L’aggressione dell’Iran da parte di Israele invita a riflettere su cos’è la rivoluzione. Lo Stato islamico iraniano deriva non da una conquista o da creazione di frontiere da parte di potenze esterne bensì da uno svolgimento interno della sua storia, ovvero dalla Rivoluzione del 1979 in cui il popolo iraniano riversò le sue molteplici istanze economiche, sociali e culturali, via via poi subordinate alla edificazione di una forma di Stato finalizzata al perseguimento di una politica di potenza regionale alla quale il veicolo della religione islamica assicurava un’eco mondiale. Negli ultimi decenni è emerso il concetto di rivoluzione colorata per riferirsi a moti di piazza per un cambio di governo in nome di maggiore democrazia e sviluppo economico, che in realtà consentono a élite d’opposizione locali in combutta con forze politiche esterne di rovesciare governi legittimi. Il caso di scuola è quello dell’Ucraina dove la prospettiva dell’adesione alla Nato e all’UE ha consentito alle forze interne russofobe di impadronirsi del governo e alle forze esterne che le manovravano di insediarsi ai confini della Russia al fine di condizionarla e, se possibile, di disintegrarla per appropriarsi delle sue ricchezze energetiche e liquidarla in quanto potenza mondiale e centro culturale diverso rispetto alle correnti ideologiche dominanti dell’Occidente euro-americano. Il concetto di rivoluzione colorata è stato utilizzato anche per descrivere le rivoluzioni arabe del 2011, in questo modo però disconoscendo l’autentico moto popolare che le ha caratterizzate, soprattutto in Tunisia ed Egitto, cui nessuna forza interna è riuscita però a dare voce, favorendo così il ritorno delle vecchie classi dirigenti asservite agli interessi dell’Occidente euro-americano oppure semplicemente sfociando nel caos, come in Libia, dove meglio possono prosperare quegli stessi interessi. Tornando all’Iran, il tentativo di suscitare in esso una rivoluzione colorata, strumentalizzando autentiche richieste di libertà nei costumi della vita quotidiana di ampi strati della popolazione iraniana, è sempre fallito e questo spiega il passaggio all’aggressione diretta da parte di Israele, con lo scopo di decapitare dopo Hezbollah e Hamas anche l’Iran che li sosteneva. Se la Rivoluzione iraniana del 1979 si è ingolfata in una politica di potenza regionale, ci si deve interrogare sulla natura della potenza che le si oppone. Israele non è uno Stato nato da una rivoluzione. Esso origina dal fantasma culturale della terra promessa che ha trovato un veicolo in un particolare nazionalismo europeo, il sionismo. Insediatosi privatisticamente in un territorio da secoli retto da laschi governi imperiali, nel corso dei decenni tale nazionalismo vi ha eretto uno Stato di potenza, dotato addirittura dell’arma atomica, con modalità sempre più razzistiche e coloniali che negli ultimi tempi hanno assunto la caratteristica della sostituzione etnica, sia con l’occupazione di ogni possibile territorio da parte dei coloni israeliani sia con lo sterminio di donne e bambini palestinesi. Da ultimo, in combutta con l’Occidente euro-americano, nel cui sistema di dominio mondiale Israele svolge un ruolo essenziale, ci si è spinti a immaginare la deportazione dell’intera popolazione gazawa, ma quanto sin qui riportato basta a dimostrare come la legittimità dello Stato di Israele è paradossalmente minore di quella dello Stato iraniano, anche se la sua forma è democratica rispetto a quella dispotica dell’Iran. Da ciò non deve derivare il venir meno della possibilità che Israele risieda in quelle terre. La storia vive di mille percorsi e di altrettanti fatti compiuti. I palestinesi, ma in generale i popoli del Medio Oriente che non accettano il predominio di Israele, dovrebbero interrogarsi sul fallimento dei loro tentativi di emancipazione, non tutti riconducibili alla disparità delle forze in campo. L’Iran, ad esempio, dovrebbe interrogarsi sui caratteri della sua rivoluzione e capire perché essa, dopo avere liquidato le forze laiche e di classe, alla fine ha finito per fondarsi su un principio teologico. Purtroppo, per quanto se ne sa, non si vedono all’orizzonte nuove forze politiche portatrici di una visione critica su questo punto e quelle esistenti o dipendono da valori esterofili o sono legate alle minoranze interessate ad affrancarsi dallo Stato centrale. In Medio Oriente la critica del principio teologico investe non solo i limiti dei moti di emancipazione popolare ma anche la stabilità delle borghesie arabe del petrolio nonché la stessa Israele dove l’integralismo religioso è parte integrante del governo e forse ormai forza culturale egemone nella società israeliana. Si accennava prima al legame di Israele con l’Occidente euro-americano, di cui Israele è non solo il guardiano in un’area energetica cruciale ma anche l’indispensabile collaboratore di punta in campi decisivi della ricerca scientifica, della tecnologia militare e dello spionaggio. In quest’ultimo campo, si registra ormai una saldatura tra i “metodi” del Mossad e quelli dei servizi segreti ucraini. Il vero avversario dei popoli mediorientali è dunque Israele nella misura in cui esso si collega all’Occidente euro-americano e in particolare agli Stati Uniti, lo Stato che, sin da quando con la guerra civile di metà secolo XIX la nazione americana divenne la nazione yankee, ha fatto della potenza il suo dio al quale votare tutte le proprie risorse materiali e spirituali. Oggi si intravedono le avvisaglie di una nuova guerra civile che potrebbe avere il segno opposto. Ma il processo sarà lungo e dall’esito incerto. Quando questo tempio dell’imperialismo mondiale crollerà, il moto rivoluzionario potrà riprendere il suo corso verso un mondo in cui i rapporti di reciprocità prevarranno su quelli di asservimento e di dominio. In questa luce, la lotta dei popoli mediorientali, pur così contraddittoria e disperata, non sarà stata vana.
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Un guitto cosmico
A che punto siamo? A un punto morto. Quando finirà la guerra? Non domani né dopodomani. Durerà a lungo. Perché più passa il tempo, più ognuno ci trova una scusa per allungarla. Dapprima erano gli Stati Uniti che, soffiando sul fuoco della guerra civile tra Russia e Ucraina, impedivano alla Russia di ricomporre l’area economica ex-sovietica, la costringevano nei confini del regno di Mosca del XVII secolo e impedivano il transito del gas russo verso l’UE così costretta a rivolgersi agli esosi americani per il proprio fabbisogno energetico. Poi la stessa Unione Europea, che indugiava in improbabili piani di riconversioni ecologiche, ha trovato nella guerra l’occasione per rilanciarsi economicamente, puntando al riarmo che dovrebbe anche metterla al riparo da eventuali turbolenze provenienti dagli Stati Uniti in fuga dalla Nato. Infine, la Germania sta cogliendo l’opportunità di ribaltare i risultati della Seconda guerra mondiale, riarmandosi e puntando di nuovo a disgregare la Russia, obiettivo in cui si ricongiunge egemonizzandoli con ucraini e polacchi, secondo lo schema già perseguito dal Terzo Reich. Qui precipitiamo nella notte dei tempi, nel millennio dell’alterno confronto tra Europa cristiano-germanica e l’originaria Rus’ dal cui disfacimento emerge il nome Ucraina, monta la potenza della Confederazione polacco-lituana, ascende il regno di Mosca a Impero zarista sino alla Rivoluzione d’Ottobre che lo sopprime costruendo al suo posto il razionale edificio dell’Unione Sovietica. Che si sia trattato di una costruzione razionale è dimostrato dal suo successo socio-economico. Il comunismo infatti in un ventennio ha trasformato il caos di quell’immensa area in un poderoso sviluppo economico. L’URSS ha poi retto l’urto dell’aggressione tedesca conquistando per contraccolpo Berlino, è divenuta la seconda potenza nucleare del mondo e ha raggiunto per prima lo spazio extraterrestre. Il comunismo dunque, almeno nella sua versione economicistica, ha tenuto fede al suo programma di sviluppo delle forze produttive ma, affidandosi solo a un povero evoluzionismo scientifico, non è riuscito a debellare le forze sedimentate dalla storia, cioè i nazionalismi etnici e l’Ortodossia. Queste forze spirituali vincitrici dello scontro animano ora la geopolitica, cioè la frammentazione dello spazio storico in una molteplicità di dialetti irriducibili. La guerra in Ucraina non finisce perché è in atto questo momento irrazionale, laddove la razionalità non è il disegno provvidenziale né le magnifiche sorti e progressive ma il finalismo delle forme che attraversa la materia in tutti i suoi ordini, dall’inorganico all’organico al sociale. Questa spinta esiste ma non ha nulla di predeterminato né si compie spontaneamente poiché è l’organizzazione del livello superiore cui essa di volta in volta perviene che la spinge a superare la stasi in cui altrimenti ristagnerebbe. Il momento geopolitico in atto è un momento di stasi in cui l’Occidente torna a giocare il ruolo che svolge da un secolo, produrre simulacri di razionalità, il cattolicesimo della “dottrina sociale”, l’americanismo come filosofia della “vita pratica”, l’intelligenza artificiale come “cooperazione assoluta”, allo scopo di prolungare l’agonia del modo di produzione vigente. Non tutto dipende dai modi di produzione. Se tutto dipendesse da loro il comunismo avrebbe già da tempo soppiantato il capitalismo. Ma i modi di produzione si scontrano con il sostrato delle forze spirituali, cioè le spoglie che il finalismo delle forme dissemina nel suo cammino. Esse, assurte a fantasmi della storia, fanno da scudo a un modo di produzione superato, ostacolando l’affermarsi di una nuova spiritualità che, scissa dalla storia, tragga la sua forza dall’immanenza della forma interamente compiuta. C’è solo da mettersi le mani ai capelli al pensiero che il percorso cosmico della natura che diviene trasparente a sé stessa abbia come attore un guitto come Volodymir Zelensky.
Il nuovo Papa
Quando è stato annunciato che il nuovo Papa era il cardinale Prevost, il fragore delle scampanate è stato sopravanzato da un enorme respiro di sollievo alzatosi dai petti dei reazionari di tutto l’orbe terracqueo. Finalmente, si tornava all’ordine. Come non cogliere, infatti, il messaggio di quel nome, Leone XIV? Il papa appena defunto aveva sostenuto che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata». Quale menzogna! Nella più famosa delle sue ottantaquattro encicliche (quasi un grafomane!), con l’appoggio di tutta la dottrina Leone XIII aveva invece dimostrato che «la proprietà privata è sancita dalle leggi umane e divine». E poi, certo, aveva raccomandato la carità cristiana verso gli operai, la cui mercede non deve essere inferiore al loro sostentamento, purché costoro, si intende, siano frugali e di retti costumi. A proposito di retti costumi, anche se qualcuno è già partito in tromba, è sicuro che le domande morbose e insistenti dei media su pedofilia, omosessualità e altri divertimenti di questo basso impero diminuiranno sin quasi a scomparire. Cessato il pericolo rivoluzionario, non è più il caso di rimestare nel torbido, come facevano con il povero Bergoglio, pace all’anima sua. Un’ultima notazione: per la sinistra italiana, europea, mondiale, il tempo della supplenza è finito. Non c’è più un brav’uomo che dal soglio di Pietro occhieggia, affermando quasi per scherzo le cose inaudite che la sinistra non osa più dire. O si ritrova la propria voce, o si muore.
In morte di Papa Francesco
Quando Francesco fu eletto Papa, le aspettative erano che, come annunciava il riferimento al santo di Assisi, egli si concentrasse su una riforma delle strutture economiche e di potere della Chiesa e che non smuovesse niente sul fronte della morale sessuale, nella previsione di una bancarotta del capitalismo che consegnasse alla Chiesa la guida mondiale dei poveri senza dover più combattere la morale libertina di cui il neoliberismo era portatore e contro la quale si era infranto il pontificato di Benedetto XVI. Solo in parte le cose sono andate così, perché Francesco è stato costretto quotidianamente a occuparsi di morale sessuale che era il terreno su cui il neoliberismo lo attaccava ogniqualvolta egli si ergeva a denunciare le sue ingiustizie. Bastava leggere i giornali, in cui le sue intemerate contro il profitto andavano in settima o in ottava pagina, mentre le prime pagine erano occupate dalle denunce dei costumi corrotti di preti e cardinali. Di qui le sue colorite uscite su temi secolari che erano sempre delle concessioni al libertinismo, anche se le giustificava come espressione dell’amore di Dio per tutte le sue creature. La morale secolare è stata dunque il migliore scudo contro le velleità anti-capitalistiche di Francesco il quale, alla fine, ha illuso i poveri, scandalizzato i retrogradi e offerto il pretesto per essere additato come un cripto-marxista. Un Papa dunque intrappolato in un ginepraio di contraddizioni ma deciso a non soccombervi perché ha sempre avuto coscienza della condizione di “nave sballottata” in cui si trova la Chiesa odierna. Ed è questa coscienza che lo avvicina così tanto all’odierna condizione umana, anche se lui non ha avuto nessuna soluzione da proporre che non fosse la testimonianza di una indomita volontà.
L’impasse liberale e la prospettiva rivoluzionaria
Mentre il liberalismo agonizza, il liberismo celebra il suo sabba. Eppure, agli esordi, Adam Smith riusciva a tenere assieme i due estremi. Se da un lato esaltava la divisione del lavoro, dall’altro auspicava che l’atrofia mentale che essa provoca nel lavoratore fosse contrastata da programmi di istruzione pubblica. Oggi la mente del lavoratore è un campo arato dai magnati della rete che fanno e disfano secondo le convenienze i regolamenti che stabiliscono come, quando e quali contenuti essa deve assumere. Le metastasi di questa disumanizzazione si propagano in ogni dove. Si pensi al denaro. Il liberalismo-liberismo dell’economia politica classica partiva dal proverbio che “il denaro fa denaro”, ma nel suo onesto realismo non nascondeva affatto che il denaro è solo il sostituto del lavoro con il cui valore si acquistano tutte le ricchezze che gli infiniti scambi produttivi consentono di accumulare. Nel liberismo della scienza economica che subentra all’economia politica classica, la necessità di occultare questo riferimento umano-sociale fa del denaro, ormai moneta, una delle tante possibili attività nelle quali i risparmiatori possono detenere la loro ricchezza. La scienza economica allora non deve fare altro che scoprire le regole che ne consentano la manipolazione economicamente più redditizia. Questa tendenza feticistica raggiunge il suo culmine nell’odierno capitalismo informatizzato che si propone di strappare allo Stato il monopolio dell’emissione di moneta, salvo esigere che faccia la guerra e imponga i dazi, e magnifica la produzione di criptovalute (bitcoin) ottenute con una vera e propria attività industriale privata basata sulla potenza di calcolo di computer su cui gira la tecnologia blockchain. Le speculazioni monetarie che tale “decentramento” rende possibile, addirittura all’interno della coppia presidenziale che l’altro giorno si è insediata al comando degli Stati Uniti, demoliscono ogni residuo di “ragione” che il liberalismo-liberismo delle origini, con il suo richiamo “umanistico” alla sostanza del lavoro, assicurava al capitalismo. Questo è un chiaro segno di debolezza che però non riesce a suscitare un grande fronte anticapitalistico. Le lotte si svolgono a ranghi sparsi e la loro direzione è usurpata da organizzazioni in cui dilaga l’opportunismo. Le grandi masse che un tempo la “coscienza di classe” trasformava in un esercito potente e disciplinato, giacciono nella sfiducia e nella disillusione che le induce a prestare orecchio ai discorsi falsamente rivoluzionari in cui la nuova destra tecnopatica, sovranista e anarco-capitalista è esperta, tanto quanto lo era quella fascista e nazista del tempo che fu. Eppure, è proprio la riconquista di queste grandi masse alla “politica della ragione” che, ancora una volta, può salvare tutti da un destino di distruzione. Ma come e dove deve avvenire questa riconquista? Lo si deve ammettere a malincuore, ma tutto lascia pensare che l’innesco non possa che essere opera di realtà come la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina della crescita spasmodica. Come in uno specchio in frantumi, tali realtà riflettono moltiplicandolo il mondo cui si oppongono. È l’illusione che il multipolarismo possa essere la soluzione del problema. Ma pretendendo di far valere stratificazioni culturali e ideologiche del passato, il colpo di maglio che possono infliggere può solo suscitare il caos ma non avviare il futuro. Arroganza e disperazione di un capitalismo morente, da un lato, brama di spartirsene le spoglie, dall’altro, questi dunque gli estremi tra cui è stretta la prospettiva rivoluzionaria, il cui bisogno è però dimostrato dall’esistenza di quei milioni di individui che, costretti nell’economicismo della vita quotidiana, non si rassegnano a esso e aspirano a liberarsene. È questo rifiuto ancora prepolitico ma profondamente umano che deve essere raccolto da nuove organizzazioni da cui già traspaia finalmente chiara la finalità della rivoluzione, quella di generare da un popolo sparso un corpo politico in cui non vi siano più le millenarie divisioni tra ricchi e poveri e tra dominanti e dominati.