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Tsipras, l’euro, Lenin e l’egemonia di Gramsci

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Il 73% dei greci che, secondo un sondaggio di neanche un mese fa1, continua ad essere favorevole alla permanenza della Grecia nell’Eurozona, cioè a favore dell’euro, è un fatto che si tende a scacciare come si fa con una mosca noiosa. Eppure è la spia di quell’egemonia di fatto in cui uguali e diseguali, ricchi e poveri, agiati e disagiati continuano a nutrire lo stesso sogno di opulenza, conto in banca e brio social che l’euro promette, coloro che già lo vivono o lo hanno vissuto affinché continui, e coloro che non lo hanno mai vissuto affinché si realizzi. A quanto pare, Syriza ha pure pensato a più o meno confusi piani B, compreso un assalto alla Banca centrale greca degno di un film di Sergio Leone, ma alla fine Tsipras è rimasto nel recinto del “mito europeo”, sforzandosi di far credere di poter trasformare il desiderio di opulenza, conto in banca e brio social in pratiche “virtuose” di ricchezza collettiva, espresse però sempre in euro. Ma la moneta non è un puro significante, di cui si può cambiare a piacimento il riferimento. Essa viene partorita dalle stesse doglie che generano il significato, cioè la struttura dell’economia che fa dell’opulenza, del conto in banca e del brio social delle manifestazioni di superficie di un individualismo profondo, che a sua volta è matrice di quell’assetto economico. Di fronte a questa compatta autoregolazione, Syriza, sin dal suo programma elettorale, ha mimato le movenze del Lenin del 1917, che riteneva che la disciplina burocratica di un’azienda statale come la Posta, assunta a modello per tutta l’economia nazionale, si sarebbe automaticamente rovesciata in una più alta disciplina sociale di tipo comunista2. Ma si sarebbe ormai dovuto comprendere che gli schemi comportamentali dell’egemonia di fatto non sono trasportabili sic et simpliciter nel “nuovo mondo”, le cui nuove abitudini vanno invece prodotte ex novo, con “dialoghi”, ovvero specifici processi di produzione sociale della nuova intersoggettività. Si osserva che la fuoriuscita dall’euro e il ritorno alla dracma era lo stesso obiettivo che si ponevano i liberisti assoluti à la Schäeuble3. Ma una cosa è essere cacciati dall’euro e un’altra è ripudiare l’euro. L’esito referendario, utilizzato senza machiavellismi, avrebbe potuto assumere il valore catartico di una fuoriuscita collettiva dalla bolla cognitiva dell’invidualismo, in grado di fornire l’energia necessaria a prevenire quella “verticalizzazione” del movimento che giustamente ora si stigmatizza4. Ma Tsipras è stato mai veramente interessato a trasformare la massa che esprime passivamente il dato statistico del 73% di favorevoli all’euro, in una collettività di individui che interagiscono attivamente in direzione di nuovi comportamenti che nessuna statistica può ancora prevedere? Sulla scena si affaccia ora Corbyn che, in Inghilterra, nel tentativo di rianimare il Labour Party dal lungo coma blairiano, propone un quantitative easing “per il popolo”5. Ma basta un cambiamento di segno delle vecchie pratiche dell’egemonia di fatto per innescare nuove pratiche di ricchezza sociale? L’impressione è che il semplice cambiamento di segno di tecniche e pratiche dell’egemonia in atto sia l’automatismo di una sinistra, o comunque di un “movimento”, che ha difficoltà ad andare oltre gli schemi rivoluzionari dei padri. Così, il buon Tsipras, con il compromesso firmato invocando Lenin6, ha creduto di dover riprodurre sotto il Partenone gli avanti e indré del grande Ilič, dimenticando la lezione intanto intervenuta dell’egemonia, che dovrebbe essere ormai l’abc di chi è interessato ad “orizzontalizzare” la politica. La posa leninista di Tsipras, invece, ha sprecato una preziosa occasione di passare dai sogni e dalle abitudini dell’inveterata egemonia di fatto, alla presa di coscienza della nuova egemonia produttrice di una realtà radicalmente altra, in grado di superare la matrice individualistica con cui Tsipras invece, in nome di un principio di realtà economica prodotto da quella stessa matrice, è venuto di nuovo a patti. L’obiezione è che il “passaggio” dalla vecchia alla nuova egemonia avrebbe provocato e distribuito solo miseria e privazioni, in uno stato di isolamento della Grecia che sarebbe presto divenuto insostenibile. Ma il compromesso accettato da Tsipras, mentre prolunga l’equivoco dell’eurosogno, procura hic et nunc una ulteriore discesa verso più forti diseguaglianze e crescenti miserie, per quanto compensate dall’acquolina in bocca della “fantasia” individualistica, che promette future risalite di uno zero virgola di prodotto interno lordo. Il risultato, dunque, non cambia, e per di più non innova “tecnicamente” la politica, anzi, ancora una volta, la riduce a quel “gioco autonomo” che alimenta l’estraneità tra governati e governanti, i primi oggetto passivo di decisoni prese altrove, i secondi accomunati dal feticcio dei rapporti di forza. Il no referendario ha offerto a Tsipras l’occasione di essere un politico della nuova egemonia, che agisce non accomodandosi al dato statistico, ma stimolando la base sociale che in esso si riflette a divenire protagonista di un “nuovo gioco” statisticamente non prevedibile. Egli invece ha scelto di essere uno stucchevole epigono di un leninismo così scolastico, se non furbesco, da rovesciarsi in una piatta politica “socialdemocratica”, proprio quella che i turiferari dell’egemonia in atto gli rimproveravano di non sapere incarnare, quando ancora titubava a buttarsi nelle braccia rassicuranti del vecchio che ristagna7.

  1. Grecia, Syriza vola nei sondaggi: se si votasse oggi, avrebbe il 42,5% e maggioranza assoluta []
  2. Lenin, Stato e rivoluzione, p. 25, []
  3. Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  4. Sempre Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 []
  5. J. Corbyn, Invest in our future, 8.7.2015. []
  6. Interview with Alexis Tsipras: “Austerity is a Dead End”, traduzione dell’intervista rilasciata da A. Tsipras il 29 luglio 2015 a Radio Sto Kokkino. []
  7. E. Occorsio, Nouriel Roubini: “Grexit, scampato pericolo, sarebbe stato un disastro e avrebbe contagiato anche Italia e Francia”, “la Repubblica”, 14 luglio 2015. []

Heidegger, la filosofa e il Corriere antigermanico

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Sul Corriere della sera del 31 luglio 2015, a pagina 41, la “Terza pagina”, appare un altro articolo della filosofa Donatella Di Cesare sui Quaderni neri del filosofo crociouncinato, Martin Heidegger. Titolo: Il monito di Heidegger ai tedeschi: «Non piegatevi alla democrazia». Occhiello: Rimase salda la fede del pensatore nella missione mondiale della Germania. La filosofa dichiara in apertura che non le basta il ritornello di un Heidegger hitleriano e antisemita. Lei ritiene doveroso «comprendere quel che è avvenuto in Germania, prima e dopo il 1945». Questa dichiarazione è molto importante, perché fa capire perché il Corriere pubblichi articoli di questo tenore, con l’asettica titolazione redazionale sopra riportata, e in cui si possono leggere espressioni come «l’aggettivo “metafisico” indica la profondità di un antisemitismo a cui è attribuito un rango filosofico». Il fatto è che la filosofia in questa storia non c’entra niente, o meglio, è la foglia di fico di un sordo fronte antigermanico, economico politico e culturale, che non ha il coraggio di affrontare a viso aperto l’odierna Germania eurocratica, e la punzecchia con simili polemiche culturali, in cui vengono fatte passare enormità che in tempi normali non sarebbero degne nemmeno del cestino della carta. Insomma, più che alla filosofa, è al Corriere della sera e a quegli ambienti di cui dicevamo, che importa non tanto capire, ma cercare di contenere la debordante Germania del dopo 1945, un dopo che riguarda soprattutto i nostri giorni. Le prove di questa che si ritiene una astutissima tattica polemica politico-culturale stanno nel contenuto dell’articolo in questione, stilato con il solito sprezzo del ridicolo dalla filosofa “comprendente”, autrice per altro di un altro articolo sul Corriere in cui, guarda caso, dava per morta la filosofia tedesca1. Insomma, la Di Cesare è vox clamantis, ma dietro c’è chi ghigna, pensando di far chissà quale dispetto all’odiata Teutonia. Dicevamo, le prove. La filosofa, infatti, al di là dell’ormai stucchevole antisemitismo, è interessata a far emergere ulteriori contenuti di cui i nuovi Quaderni neri sarebbero una preziosa testiomonianza. Quali sono questi contenuti? Il primo è l’interrogazione di Heidegger circa la «scrupolosa radicalità con cui i tedeschi compiono anche gli errori più eclatanti». La filosofa subito ci rassicura: rispetto a ciò, in Heidegger non c’è critica o ripensamento, poiché «Heidegger fa corpo con il popolo tedesco». Tradotto: i tedeschi non cambiano mai, come dimostra l’ostinazione con cui stanno imponendo l’austerità che ci sta devastando, ma alla quale non possiamo sottrarci se vogliamo continuare a partecipare al gran ballo di società, anche se, come direbbe Berlusconi, ci tocca ballare con la zitella coi baffi. Il secondo contenuto è la denuncia da parte di Heidegger dello «scandalo» non dello sterminio degli ebrei, ma del fatto che alla Germania «è stato impedito di compiere la sua missione nella storia». Per Heidegger, lo scandalo mondiale che minaccerebbe la Germania è «l’incapacità di immergersi nel proprio destino, disprezzando il “mondo” della modernità». Qui la traduzione, anche per colpa di Heidegger, che infila una delle sue frasi a gomitolo pazzo, non è proprio immediata, e bisogna aspettare la fine dell’articolo per coglierne il senso, che intanto provvisoriamente è il seguente: questi tedeschi sono folli, fissati con questa missione mondiale cui li chiamerebbe il loro destino. Il terzo contenuto è la preoccupazione di Heidegger che la Germania perda la propria essenza: secondo la filosofa, «Heidegger incita i tedeschi a non tradire se stessi, a non arrendersi all’occupazione, a non sottomettersi alla “democrazia mondiale”». Anche qui, la traduzione non può che essere provvisoria, ma è abbastanza chiara: questi tedeschi non si sono mai arresi, e sotto sotto non sono affatto “democratici”, perché con la scusa delle “regole” e dei “compiti a casa” tengono il banco tutto per loro. Il quarto contenuto, infine, con cui si chiude l’articolo, chiarisce tutti quelli che precedono. Infatti, la conclusione della filosofica vox clamantis è che il resoconto degli anni tra il 1945 e il 1948 che Heidegger opera nei Quaderni neri, è quello di un Germania «violata, esausta e dissanguata, ma non definitivamente sconfitta, pronta a ritrarsi nel proprio autunno, in attesa che torni la sua ora nella storia. Perché quell’ora verrà. E la Germania non potrà più mancarla». E, infatti, l’ora è giunta, e la Germania la sta cogliendo in pieno, con grande scorno degli ambienti antigermanici di cui dicevamo, ai quali, nella loro pavidità, non sta restando altro che nascondersi dietro i patetici sofismi della “filosofa che vuole capire”.

  1. La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni []

Una storia che potrebbe non cominciare mai

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Elaborare universalmente la propria particolarità. Lo chiamano nazionalismo. Il referendum greco sarebbe espressione di nazionalismo. Roba deteriore. Ma si può davvero pensare che i popoli si dissolvano in una nuvola di regole, parametri e compiti fatti a casa? Si può davvero pensare che la salvezza sia nel fare le riforme? Questa è la pretesa delle cerchie governanti che i media amplificano con voce stentorea. Dov’è la forza di questo discorso da prefetto di disciplina? La forza, secondo alcuni, sta nelle ricchezze improvvise, nelle bolle destinate a sgonfiarsi, nelle strane abbondanze di questi decenni dopati dagli status symbol e da un’opulenza fondata sul nulla. I popoli, in tutti questi anni, si sarebbero fatti corrompere. Erano poveri e dignitosi, ma all’improvviso, si sono scoperti diversi, e ora cercano una strada. Le regole e i parametri, allora, sarebbero la faccia della propria estraneazione. Ma questo discorso funzionerebbe se regole, paramteri e riforme assicurassero ricchezza. Regole e parametri sono invece il regno della miseria, dove pochi gozzovigliano. E, d’altra parte, abbandonare una dignitosa povertà, coi debiti che comporta, non può essere una colpa. Mentre è stupido affidarsi ad una ricchezza che si sgonfia al primo refolo speculativo. Bisognerebbe essere dignitosamente ricchi. È questo che significa quel voler restare nell’euro senza dover fare quegli odiosi compiti a casa? L’euro così non sarebbe più una camicia di forza, ma un moltiplicatore unitario di differenze. Lo sappiamo, oltre alla moneta, ci vorrebbe una fiscalità e una spesa pubblica comuni. E non è un caso che prima sia venuta la moneta. Segno che l’euro non era fatto per fare felici i popoli, che infatti ora fanculeggiano. Come se ne esce? Come possono i popoli ritrovare se stessi, quando altri popoli stanno per perdersi? Perché, come ci fu spiegato, la felicità è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in una volta e simultaneamente1. Così, si credeva di essere andati tanto avanti, ma ci si riscopre ancora nella preistoria. Perché se i popoli sono infelici, è perché hanno appena cominciato a porsi sul piano della storia universale. E le forze produttive sono ben lontane da quell’immenso incremento necessario ad evitare che si socializzi la miseria e tutta la vecchia merda2. Ma come si incrementano queste forze produttive? Se il loro sviluppo comporta la totale espropriazione dell’intera massa dell’umanità, quale condizione della sua rivolta contro chi di esse si è appropriato, l’umanità sarà così fortunata da arrivare un attimo prima che il sistema nel suo insieme non abbia divorato le condizioni della propria sostenibilità? L’ecologia. Ovvero la sensazione che la storia non possa cominciare mai. Che chi se l’è goduta, se l’è goduta, e gli altri, semplice materiale biologico che non ha mai preso forma. Bisognerebbe accellerare. Rendere infinitamente più veloce l’elaborazione degli uomini da parte degli uomini, rispetto all’elaborazione della natura da parte degli uomini. Ma è qui che si è perso il bandolo della matassa. Per questo, da un lato ci sono i banditori delle regole, dall’altro le prèfiche dell’imminente disastro. Laudato si’. Ammuina, o una ironica provvidenza riavvia il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?

  1. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 19722, p. 25 []
  2. Ibidem []

La Grecia all’ultimo miglio

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La Grecia è all’ultimo miglio. Non accadeva da tempo che una forza proveniente dalle viscere dolenti di questa società sedata, si avvicinasse così tanto al restaurato e ben difeso Palazzo d’Inverno. Le rare cronache obiettive raccontano degli spostamenti, ora per ora, da una posizione all’altra degli ufficiali che guidano la marcia, trattare o non trattare, l’incertezza che coglie il leader, i piani per il dopo di una possibile vittoria, le strade da lasciarsi aperte per una ritirata1. Tutto poi sarà raccontato come epico o tragico, ma c’è la coscienza di un passaggio cruciale. La Grecia era il paese dove la faglia aveva provocato in superficie la guerra civile che aveva cristallizzato gli schieramenti. Nei successivi settant’anni, sembrava un rudere evolutivo, completamente oscurato dalle magnifiche sorti e progressive della partita “egemonica”, un colossale equivoco teorico e un sempre più vergognoso opportunismo pratico che ha portato la “moderna” sinistra italiana all’estinzione, e l’“arcaica” sinistra greca a sfidare il capitalismo della Troika che, nelle parole di chi se ne intende, «significa umiliazione e politica neocoloniale»2. Il referendum dirà se la porta di quel Palazzo dovrà aprirsi, per far passare la colonna vittoriosa, oppure se ci dovrà essere un’altra ritirata, più o meno precipitosa, più o meno ordinata. Anche prima di indire il referendum, si sapeva che il sì era maggioritario. Altrimenti, perché chiedere voti alle ultime politiche non per uscire dall’euro, ma per un’“altra Europa”? Ma la “riforma economica”, senza cui non c’è riforma intellettuale e morale, non c’è egemonia, non c’è governo delle classi subalterne, non c’è nulla di tutto quel verbiage di cui ci si è beati nella bonaccia lunga decenni scambiata per rivoluzione, la “riforma economica”, si diceva, ha tanti nemici, dal panico del buon senso immediato (“come farò con 60 € al giorno?”) alla paura di un domani che si avverte non più retto dalla “distinzione” ma dal principio incognito della “cooperazione”. Tutto nell’immediato cospira contro quelli che oggi sono gli eversori, ma che domani, se il loro “taglio” avrà prodotto la “scissione” nella “placenta” che tutti ci contiene, diventeranno coloro che hanno aperto la via a nuove esperienze, nuove pratiche, nuovi rapporti sociali. La Troika sta con il fiato sospeso, e nei suoi esponenti più pragmatici sino all’ultimo cerca di sottrarsi al verdetto. Perché anche un sì è pericoloso. Il sì significherebbe che nell’immediato l’umiliazione e la politica neocoloniale sarebbero totali e spietate, ma l’odio dei popoli diverrebbe non solo inestinguibile, ma anche inconoscibile nelle forme demoniache che potrebbe assumere. Non solo attenti ai vinti, ma anche attenti ai vincitori.

  1. F. Fubini, Il piano parallelo di Varoufakis: una moneta parallela all’euro, “Corriere della sera”, 2.7.2015, p. 3 []
  2. A. Cazzullo, “Atene sbaglia, ma Berlino stia attenta. O scatenerà una rivolta degli spiriti”. Intervista a Mario Monti, “Corriere della sera, 2.7.2015, p. 5 []

L’attrazione fatale

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«Dobbiamo pertanto valutare costi e tempi delle due possibili uscite dalla crsi: abbandonare l’euro preparandosi a fronteggiare il (possibile?) attacco speculativo, ma recuperando il controllo delle nostre sorti […], o pagare il costo delle due (impossibili?) riforme per restare in questa Europa, accettando il degrado coloniale del Paese. Purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Chi lo scrive, Grillo? No, Paolo Savona, ex Banca d’Italia ed ex Confindustria, sul “Sole 24 Ore” di domenica 14 settembre, in un articolo richiamato bensì in prima pagina, ma cui la tremebonda redazione di quel giornale ha dato l’insignificante titolo L’edilizia resta il motore dell’economia italiana, quando invece si tratta di un vero e proprio j’accuse contro i governi degli ultimi vent’anni, in particolare contro l’ultimo, che reitera ciecamente le due riforme che in questi due decenni si sono rivelate «impossibili», lavoro e pubblica amministrazione. Non è che Savona all’improvviso si sia trasformato nel nuovo segretario della Cgil, visto che quella che c’è dorme saporitamente, o sia diventato il paladino dei “fannulloni” pubblici, sfaticati con lo stipendio bloccato a cinque anni fa, ma quel che qui ci interessa non è tanto come la pensa intorno a quei due punti, ma l’affermazione con cui chiude il suo articolo: «purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione». Di che attrazione parla l’economista Savona? Questo cupio dissolvi è un fatto inedito nella storia d’Italia, oppure siamo di fronte ad una pulsione che ciclicamente ritorna? Per rispondere a queste domande bisogna partire da due presupposti. Il primo è che la filosofia non è quella chiacchiera senza la quale il mondo resta tale e quale, ma è l’espressione culturale dei processi politici. Il secondo è che la storia è fatta di costanti che, venendo a mancare certi vincoli, si ripresentano periodicamente sotto mutate spoglie. La premessa è vasta, ma si può arrivare alle conclusioni in poche mosse. C’è stato chi, sulla scorta della dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, ha sostenuto che il nazismo e il comunismo sono stati i due movimenti opposti in cui la filosofia classica tedesca doveva spezzarsi nel suo attingere la realtà. Il primo rappresentava la comprensione unilaterale della figura del padrone, il secondo la comprensione unilaterale della figura del servo1. A parte la schematicità della tesi, chi ha sostenuto ciò, non ha spiegato perché questi due poli della relazione dialettica siano andati incontro a questa separazione. Ma lo stesso Hegel in proposito è assai chiaro. Parlando dell’Europa, ma in realtà della Germania, vista come la vetta dello spirito europeo, egli sostiene che il modo in cui essa si afferma nel mondo è l’appropriazione dell’altro: «all’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»2. Come si vede, per Hegel, l’altro, ovvero il non europeo, ovvero il non germanico, è il molteplice da ridurre all’unità semplice del proprio sé, è il negativo in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé, riconducendolo così all’unità della sintesi dialettica. Nella vicenda della filosofia classica tedesca, allora, che è la vicenda dello spirito europeo, schiavo e padrone si spezzerebbero nelle due unilateralità del nazismo e del comunismo, perché entrambi sono irretiti dall’idea di potenza, intesa appunto come proiezione nell’altro del proprio sé esplosivo. Di qui, allora, non una sintesi dialettica, ma un “compromesso storico” in cui lo schiavo è accomunato in posizione subalterna al padrone, nell’impresa di dominare il mondo. In questo schema non c’è nulla di nuovo, anzi, esso si può ritrovare nella genesi di ogni “moderna nazione industriale”3. Ma qui ci interessa sottolineare che, rispetto a questa derivazione filosofica del nazismo, il fascismo è altra cosa. Come è stato messo in evidenza, esso è la confluenza dell’attivismo nel pensiero dell’attualismo gentiliano, estrema versione dottrinale delle marxiane glosse a Feuerbach, e dell’attivismo nell’azione di Mussolini, suprema incarnazione della tipica pulsione italiana all’eversione individualistica di ogni ordine costituito4. Perché, allora, nonostante la differente genesi, il fascismo subisce l’attrazione fatale del nazismo? Perché non si mette sotto le ali del neutral-pacifismo di Pacelli, e si butta invece in un’alleanza con Hitler, che è un vero e proprio soggiogamento? Perché la tendenza che vince è quella del solipsismo eversivo, al tempo stesso, fatto culturale espresso dalla filosofia gentiliana e fatto caratteriale di un individuo che fa coincidere la propria personalità con la storia5. Che cosa ci dice sull’oggi questo gioco di forze storiche? La fase cruciale è quella del disciplinamento del lavoro che, all’inizio degli anni 2000, scatta in Germania. Maastricht era stato firmato da una decina d’anni, ma era ancora un vulcano in sonno. Con i governi Schröder, la Germania decide di sfruttare ciò che con Maastricht aveva ottenuto, cioè non politica della “piena occupazione”, ma politica della “stabilità dei prezzi” come missione della BCE. È ciò che gli americani fecero alla Germania nel 19476, che diventa ora modello europeo, ma con un significato del tutto differente. Come settant’anni prima, infatti, schiavo e padrone addivengono ad un nuovo “compromesso storico” che, nell’incivilito contesto dell’Unione Europea, ridia alla Germania, non più la rinascita, ma la potenza. Il patto corporativo e “antidialettico” tra operai e capitalisti è il solito appello al subalterno a “farsi carico”. Ma, nelle parole del suo stesso ideatore, il dirigente della Volkswagen Peter Hartz, esso genera «un sistema attraverso il quale i disoccupati vengono disciplinati e puniti»7. È quel che serve, per lucrare il differenziale da buttare nel credito e nelle esportazioni, i cui prezzi però sono ora espressi nella “moneta dell’altro”, in cui dunque si può tornare ad iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Chiedere alla Grecia, per avere conferma di questo moderno totalitarismo, che non prevede più stivali luccicanti ma troike itineranti. E siamo alla «pericolosa e crescente attrazione» di cui parla Paolo Savona. Chi ha scelto Maastricht ha pensato che il “vincolo esterno” fosse l’unico mezzo per raddrizzare il “legno storto” italiano. Ma, com’è noto, la via dell’inferno è lastricata dalle buone intenzioni. Nella processione che si è raccolta dietro le insegne di questo virtuismo azionista, in realtà si sono adunati tutti gli eversori di questo paese. Savona giustamente parla di «élite». Non siamo più alla personalità che assorbe la storia, sino all’esito tragico di appenderla a testa in giù con il proprio corpo martoriato, ma ad oligarchie, a cerchie, a logge più o meno piduistiche che, nel vincolo esterno europeo, hanno trovato lo strumento per dare corso alla storica pulsione eversiva, in una sarabanda di “riforme”, anche solo annunciate, ma bastanti a gettare nel marasma l’ordine repubblicano, nato faticosamente e stentamente dalla Resistenza. Adesso scorgiamo la meta che, con le oneste parole di Paolo Savona, possiamo indicare come un destino di sottosviluppo e degrado coloniale. Il problema però non è solo italiano, ma europeo. Ancora una volta l’Europa si trova sotto il peso di un asse, che non è certo l’asse d’acciaio di sinistra memoria, ma è comunque l’asse della partita distruttiva della potenza, giocata sul terreno della moneta unica, in cui entrano, in posizione subalterna, anche i nuovi arrivati, dai polacchi ai baltici ai nordici dei perfetti welfare, ma minati da demoni neonazisti ricacciati a fatica nel sottosuolo di una rinsecchita ragione pubblica. Un’attrazione fatale che al momento non sembra trovare ostacoli, né nella Francia, debilitata dall’inanità dei suoi enarchi, né nell’Inghilterra, rosa dalla finanziarizzazione che disgusta i popoli del suo regno sempre meno unito. L’Europa è al buio, e nel suo cielo si muovono solo rade stelle giovani e inesperte che non fanno luce.

  1. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, (1978), Torino, Aragno, 2004, p. 196, nota 19, in cui si rifà a G. Fessard De l’actualité historique, Desclée, Paris, 1960, t. I, pp. 130 ss. []
  2. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2004, p. 230. []
  3. Se ne veda la descrizione per la moderna nazione industriale americana, in G. Luraghi, La guerra civile americana, Milano, Rizzoli, 2013 []
  4. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 299 ss. []
  5. A. Del Noce,, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 308. []
  6. M. Donato, Operazione bird dog, “Economia e politica”, rivista on line, 13 settembre 2014. []
  7. P. Hartz, Macht und Ohnmacht, Hamburg, Hoffmann und Campe, 2007, p. 224, cit. in Hartz-Konzept, voce di Wikipedia versione tedesca. []