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Ecco com’è la nuova religione della merce

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La religione della merce sembra una bubbola intellettuale, ma della sua esistenza la realtà quotidiana offre prove a tutte le latitudini. In India, il primo ministro indiano Narendra Modi è determinato a mobilizzare l’oro dei principali templi induisti, che secondo le stime ammonterebbe a circa 2.500 tonnellate delle 20.000 circa in possesso di privati1. Oro inoperoso, secondo i teorici della teologia mercantile, e il governo Modi vuole vederlo usato per la moderna religione dei commerci e degli investimenti. Da migliaia di anni la società indù dona quest’oro ai templi, che lo amministrano attraverso i loro fondi. Di solito, mentre i fedeli si accalcano per protendere offerte di fiori e dolci verso i loro idoli di pietra, fuori le autorità del tempio vendono all’asta i gioielli donati, per raccogliere denaro da destinare a scopi caritatevoli. La moderna religione della merce non fa la carità ma concede degli interessi. Il ministro dell’Economia indiano, sua eccellenza il teologo Jayant Sinha, parlando nel linguaggio senza fronzoli di questa nuova religione immanente, si dice sicuro che non è  un problema di fiducia nel governo, ma di logica commerciale: “riguardo all’interesse è uno dei classici casi in cui bisogna trovare la percentuale giusta”. Questa nuova religione, tanto anonima quanto persuasiva, fa breccia anche nei più ferventi fedeli della vecchia religione dell’oro inoperoso. Narendra Murari Rane, presidente del fondo del tempio di Ganesh, la divinità con la testa di elefante, dice che aspetta di vedere se il Governo offrirà condizioni favorevoli per chi depositerà l’oro nelle banche. “Lo prenderemo in considerazione”, dice a proposito del piano. “Se il risultato è migliore delle nostre aste, forse sì. Possiamo prenderlo in considerazione solo se i profitti sono più alti”. Ecco che già il tempio di Ganesh si svuota, rimpiazzato da quello del Profitto, la divinità senza testa ma dagli infiniti e invisibili tentacoli. Infatti, se l’oro inoperoso, custodito nei forzieri dei templi indù, serviva a fare dei singoli atti di carità, trasferito nei caveau bancari, servirà a speculare sulla soia, comprare armi e anche fare la carità. Così, i nuovi Narendra Murari Rane non saranno più opachi amministratori dell’arcaico Ganesh, ma completeranno la loro metamorfosi in scintillanti sacerdoti dello Sfrenato Movimento, che renderà puramente esornative le offerte dei fedeli, dal momento che il Profitto stillerà interessi da tutti i lati. Come le religioni che soppianta, la religione della merce non è solo una religione, ma anche un regime politico, anzi, non esisterebbe se non avesse l’appoggio del braccio politico secolare. Come al solito, sono i teologi delle banche a svelare l’arcano. In un suo report sull’Italia, Daniele Antonucci, teologo analista capo per il Sud Europa della Morgan Stanley, sviscerando i dati con l’acuminato puntatore del suo desktop pc hexa core, pronostica che l’economia italiana avrà nell’immediato futuro la migliore performance fra le confraternite europee, e ciò non solo per le riforme economiche intraprese dagli ultimi fervorosi governi, specie da quello in carica, ma anche per le riforme istituzionali da essi operate. Infatti, come si sottolinea nel report, tali modifiche liturgiche sono una “base altrettanto importante per una più rapida e certa attuazione delle misure economiche”2. Solo dei miscredenti potrebbero sostenere che la democratura di cui tanto si dibatte, è la base dell’odierna dittatura economica. Invece, è solo la religione della merce che stende suadente il suo velo su uomini e cose, trasfigurandoli in una nuova e onnicomprensiva realtà: “per ora le piazze di Atene sono vuote, ma l’accordo (riservato) da 500 milioni che il governo ha concluso per le navi da guerra americane P-3B Orion ha un significato preciso: Tsipras spende in armamenti più del doppio di quanto impieghi contro la ‘crisi umanitaria’ perché non è certo di avere la fedeltà dell’esercito, quindi intende comprarsela”3. Rapida, certa e riservata, ecco com’è la nuova religione della merce, che dice messa voltando le spalle ai fedeli e alzando in cielo un mobile zecchino d’oro raggiante, perché tutti capiscano che è il momento di scambiarsi un pacchetto di oil swaps.

  1. E. Barry, L’ultima sfida di Modi “Il tesoro della dea Kali nelle casse dell’India”, “la Repubblica”, 23 aprile 2015, p. 20 []
  2. E. Occorsio, Morgan Stanley promuove l’Italia: “Sarà la sorpresa dell’Eurozona”, “la Repubblica”, 23 aprile 2015, p. 16 []
  3. F. Fubini, Atene a rischio uscita piano Draghi per l’euro blindare le banche e cessione di sovranità, “la Repubblica”, 24 aprile 2015, p. 27 []

Populismo 2

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In risposta a dei precedenti interventi di McCormick e di Del Savio e Mameli sul populismo, Nadia Urbinati rileva l’ambiguità del termine ed esprime tutta la sua apprensione per il pericolo che il populismo fa correre alla democrazia rappresentativa. Che il termine sia ambiguo, c’è poco da fare, lo si usa, e allora bisogna pur vedere che significa, magari osservando cosa fanno coloro che imputano il populismo e coloro che sono accusati di populismo. Preoccuparsi poi per la democrazia rappresentativa è un bene. In mancanza di meglio, è bene tenersela stretta. Ma se la democrazia rappresentativa deve servire a far comandare i pescecani della Morgan Stanley, per i quali le Costituzioni antifasciste dei Paesi dell’Europa mediterranea sono un ostacolo alla completa glorificazione del capitale, beh, questi antipopulisti sono peggio della toppa sul buco. Il problema vero è come determinare un effettivo cambio di potere nella società, ovvero il capitale che non comandi più sul lavoro. Occupy Wall Street ci ha provato, ma è stata sfiancata a manganellate. Il populismo ci può riuscire? Sta nelle sue finalità? Vediamo. Grillo vuole dare addosso alle banche, per far comandare la piccola e media impresa. La piccola e media impresa fa parte dei subalterni o no? Culturalmente, forse sì, spesso sono degli ex operai divenuti padroncini, ma la loro aspirazione è a staccarsi da quella condizione per andare a comandare capitalisticamente. Quindi, Grillo e soprattutto Casaleggio, al quale danno fastidio coloro che sono «ideologicamente connotati», ciò che vogliono è una ridistribuzione del potere dentro l’attuale assetto sociale. Per ottenere questo, a loro basta e avanza un rivolgimento politico, cioè l’azzeramento dell’attuale classe politica e la sostituzione con un’altra più sensibile agli interessi di un segmento meno “nobile”, meno “titolato” del capitale. Formalmente, questo lo intendono ottenere con un po’ meno di democrazia rappresentativa e con un po’ più di democrazia cosiddetta “diretta”, per la quale la rete, con i suoi tempi e modi spontaneamente autoritari, si presta meravigliosamente. A parte il velleitarismo di questo programma, la situazione non cambierà non solo per la vecchia classe operaia residuale, non solo per i nuovi lavoratori del precariato più o meno cognitivo, ma soprattutto per la nuova e sempre più estesa massa di giovani donne e giovani uomini descolarizzati e disoccupati. Per loro ci sarà qualche mancia, come il cosidetto “reddito di cittadinanza”, magari realizzato licenziando un po’ di statali, vil razza dannata. Una prospettiva di indigenza per tutti. Naturalmente, la miseria del populismo non cade dal cielo. È l’espressione di un momento storico, in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono completamente sbilanciati a favore del primo. I subalterni sono perciò un esercito in sfacelo, e non meraviglia che abili capitani di ventura ne ottengano il consenso elettorale da usare per le loro lotte tese a ridistribuire gli interessi dentro l’attuale configurazione di potere. La colpa più grave del populismo non è perciò di attentare alla democrazia rappresentativa, ma di perpetuare la subalternità dei subalterni. Questo è un danno non solo per i subalterni, ma per l’intera società, perché dissipa energie umane che potrebbero rinnovare la condizione di tutti, anche dei pescecani promossi dalla Morgan Stanley, che vanno avanti sniffando cocaina e stuprando bambini delle periferie del mondo.