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Lavoro, parlamento, fascismo dopo il 4 marzo

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A volte, porsi domande lunari, serve ad afferrare più saldamente la realtà effettiva. E, dunque, a che punto sono le sorti del lavoro non alienato nel Parlamento appena uscito dalle elezioni del 4 marzo? Nel precedente Parlamento, c’era una grande area “riformista”, in cui si è accettato per qualche decennio che il lavoro venisse “riformato” per ”ridurre il danno” (“lo facciamo noi delicatamente, prima che lo faccia la destra brutalmente”), area che, sotto la pressione della crisi, si è scissa in una parte maggioritaria, tenuta al guinzaglio dal vasto raggruppamento liberista, che aveva in Alfano il suo cavallo di Troia, e in una parte minoritaria che, prima con timide protestazioni verbali contro il Job Act, poi con la scissione di LeU, si è venuta via via caratterizzando in senso laburista, sino al tardivo incontro elettorale di Grasso con Corbyn. Adesso bisogna aggiornare la mappa e anche la terminologia.

Dal voto è uscita l’area del centrodestra egemonizzato dalla Lega, che, al fine del mantenimento dell’ordine esistente, riconosce al lavoro la modesta quota parte utile alla sua riproduzione, ivi compreso un certo consumo affluente aggiornato al clima penitenziale dell’austerity, quest’ultima per altro contestata in senso sovranista, fra i mugugni dell’area euro-popolare di cui il Berlusconi redivivo si fa garante. Al capitale tocca, dunque, la grossa quota parte della flat tax, e al lavoro viene riconosciuto il risarcimento salariale differito dell’abolizione della riforma Fornero, più qualche mancetta in busta paga “per sostenere la domanda”. Questo non è populismo, ma il riconoscimento “corporativo” del lavoro, nel quadro di una dialettica nella quale il capitale immodificabilmente comanda su lavoro, soprattutto nei periodi di crisi, come accadde negli anni Venti del secolo scorso, dove il comando divenne dittatura politica, cioè fascismo.

Dal 4 marzo, è uscita poi l’area del lavoro “subalterno”, che nel precedente Parlamento era intestato ai modi civilizzati del riformismo. Quest’area adesso è ristretta al gruppo renziano, cui sta venendo in soccorso il focoso Calenda, ed è collegato per mille fili al liberismo europeistico di cui la Commissione di Bruxelles è il “consiglio di amministrazione”, che si muove su input della BCE ecc. ecc. In quest’area, il comando del capitale sul lavoro è altrettanto ferreo, ma viene a mancare il riconoscimento “corporativo”, poiché il capitale, avvolto nella spirale globalista, dove meglio si ossigena la sua bionda chioma guerriera, non tollera vincoli di sorta, tanto meno “corporativi”. Tecnicamente, questo è il fascismo “bianco”. Bianco perché, a differenza di quanto accade nella dialettica “corporativa” tra capitale e lavoro, non c’è più l’allusione al fascismo storico. Fascismo perché, secondo il suo significato essenziale, forgiato dalla storia negli anni Venti del secolo scorso, è fascista il dominio incontrastato, cioè dittatoriale, del capitale sul lavoro. Un significato storico, dunque, che è divenuto tecnico, dal momento che la dittatura del capitale non ha più bisogno di iscriversi nella sovrastruttura politica, sospendendo il parlamentarismo, ma si può esercitare semplicemente nella struttura, liquefacendo il lavoro, o tecnologicamente (info-robotica) o socialmente (delocalizzazioni).

A questa liquefazione del lavoro, sia in quanto lavoro differito nell’info-robotica, sia come sparizione nel sottosuolo infernale delle delocalizzaizoni, si richiama, con una fascinazione al limite dell’incanto magico, l’area del non lavoro, intestata agli allucinati visionari del M5S. Qui, un cattivo realismo (non “il capitale, per riprodursi, sta uccidendo il lavoro”, ma “il lavoro è morto”) diviene la giustificazione per una richiesta redistributiva, il reddito di cittadinanza, che, fatti due conti, al capitale conviene, eccome, dal momento che è assai meno costoso del Welfare, e socialmente, frantumando ancora di più le connessioni sociali, rende ancora più vulnerabile il lavoro, ascrivendolo al precario destino dell’individuo ridotto ad atomo consumistico austericizzato. L’area del non lavoro, dunque, propala l’enorme mistificazione grillo-casaleggiesca secondo la quale, l’accresciuta dittatura del capitale sul lavoro viene fatta passare per fine del lavoro. Non un momento storico della lotta di classe, ma un dato di fatto che la tecnologia entificata e la società naturalizzata incorporano nel percorso evolutivo della specie. Come contestare l’evoluzione naturale, quando per altro il reddito di cittadinanza si sposa facilmente con un sostrato storico assistenzialistico-clientelare, solo marginalmente attinto in passato dal “salto di civiltà” del lavoro classicamente alienato? Su questo, per altro, si appunta la critica di coloro che, dal fronte del lavoro “subalterno”, contrappongono il “lavoro” all’“assistenzialismo”, salvo poi liquefare il lavoro con il Job Act. Ma queste sono schermaglie dialettiche di poco conto.

Per completare il quadro, resta da citare, nel nuovo Parlamento, la sparuta area laburista, rappresentata dai naufraghi di Liberi e Uguali, che sono ritornati a riconsiderare la dura realtà storica della guerra del capitale contro il lavoro, ma senza fuoriuscire dall’illusione che, concertando concertando, il bastone capitalistico di oggi diventerà la carota socialista di domani.

Dunque, lavoro corporativo, lavoro subalterno, non lavoro, lavoro laburista, questo lo spettro delle posizioni presenti nel nuovo Parlamento, che si caratterizza perciò per un approfondimento della dittatura del capitale rispetto al Parlamento uscente, e questo proprio quando si celebra la fuoriuscita dalla crisi, a dimostrazione che le crisi si risolvono sempre “a destra”, mentre è lo sviluppo che consente virate “a sinistra”, verso cioè l’affermazione del lavoro come strumento per far fiorire l’essenza umana. Un punto che, almeno strategicamente, dovrebbe tornare al centro di una sinistra dalla ritrovata virtù, rimandando la tattica a qualche genio dell’azione prodigato da una favorevole fortuna.

Il coro greco della tecnologia onnipotente

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Davide Casaleggio ci informa che «la velocità con cui si sta evolvendo la tecnologia è impressionante: il problema per la società è proprio questo. Non abbiamo mai dovuto affrontare uno stravolgimento cosi repentino e massiccio. Lo shock più forte sarà nel mondo del lavoro. Avremo milioni di disoccupati in tutto il mondo perché ci saranno software e robot intelligenti molto più efficienti. Certo: ci saranno nuove esigenze, nuove competenze saranno richieste, ma un’intera generazione di lavoratori rischia di essere esclusa da un giorno all’altro perché non saranno più necessari e non potranno riadattarsi, nel giro di così poco tempo, per le nuove mansioni di cui ci sarà bisogno»1.

Purtroppo, questa visione della tecnica come potenza inarrestabile non è solo di questo imprenditore del consenso che, desideroso com’è di espugnare un Palazzo Chigi sempre peggio presidiato, non esita a promettere il miraggio del reddito di cittadinanza. Se si escludono i balbettii della destra, a sinistra si odono accenti simili, quando si constata che la nuova economia delle macchine intelligenti, se vive di poco lavoro, crea però una nuova classe di imprenditori e investitori super ricchi. E, allora, se «le nuove tecnologie portano con sé un aumento della disoccupazione e della disuguaglianza, e se la tendenza è che i giganti digitali decuplichino i profitti con un decimo dei dipendenti, solo la tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l’economia»2.

Come si vede, fine del lavoro, avanzata travolgente della tecnica, società robotizzata, disuguaglianze crescenti, reddito minimo o di cittadinanza, sono tutti temi che trapassano l’uno nell’altro e dissolvono confini politici e distinzioni culturali. Di più, la sinistra si fa forte di vedere nel M5S il sintomo del cambiamento epocale, ma finisce per parlare il linguaggio del sintomo.

In questa discussione su un futuro che la dura condizione presente rende ancora più nevrotica, prendono corpo allora vaticinii circa un mondo prossimo venturo in cui le decisioni verranno prese da intelligenze esterne alla specie umana, che non sarà più in grado di comprendere i motivi o le catene di ragionamenti che le hanno determinate3. Ma è davvero pensabile che il mondo decisionale diventerà per noi opaco, e che ci fideremo di quello che faranno le macchine per noi fino a che non avremo la più pallida idea di ciò che hanno in serbo per la specie umana? È realistica la prospettiva che il padrone, delegando sempre più lavoro al servo tecnologico, in realtà diventi sempre più dipendente da lui e incapace di svolgere il lavoro da sé, producendo così un ribaltamento del rapporto tale che il padrone si subordina e il vero padrone diventa il servo?

Già il fatto stesso che si evochi la dialettica hegeliana di servo e padrone, mostra che la questione non è la tecnica, ma la sfida politica posta da una società neo-signorile, in cui il lavoro morto delle macchine artificialmente intelligenti alimenta una rinata classe schiavistica che, per mantenere il proprio dominio, concede volentieri alla massa esclusa dalla produzione viva il panem del reddito di cittadinanza o minimo che dir si voglia, e i circenses di una società del consumo degradata però a merci vendute a un costo marginale spesso vicino a zero.

Il rimedio, allora, non può consistere nella spoliazione dei giganti digitali per ricavarne una illusoria redistribuzione di ricchezza, un po’ l’equivalente della parcellizzazione dei grandi feudi, per la quale si batté nella prima metà del secolo scorso l’agonizzante mondo contadino, ma nel lottare contro un dominio politico riformulato in chiave neo-schiavistica, da cui, se non contrastato, non potrà che derivare una nuova glaciazione sociale, analoga a quella che colpì il colosso imperiale romano.

E nella scelta di questa lotta politica, che rientra pienamente nell’ispirazione culturale della sinistra, cui il M5S è estraneo, prigioniero com’è di una corta cultura che si esprime in un infantile fantapolitichese, la tecnica non diventa affatto un nemico da cui guardarsi, ma un alleato di cui giovarsi. È un nemico se si parte dal presupposto che la battaglia contro la nuova società signorile alle viste è persa in partenza. Allora, avanzerà inarrestabile l’automazione, ovvero l’eliminazione della presenza umana dai processi produttivi, che confermerà la profezia dell’inevitabilità dell’avvento della nuova società signorile, cui non resterà che acconciarsi. Se, al contrario, si giudica che quella lotta è aperta, e ci si attrezza politicamente per combatterla, allora avanzerà non l’automazione, ma l’interazione tra gli uomini e le macchine4, al cui centro non starà il profitto, ma la soddisfazione di bisogni la cui quantità e qualità dipenderà dal processo interattivo stesso. E qui ci si potrà approssimare a quella onniproduttività che Marx ed Engels espressero con l’ideale dell’individuo che la mattina va a caccia, il pomeriggio pesca, la sera alleva il bestiame, e dopo pranzo critica, cosí come gli vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico5.

A Mark Zuckerberg, cui piace tanto atteggiarsi, perfino nella pettinatura, a novello Cesare Augusto, e che rivendica orgogliosamente il proprio status di capitalista, ivi compreso il diritto di eludere le tasse, bisogna dunque strappare non i profitti, ma il comando sociale impugnato, assieme ai Bezos, Page, Gates, Jobs, e tutto il corteggio di questi nuovi dei, reificando la tecnica, della cui oggettiva e inarrestabile potenza il coro greco di filosofi, sociologi e futurologi, vuole convincerci.

  1. D. Casaleggio, “Noi M5S come Netflix. Il candidato premier? In autunno il nome”, Corriere della sera, 3 aprile 2017, p. 6. []
  2. N. Rosa, “Il lavoro nell’era dei robot”, 3 aprile 2017, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=28517 []
  3. A. Moroni, “Facebook, Intelligenza artificiale e punto di singolarità”, http://www.angelomoroni.com/2016/01/18/facebook-intelligenza-artificiale-vicina/ []
  4. J. Lojkine, J.-L. Maletras, “Faut-il avoir peur du numérique?”, l’Humanité, 17 maggio 2016, p. 12. []
  5. K. Marx, F. Engles, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 24. []

Populismo 2

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In risposta a dei precedenti interventi di McCormick e di Del Savio e Mameli sul populismo, Nadia Urbinati rileva l’ambiguità del termine ed esprime tutta la sua apprensione per il pericolo che il populismo fa correre alla democrazia rappresentativa. Che il termine sia ambiguo, c’è poco da fare, lo si usa, e allora bisogna pur vedere che significa, magari osservando cosa fanno coloro che imputano il populismo e coloro che sono accusati di populismo. Preoccuparsi poi per la democrazia rappresentativa è un bene. In mancanza di meglio, è bene tenersela stretta. Ma se la democrazia rappresentativa deve servire a far comandare i pescecani della Morgan Stanley, per i quali le Costituzioni antifasciste dei Paesi dell’Europa mediterranea sono un ostacolo alla completa glorificazione del capitale, beh, questi antipopulisti sono peggio della toppa sul buco. Il problema vero è come determinare un effettivo cambio di potere nella società, ovvero il capitale che non comandi più sul lavoro. Occupy Wall Street ci ha provato, ma è stata sfiancata a manganellate. Il populismo ci può riuscire? Sta nelle sue finalità? Vediamo. Grillo vuole dare addosso alle banche, per far comandare la piccola e media impresa. La piccola e media impresa fa parte dei subalterni o no? Culturalmente, forse sì, spesso sono degli ex operai divenuti padroncini, ma la loro aspirazione è a staccarsi da quella condizione per andare a comandare capitalisticamente. Quindi, Grillo e soprattutto Casaleggio, al quale danno fastidio coloro che sono «ideologicamente connotati», ciò che vogliono è una ridistribuzione del potere dentro l’attuale assetto sociale. Per ottenere questo, a loro basta e avanza un rivolgimento politico, cioè l’azzeramento dell’attuale classe politica e la sostituzione con un’altra più sensibile agli interessi di un segmento meno “nobile”, meno “titolato” del capitale. Formalmente, questo lo intendono ottenere con un po’ meno di democrazia rappresentativa e con un po’ più di democrazia cosiddetta “diretta”, per la quale la rete, con i suoi tempi e modi spontaneamente autoritari, si presta meravigliosamente. A parte il velleitarismo di questo programma, la situazione non cambierà non solo per la vecchia classe operaia residuale, non solo per i nuovi lavoratori del precariato più o meno cognitivo, ma soprattutto per la nuova e sempre più estesa massa di giovani donne e giovani uomini descolarizzati e disoccupati. Per loro ci sarà qualche mancia, come il cosidetto “reddito di cittadinanza”, magari realizzato licenziando un po’ di statali, vil razza dannata. Una prospettiva di indigenza per tutti. Naturalmente, la miseria del populismo non cade dal cielo. È l’espressione di un momento storico, in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono completamente sbilanciati a favore del primo. I subalterni sono perciò un esercito in sfacelo, e non meraviglia che abili capitani di ventura ne ottengano il consenso elettorale da usare per le loro lotte tese a ridistribuire gli interessi dentro l’attuale configurazione di potere. La colpa più grave del populismo non è perciò di attentare alla democrazia rappresentativa, ma di perpetuare la subalternità dei subalterni. Questo è un danno non solo per i subalterni, ma per l’intera società, perché dissipa energie umane che potrebbero rinnovare la condizione di tutti, anche dei pescecani promossi dalla Morgan Stanley, che vanno avanti sniffando cocaina e stuprando bambini delle periferie del mondo.