alienazione

Un congresso mondiale delle culture

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Ecco alcune notizie da un mondo alla rovescia. All’inizio di giugno di quest’anno di grazia 2021 Paxton Smith, una studentessa della Lake Highlands High School in Texas, parlando alla festa di diploma ha criticato le nuove restrizioni all’aborto varate nello Stato: «ho paura che i contraccettivi possano fallire, sono terrorizzata dal fatto che se vengo stuprata le mie speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il mio futuro non avranno più importanza. Voi non capite quanto sia disumano vedersi togliere l’autonomia sul proprio corpo»1. Dunque, la giovane Paxton non è terrorizzata perché può essere stuprata, bensì teme che i contraccettivi falliscano e che non possa poi abortire. Dà per scontato che sia una preda sessuale e ricerca i mezzi più efficaci, tra cui l’aborto, per evitare una gravidanza indesiderata che, togliendole il controllo del suo corpo, possa spezzare le sue speranze, aspirazioni, sogni e sforzi per il suo futuro. Importa poco poi che tutte queste belle cose debbano realizzarsi in un mondo dove essere stuprate è all’ordine del giorno. Le reificazioni che punteggiano questa concezione dei rapporti sessuali, i contraccettivi, lo stupro, l’aborto, il corpo, il futuro, rendono alieno l’appello finale a una umanizzazione che si vorrebbe conseguire con il segmento più debole di questa complessiva disumanità. Nel caso che segue l’alienazione è più classica e meno vertiginosa ma non meno impressionante. Un articolo a firma di Ludovica Bulian, a pagina 4 del «Giornale» del 27.6.2021, reca il seguente titolo: La minaccia dei sindacati: stop licenziamenti per quattro mesi. I sindacati cui si fa riferimento non sono gli incendiari sindacati di base, bensì i miti sindacati confederali CGIL, CISL e UIL. Eppure, per Monsieur le Capital anche la loro pacifica, beneducata richiesta di procrastinare i licenziamenti di ancora qualche mese è una intollerabile minaccia. Esopo e Fedro si danno ancora la mano e dalle origini della civiltà dello scambio la favola del lupo e dell’agnello si invera ancora una volta nei moderni rapporti di produzione di cui mitologicamente prefigurava l’avvento. In questo mondo alla rovescia non può mancare l’alienazione del coronavirus che si manifesta con una insensibilità alla contraddizione niente affatto dialettica. Nella mente collettiva infatti con appositi comandi ed esortazioni vengono eretti dei muri che separano il venir meno delle precauzioni di questi mesi dalla percezione del pericolo delle “varianti”. Il blocco della sintesi di questi due estremi darà luogo a contagi a basso regime, poche ospedalizzazioni, poche terapie intensive e molti infetti mal curati a penare nelle proprie abitazioni. Tutto questo affinché l’economia riparta. Ma che cosa accadrà se questa scissione si rivelerà un accomodamento illusorio? Che cosa accadrà se la pandemia riprende con forza? Le persone non sono preparate, hanno sospeso le loro abitudini pensando di potervi tornare a breve, nessuno ha loro spiegato che il cambiamento può essere permanente e nessuno ha detto loro cosa mettere al posto delle vecchie abitudini. Si parla loro ambiguamente di “rinascita” e “ricostruzione” evocando il dopoguerra e così finisce che non credono più neanche nella più modesta “ripresa”. I grandi che governano con la “comunicazione” non si rendono conto che da queste mezze bugie e mezze verità può solo derivare il caos, lo scontro, il disastro. L’ultimo rapporto sulle tendenze future stilato dal National Intelligence Council, sottorganismo della CIA, ha delineato gli scenari possibili per i prossimi vent’anni: il ritorno trionfale delle “democrazie”, un mondo senza guida, la coesistenza competitiva delle “democrazie” con la Cina, un mondo di contenitori separati l’uno dall’altro, la catastrofe2. Ma qui lo scenario della catastrofe rischia di avverarsi già l’anno prossimo. È interessante però come in questo documento la catastrofe viene caratterizzata. Anzitutto, la catastrofe è l’unico scenario in cui è prevista la mobilitazione delle persone. In tutti gli altri scenari gli individui sono sudditi del mercato, vittime del caos, intrappolati nei mondi a parte, ma comunque sempre individui passivi. A mobilitarli è dunque solo l’istinto di sopravvivenza. A questo siamo, la disumanizzazione prodotta da decenni di trionfi capitalistici avrebbe privato la società di ogni progetto per l’avvenire e l’avrebbe ridotta all’istinto primordiale della sopravvivenza. Non si sa come, però, ma il rimbalzo da questa regressione dovrebbe dar luogo ad uno Human Security Council composto da Stati ma anche da attori non governativi. Non più dunque le nazioni come riferimento bensì l’umanità. È sempre così, quando il capitalismo raschia il barile salta fuori l’umanitarismo. C’è chi però si porta avanti, come l’Unione Europea che ha appena insediato la Conferenza per il Futuro dell’Europa, 450 membri circa tra esponenti dei parlamenti nazionali, membri del Parlamento europeo, componenti della Commissione e del Consiglio d’Europa e infine rappresentanti dei cittadini degli Stati membri3. Come siano stati designati questi rappresentanti non è chiaro, essi comunque testimonierebbero dell’apertura all’immancabile “società civile”4, l’esercito politico di riserva che in democrazia calmiera le ambizioni troppo grandi di chi a turno governa. Immancabile anche la piattaforma digitale attraverso cui ogni cittadino nella propria lingua potrà interloquire sui temi della Conferenza, clima, donne, salute, valori, unione sociale, dialogo, cambiamenti, giustizia, trasparenza, nuovi trattati, meno sovranità, processi “bottom-up”5. È attesa una nuova Pentecoste che raccordi lingue e menti. Mentre USA e UE con i loro lunghi cannocchiali cercano di penetrare le brume del futuro, l’economia che governa il mondo si riunisce periodicamente nei suoi G7. È difficile dire cosa sia il G7 dal momento che non ha nessuna base giuridica o istituzionale. Nel recente vertice di Cornovaglia sono stati formulati i migliori propositi, equo commercio, un sistema commerciale riformato, una economia globale, un sistema fiscale globale, una rivoluzione verde, un nuovo progetto per l’Africa, una maggiore generosità del Fondo monetario internazionale per i Paesi bisognosi fino a 100 miliardi di dollari, tutto ciò in nome dei “valori” della democrazia in lotta contro le autocrazie degli Erdogan, dei Putin e soprattutto dei Xi Jinping. Questo manicheismo che si presenta inghirlandato dalle migliori intenzioni già solo teoricamente è alquanto malfondato. La democrazia infatti non è in nulla migliore dell’autocrazia perché, come osservava Kant, essa si fonda su un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), quindi tutti che però non sono tutti, ciò che costituisce una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà. La democrazia insomma come la più perfetta forma di dispotismo, quest’ultimo inteso come forma di governo in cui la volontà pubblica viene adoperata dal governante come sua volontà privata6. E siccome qui il governante è il popolo, qual è questa volontà privata popolare? Kant, che pudicamente chiamava gli incipienti stati capitalistici del suo tempo “stati commerciali”, non lo dice ma nel prosieguo della storia si è capito che quella volontà privata non era la volontà generale del popolo sovrano bensì quella particolare della classe capitalistica7. Per un lungo periodo tale classe si è fregiata del titolo altisonante di società cristiano-borghese8. Ma quando in essa è cresciuta come un corpo estraneo la società di massa che ha sradicato e spersonalizzato l’individuo, le incandescenti forze produttive si sono riversate nel nuovo involucro della società capitalistica globale. Molti interpretarono tale accomodamento come un progresso dell’umanità. Ma a ben pensarci la società capitalistica globale non ha costituito un avanzamento né nel regime politico (autocrazia, aristocrazia, democrazia) né nella forma di governo (dispotica o repubblicana), poiché si è venuta caratterizzando come una società tribale planetaria che ha il suo totem nella tecnologia e la cui lingua, cultura, religione e senso di identità ruotano attorno alla silente ma onninvasiva divinità della merce9. Di fronte a tale regresso, né il G7 ma neppure un Consiglio di sicurezza umana sembrano adeguati al compito di trarre fuori l’umanità dal vicolo cieco in cui si è cacciata. La prima cosa da fare sarebbe di mettere l’economia tra parentesi e, senza aspettare la catastrofe, immaginare un mondo che non dipende più dai suoi dettami. Questo potrebbe farlo un consesso mondiale in cui finalmente potrebbero prendere la parola tutti coloro che, condividendo tale presupposto, non sono più disposti a scambiare il principio di realtà con la dittatura di chi spaccia per realtà la propria volontà di dominio. Nella storia ci sono almeno due importanti esempi di tali consessi. Uno è costituito dai Concili che nei primi secoli del Cristianesimo modellarono la dottrina cristiana, l’altro dai Congressi dei partiti che tra Otto e Novecento forgiarono le ideologie moderne. Un Congresso mondiale delle culture dovrebbe decidere se il principio formativo deve essere esclusivamente quello del mettere in comune o quello dell’appropriazione privata e dovrebbe tendere non all’omogeneizzazione, come accade nel dispotismo dell’economia che indebolisce tutte le culture, ma all’unificazione come equilibrio risultante dal loro sviluppo generato dalla più viva emulazione.

 

  1. Monica Ricci Sargentini, Discorso sulla libertà sessuale. E il preside stacca il microfono, «Corriere della sera», 27.6.2021, p. 23. []
  2. National Intelligence Council, Global Trends 2040, Marzo 2021, reperibile online. []
  3. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, 19 giugno 2021, https://www.agensir.it/quotidiano/2021/6/19/conferenza-sul-futuro-delleuropa-strasburgo-oggi-la-prima-assemblea-plenaria-negli-interventi-riferimenti-a-clima-donne-salute-valori-dialogo-giustizia/. []
  4. Paola Severino, Se l’UE si apre alla società civile, «la Repubblica», 28.6.2021, p. 23. []
  5. Conferenza sul futuro dell’Europa: Strasburgo, oggi la prima assemblea plenaria. Negli interventi, riferimenti a clima, donne, salute, valori, dialogo, giustizia, cit. []
  6. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Id., Lo stato di diritto, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti 1973. Benché i testi raccolti in questa silloge siano parziali, la traduzione fattane da Nicolao Merker rimane insuperata rispetto a raccolte posteriori più complete. []
  7. L. Colletti, Lezioni di filosofia politica (1957), Soveria Mannelli, Rubettino 2017. []
  8. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza 19734. []
  9. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021. []

Non son solo canzonette

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 In un’intervista al Fatto Quotidiano1, l’editore Giuseppe Laterza rievoca i suoi studi giovanili di Economia e commercio, scelti perché da marxista figicciotto amendoliano quale era all’epoca, era convinto che bisognasse studiare la «struttura». Nel corso di questi studi, racconta Laterza, «facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: “Ma cosa vuoi, son problemi filosofici…”. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento». Peccato che il pacioso Chiaromonte abbia liquidato così sommariamente il giovane Laterza, perché il punto da lui sollevato era tutt’altro che campato in aria. È vero che Sraffa ha fatto ciò che Laterza dice, ma questo non significa che egli abbia mostrato che il fatto sociale dello sfruttamento del lavoro non esiste. Sarebbe stato come voler nascondere il sole con il setaccio. Ciò che Sraffa ha mostrato è solamente che questo fatto sociale non è la causa economica del profitto. Per Sraffa, infatti, il sovrappiù è una proprietà tecnologica del sistema. Questo però significa che Sraffa fa dell’economia una scienza logicamente rigorosa, ma socialmente e storicamente muta. Che contrappasso, per lui che destabilizzò il logicismo di Wittgenstein, inducendolo alla “svolta linguistica”!2 Visto che l’economia assolve il capitalista, ci dobbiamo buttare allora tutti sul laburismo, come vorrebbe Laterza? Me se si riflette sui tanti autori così meritoriamente pubblicati e tradotti dalla sua casa editrice, dal vecchio Colletti all’inquieto Napoleoni, dall’olimpico Habermas al pugnace Sen, ma ahimé non il filosofico Lukács, si vede che nella realtà odierna, la merce non solo non è divenuta trasparente, mero rapporto tecnologico, come voleva Sraffa, ma si è fatta doppiamente opaca. Infatti, se da un lato lo sfruttamento sociale necessario a produrre il suo supporto oggettuale è stato occultato nel sottosuolo delle delocalizzazioni produttive, dall’altro, quello necessario a produrre il brand, vero fulcro del sistema, è stato nobilitato a prestigioso pseudo-artigianato autonomo. Il sistema, insomma, piuttosto che trasmutarsi in un meccanismo neutro e trasparente, così come voleva l’elegante soluzione di Sraffa, avvolge gli individui in un supplemento di alienazione, che addirittura, alla sua periferia, con il falso brand, si mescola inestricabilmente con il crimine, ovvero con un modo di produzione capitalistico non statuale. In tali condizioni, il dibattito pubblico, appare ben lontano dall’essere quell’arena laburistica accessibile a tutti, in cui si decide la spartizione della «fetta grande dei guadagni». Su di esso, infatti, non pesano solo restrizioni cognitive e pragmatiche, difficilmente sormontabili anche nell’ovattato modello di Habermas, ma ben più profondamente incidono le distorsioni che lo stesso modo di produzione opera, come avvertiva Lukács, sulla relazione tra soggetto e oggetto. Resta dunque il problema del superamento della fatticità reificata del sistema, cioè di quel rapporto puramente empirico e immediato con gli oggetti, funzionale ad un intervento su di essi di tipo calcolistico-strumentale. Una reificazione che, dopo tante illusioni, nutrite dallo stesso Lukács, almeno nella sua prima vita, possiamo dire che tocchi tanto il soggetto estraniato della “borghesia”, quanto il soggetto “proletario” della “presa di coscienza” disalienante. Questo è infatti il dato attuale che da Marcuse, autore quanto mai malcompreso, ai più onesti osservatori contemporanei, un nome per tutti, Luciano Gallino, non possono fare a meno di registrare, e cioè il fatto che la totalità capitalistica si è estesa, erodendo e annullando la posizione del soggetto alternativo, senza per questo irrigidirsi, anzi pervenendo ad una inarrestabile fluidificazione oggettuale. La “fatticità estraniata” si è rivelata quindi più forte della “presa di coscienza”. Questo però non ha pacificato l’essere sociale, né gli ha dato la chiave per l’equa distribuzione del sovrappiù, che invece è divenuta sempre più diseguale. Segno che la giustizia non è da porsi nel momento sovrastrutturale e distributivo del dibattito pubblico, ma in quello strutturale e produttivo del modo di produzione. E così siamo rimandati di nuovo al problema economico, che la soluzione di Sraffa evidentemente non ha affatto chiuso. Non bisogna perciò farla tanto facile, e prendersela, come fa Laterza, a conclusione del suo ragionamento, con il «retaggio marxista» che alimenta in Italia il «pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori»3. Nessuno vuole ammazzare gli imprenditori, ma essi devono pur capire che non sono la soluzione, ma una parte del problema. Se l’economia di Sraffa li assolve, l’alienazione di Hegel, Marx e Lukács non li benedice. Oppure, vogliamo pensare come Gerardo Chiaromonte che, al fondo, sono solo canzonette filosofiche?

  1. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, intervista di Silvia Truzzi, “Il Fatto Quotidiano”, 13.7.2014, p. 18. []
  2. Su questo punto, cfr. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein, and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, Vol. 41, No. 4 (Dec., 2003), pp. 1240-1255 []
  3. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, cit. []

L’altro da sé

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L‘uomo qualunque, scriveva Aldo Moro nel 1945, «non è se stesso, è altri da sé, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto»1. La seconda parte è un ricamo moralistico su una prima parte, però, perfettamente informata al concetto di alienazione. Da dove gli veniva questa nozione, a questo colto cattolico, che si sarebbe poi infranto contro l’inscalfibile corazza calcolistico-strumentale del dominio americano? Comunque, l’uomo qualunque non è morto nel ’48. Fu solo ricacciato nelle viscere della nazione dai partiti “razionali” dell’epoca, ma in questi ultimi vent’anni è riemerso sotto tante maschere, tutte riconducibili all’italiano come uomo alienato, cioè tipo umano capitalistico universale, la cui religione, come vide Gramsci, è stata la filosofia di Benedetto Croce, con il suo “vitale” che richiama sempre lo spirito a quelle «cose sensibilmente sovrasensibili», le merci, la cui accumulazione costituisce l’infelice ma inesausta passione di questo paese.


  1. Contro l’“Uomo qualunque”, in “Studium”, n. 9, 1945, p. 266, ora in A. Moro, Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, a cura di G. Campanini, Studium, Roma 1982, pp. 255-256, cit. in f. b. [Francesco Barbagallo], Ricordo di Luisa Mangoni, «Studi Storici», 4, ottobre-dicembre 2012, anno 54, pp. 755-759, p. 757) []