si sia trattato di una costruzione razionale è dimostrato dal suo successo socio-economico. Il comunismo infatti in un ventennio ha trasformato il caos di quell’immensa area in un poderoso sviluppo economico. L’URSS ha poi retto l’urto dell’aggressione tedesca conquistando per contraccolpo Berlino, è divenuta la seconda potenza nucleare del mondo e ha raggiunto per prima lo spazio extraterrestre. Il comunismo dunque, almeno nella sua versione economicistica, ha tenuto fede al suo programma di sviluppo delle forze produttive ma, affidandosi solo a un povero evoluzionismo scientifico, non è riuscito a debellare le forze sedimentate dalla storia, cioè i nazionalismi etnici e l’Ortodossia. Queste forze spirituali vincitrici dello scontro animano ora la geopolitica, cioè la frammentazione dello spazio storico in una molteplicità di dialetti irriducibili. La guerra in Ucraina non finisce perché è in atto questo momento irrazionale, laddove la razionalità non è il disegno provvidenziale né le magnifiche sorti e progressive ma il finalismo delle forme che attraversa la materia in tutti i suoi ordini, dall’inorganico all’organico al sociale. Questa spinta esiste ma non ha nulla di predeterminato né si compie spontaneamente poiché è l’organizzazione del livello superiore cui essa di volta in volta perviene che la spinge a superare la stasi in cui altrimenti ristagnerebbe. Il momento geopolitico in atto è un momento di stasi in cui l’Occidente torna a giocare il ruolo che svolge da un secolo, produrre simulacri di razionalità, il cattolicesimo della “dottrina sociale”, l’americanismo come filosofia della “vita pratica”, l’intelligenza artificiale come “cooperazione assoluta”, allo scopo di prolungare l’agonia del modo di produzione vigente. Non tutto dipende dai modi di produzione. Se tutto dipendesse da loro il comunismo avrebbe già da tempo soppiantato il capitalismo. Ma i modi di produzione si scontrano con il sostrato delle forze spirituali, cioè le spoglie che il finalismo delle forme dissemina nel suo cammino. Esse, assurte a fantasmi della storia, fanno da scudo a un modo di produzione superato, ostacolando l’affermarsi di una nuova spiritualità che, scissa dalla storia, tragga la sua forza dall’immanenza della forma interamente compiuta. C’è solo da mettersi le mani ai capelli al pensiero che il percorso cosmico della natura che diviene trasparente a sé stessa abbia come attore un guitto come Volodymir Zelensky.

L’oceano delle nostre speranze

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Nella ormai celeberrima conferenza stampa finita a pesci in faccia, Trump dice a Zelensky più o meno così: «tra noi e l’Europa c’è un oceano, eppure siamo lì molto coinvolti con tutto quello che ci costa. Se siete interessati alla sicurezza, facciamo l’accordo economico, noi veniamo a lavorare da voi e scava, scava, scava, saremo impegnati a difendere la nostra presenza, e questo basterà a calmare la Russia e assicurarvi la pace. Se non volete fare l’accordo, ve la dovrete vedere tra di voi, e voi ucraini avrete la peggio perché, senza il nostro aiuto militare, Putin vi schiaccerà. Se volete essere forti, dovete fare l’accordo». Zelensky più o meno ribatte così: «certamente, voi grazie a Dio avete l’oceano che oggi vi protegge, ma domani anche voi avrete da temere dalle mire espansionistiche della Russia. Putin non si ferma perché l’unica cosa che capisce è la forza militare. Per noi quindi la sicurezza è un esercito forte che ci difenda e questo ce lo potete assicurare solo voi in collaborazione con gli europei. Quindi dateci armi e truppe, con annesse Nato e UE, da schierare ora e sempre ai confini della Russia». Tutta la conferenza stampa si è giocata attorno a quest’immagine dell’oceano, introdotta da Trump e ritortagli velenosamente contro da Zelensky. Trump, che con questo suo secondo mandato vuole passare alla storia come il pacificatore del mondo, voleva dimostrare il suo relativo disinteresse: «potremmo restarcene a casa, ma veniamo per difendere un nostro interesse economico che creiamo con l’accordo, così facendo però otteniamo la pace nel mondo che è quello che mi interessa». Zelensky voleva dimostrargli l’illusorietà di questo piano: «la Russia assassina e terrorista non mantiene la parola data come dimostra tutto ciò che ci ha fatto dal 2014 a oggi, e un giorno aggredirà anche voi». Questa profezia ha fatto uscire Trump dai gangheri e i due hanno cominciato ad altercare addirittura più volte sfiorandosi. Una scena tragica e penosa, in cui Zelensky sembrava davvero il bifolco che litiga con il proprietario del fondo da cui prende in prestito le sementi e gli attrezzi di lavoro. Eppure un simile personaggio tiene testa all’America e riesce a sobillare l’intera Europa compresa l’Inghilterra. Come mai? Intendiamoci, il legame economico offerto da Trump non è cooperazione economica ma uno scambio economico-politico sotto cui si nasconde una spoliazione: «le vostre risorse ci servono per sviluppare le nostre tecnologie e quant’altro, condizione essenziale per continuare a essere la Great America, il demiurgo del mondo che io Trump voglio incarnare e che può darvi pace e sicurezza». Il legame economico invece offerto dai globalisti europei rinserrati a Bruxelles, cui si accodano a corrente alternata i londinesi della City, è in apparenza cooperazione economica, ma in realtà è il classico scambio economico-finanziario ineguale la cui conseguenza macroscopica è, oltre alla corruzione endemica, l’immigrazione di massa che distrugge la coesione sociale dei paesi di partenza e di quelli di arrivo. Ora, lo scambio economico-politico di spoliazione di Trump è un attacco diretto alla falsa cooperazione economica globalista. Trump parte dal presupposto che a lungo andare il traliccio a cui è attaccato il pallone sempre più gonfio della globalizzazione crollerà e, prima del disastro che gli europei invece si ostinano a ignorare, mira a ridisegnare lo spazio economico riconducendolo dentro i confini degli Stati. Di qui i dazi, che magari nell’immediato non hanno logica economica, ma sono il prezzo pagato volentieri per riprendere il controllo politico dell’accumulazione. Quindi Trump da un lato con Musk, l’utile idiota a libro paga NASA, combatte la superfetazione burocratica dello Stato che ai globalisti à la Biden serviva per acquisire consenso sociale, dall’altro rafforza lo Stato come guardiano politico del capitale al punto che i monopolisti di Internet, padroni del campo con i globalisti, da un giorno all’altro hanno abiurato tutto il ciarpame ideologico del globalismo e ora sono tutti inginocchiati ai suoi piedi, lui che forte del pieno mandato elettorale ricevuto può schiacciarli quando vuole. E questo è la campana a morte per i globalisti di Bruxelles i quali ciechi e sordi come sono si accodano ed esaltano il buzzurro ucraino, il quale però ha capito che tiene per gli attributi Trump, perché se lui non firma l’accordo economico tutta la costruzione con cui Trump intende restituire all’America lo scettro di arbitro del mondo non parte. Di qui la sua tracotanza che traspare in ogni istante della conferenza stampa, specie nei confronti del vicepresidente americano, ma anche nei confronti di Trump verso cui ha l’atteggiamento insofferente del nipote sveglio che sopporta a stento il nonno un po’ stupido. Che dire? Per le sorti del mondo, l’umanitarismo affaristico di Trump è più desiderabile del falso vittimismo ucraino che si traduce in una paradossale idolatria della forza militare. Oltretutto, con la sua strategia Trump reintegrerebbe la Russia nel tessuto capitalistico occidentale, e Putin che non è stupido e per ovvie ragioni non teme lo scambio economico-politico gli ha subito offerto di sfruttare insieme le sue risorse minerarie. Questo naturalmente è benzina sul fuoco per i globalisti di Bruxelles, perché dovrebbero andare a Canossa, e per i nazionalisti ucraini, perché dovrebbero finalmente cessare dalle paranoie con cui intossicano il mondo dal 1991 a oggi, se non da prima. Ma trasportato nel quadrante medio-orientale che ne è dell’umanitarismo affaristico di Trump? Mentre l’Ucraina potrebbe anche rifiorire, sebbene in una situazione di vassallaggio a parti rovesciate (prima la Russia, ora gli Stati Uniti. Bel risultato da fessi!), i palestinesi verrebbero semplicemente deportati, rendendo eterno il loro risentimento contro Israele in cui trionferebbero le peggiori tendenze razzistiche. Nella strategia di Trump, comunque, se non ci si fa traviare dalle stupidaggini dei social su Gaza trasformata in resort di lusso di cui si pascono i nostri media, il quadrante medio-orientale appare molto meno elaborato di quello europeo, e potrebbe riservare delle sorprese in riferimento al torvo e ormai anacronistico regime iraniano degli ayatollah. La situazione dunque è in movimento e non si starà qui a rievocare le scoppiettanti sparate del tycoon su Groenlandia, Panama e lo sbarco su Marte, per non parlare della Cina che incombe sfuggente sullo sfondo. In fin dei conti, sono i primi trenta giorni, e chi vivrà vedrà. E l’Italia? Mentre Giorgia Meloni come una faina sta acquattata prudente per capire quale maschera indossare non appena la situazione si chiarisce, l’Italia se la passa come l’Ucraina. Infatti, abbiamo un ex comico, Michele Serra, che convoca sotto casa sua i sindacati, i sindaci e chi ci sta, e da lì si mette alla testa di una manifestazione per… l’Europa (grasse risate dal pubblico). Insomma, stante la situazione attuale e stante la perdurante paralisi cerebrale di qualsiasi forza anticapitalistica di sinistra, l’unica cosa che ci si può augurare è che almeno ancora per un po’ Dio, di là dell’oceano, salvi l’America e soprattutto salvi Donald Trump.

I tre strati della guerra ucraina

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Partiamo da una domanda stupida, come quelle che si fanno chiacchierando davanti a una tazzina di caffè: la Russia ormai da trent’anni è un paese capitalistico; perché allora questa acerrima ostilità con gli Stati Uniti? Qualcuno inviterà già a precisare: in Russia c’è un capitalismo con caratteristiche russe. Certo, è una differenza. Ma a cosa ricondurla? E se tale differenza c’è, basta a spiegare l’acerrima ostilità? Forse che le potenze capitalistiche non si sono mai fatte la guerra? Sorbiamo un sorso di caffè e ripartiamo da capo. Nella guerra in Ucraina vi sono tre strati, lo strato del carnaio, lo strato ideologico e lo strato politico. Lo strato del carnaio è quello in cui un uomo quando è colpito da un proiettile o salta su una mina diventa un pezzo di carne sanguinolenta. La guerra in Ucraina sarà pure ibrida e altamente tecnologica, ma su una salda base di carne maciullata. I video in rete che lo provano non mancano. Lo strato del carnaio, presente in ogni guerra, è quello cui si richiamano coloro che denunciano l’“inutile strage”. Più cresce, più aumenta l’eccitazione di coloro che si esaltano alla vista del sangue ma anche lo sdegno di coloro cui ripugna, sino a quando dietro la spinta dell’istinto di sopravvivenza il parossismo del carnaio non straborda negli altri strati alla ricerca della “pace”. La controffensiva degli ucraini in corso in questi giorni sta facendo crescere il carnaio ma ancora non nella giusta misura da imporre tale ricerca. Che in ogni caso richiede che si passi alla considerazione degli altri due strati. Lo strato ideologico della guerra ucraina è dato dalla guerra civile culturale in corso all’interno del mondo russo che è l’espressione maggiore del mondo slavo a sua volta depositario autentico dell’Ortodossia. La Jugoslavia è stata l’anteprima di tale guerra civile culturale che ora dilaga apertamente nel più ampio contesto russo. Il nocciolo di tale guerra è il processo di secolarizzazione in corso nell’Ortodossia che avanza lentamente ma inesorabilmente. Liberandosi dell’ateismo di Stato della rigida forma di comunismo impiantato dai bolscevichi, l’Ortodossia pensava di aver guadagnato l’eternità ma non aveva visto il vero pericolo che incombeva sulla sua esistenza millenaria, ovvero il ritorno in forze del capitalismo in cui non è più lo Stato che preme per liberarsi di Dio ma la “società civile” per abolire le pastoie morali cui i pope fanno da guardia. Se l’Ucraina è la punta di lancia della secolarizzazione ortodossa, ciò non vuol dire che Putin è il chierichetto di Kirill. Papa Francesco ha ragione a rovesciare argutamente quest’immagine perché così, lo voglia o no, ci introduce al terzo strato della guerra ucraina, quello politico dei rapporti imperialistici. La secolarizzazione ortodossa in corso, con le profonde divisioni che provoca nel mondo slavo, è lo strumento mediante il quale l’imperialismo statunitense cerca di sopraffare l’imperialismo russo per potere perpetuare la propria supremazia mondiale. Lo scontro imperialistico, che da più di un secolo è la modalità di esistenza del capitalismo, si gioca oggi su tre formule egemoniche, l’unipolarismo con la variante multilaterale, il multipolarismo e l’umanità come comunità di destino comune. La prima formula è quella entro cui oscillano gli Stati Uniti e i loro vassalli europei, la seconda è quella per cui si batte la Russia convinta così di poter trasformare il mondo in un consesso oligarchico in cui spartirsi potere e ricchezze, la terza formula è quella della Cina nel suo ancora esitante imperialismo verso cui la sospinge quel capitalismo di cui si serve per sviluppare il suo “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. L’acerrima ostilità tra Stati Uniti e Russia non è dunque un’eredità della “guerra fredda” ma un’ostilità imperialistica. La “guerra fredda” fu lo strumento per bloccare il tentativo di modificare la base d’essere del mondo dal capitalismo al socialismo. È una fase conclusa della storia del mondo perché oggi in primo piano è di nuovo lo scontro imperialistico in cui Stati capitalistici più potenti divorano Stati capitalistici meno potenti. Potrà la Cina con il suo pallido marxismo da Seconda Internazionale riprendere il discorso del cambio di base d’essere del mondo? Sarà la “disumanità” del processo di secolarizzazione a imporre tale cambio d’essere? O tale cambio d’essere sarà rimesso all’ordine del giorno dal pericolo estremo della rovina della specie verso cui conduce lo scontro imperialistico nella forma di una guerra atomica? Quale che sia la direzione che prenderanno gli eventi è richiesto però un risveglio della coscienza anticapitalistica di cui la ripulsa del carnaio è solo una premessa.