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Caracas e le avventure dell’egemonia

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Compito del dibattito democratico è far deragliare il discorso dal binario morto della chiacchiera. È quanto sta accadendo in Venezuela, purtroppo in forme caotiche e disordinate. La convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, in base all’articolo 347 della Costituzione vigente, sarebbe dovuta avvenire molto prima che la situazione degenerasse in scontri di piazza e atti di forza, anche per non lasciare spazio ai “mediatori”, vere volpi nel pollaio, e soprattutto per non caratterizzre la convocazione come un espediente difensivo. Ma la frittata è ormai fatta, e si può solo trarre l’insegnamento che, quando si esita ad usare radicalmente i meccanismi democratici, si finisce sempre in un vicolo cieco. La caduta del prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere un’opportunità. Era chiaro che la petroeconomia redistributiva non poteva più essere portata avanti. Se si volevano salvaguardare le misure controegemoniche intanto introdotte nel ventennio precedente, dal “potere popolare” agli “interventi sociali”, e fare piazza pulita delle distorsioni insite nella natura stessa della petroeconomia, dalla corruzione alla “boliborghesia”, bisognava allora procedere prontamente, proprio con un richiamo legittimamente costituzionale del potere costituente, ad una fase nuova, in cui l’economia veniva ulteriormente socializzata, ovvero diversificata, con misure controegemoniche più avanzate, da scrivere nella nuova Costituzione. C’era il rischio di perdere tutto, ma c’era la possibilità di fare un passo avanti. Adesso, il sospetto del dispotismo aleggia su tutta la vicenda, a conferma che la controegemonia è un treno velocissimo che va assecondato attimo per attimo, altrimenti scatta il rosso del giacobinismo. Si può solo sperare che l’inventiva di chi sta ancora azionando le leve, riesca a sincronizzare i movimenti. In questo senso, sarebbe cosa opportuna che, qualora la nuova Assemblea costituente si insediasse e riuscisse a portare avanti felicemente i suoi lavori, i nuovi costituenti non dimenticassero di formalizzare che il contenuto normativo dell’articolo 347 è inviolabile anche per la nuova Costituzione. Infatti, il successivo art. 349 statuisce che «Il Presidente della Repubblica non può opporsi alla nuova Costituzione». Se, perciò, nella Costituente si formasse una maggioranza per eliminare il potere costituente dalla nuova Costituzione, nessuno potrebbe più richiamarsi ad esso in seguito, e ci sarebbe una caduta all’indietro irreparabile, nel binario morto della vecchia chiacchiera egemonica. Altri contenuti, inoltre, non puramente procedurali, andrebbero anche dichiarati come irreversibili, ma questo dipende dai rapporti di forza. Tutto quanto accade a Caracas, comunque, è assai più avanzato di quanto si è visto in quest’ultimo decennio in America latina. Infatti, in Argentina, nonostante lo shock del 2001, e gli elementi di socialità controegemonica da esso sprigionati, non si riesce a venir fuori dal pendolo frustrante tra (residuo) peronismo e ritorni di “reazione borghese”. E, in Brasile, tutta la panoplia dei meccanismi legali dell’egemonia in atto sono serviti a far fuori la presidentessa eletta, con l’unica alternativa di scontri di piazza per fortuna non avveratisi. Il che significa che nel decennio di Lula non si è fatto alcun serio lavoro controegemonico, a cui appigliarsi nel momento della risacca dell’egemonia in atto. C’è la resistenza accanita di Cuba, che stava per cadere nella trappola tesagli da quella volpe di Obama1, e che paradossalmente può ritornare sui propri errori grazie alle nuove “chiusure” di Trump, un presidente “politico” che, non essendo più disposto a leccare il culo alla globalizzazione “a prescindere”, riporta in auge provvidenziali (per la controegemonia) stilemi ideologici del passato. L’egemonia, insomma, vive i suoi bei giorni nell’emisfero americano, mentre in Europa langue, tra la protervia dell’egemonia in atto – il cinismo “socialdemocratico” della Merkel, la decrepita arroganza della May, il neobonapartismo di Macron, il cesarismo plurale di Renzi-Grillo-Berlusconi; e l’impotenza della controegemonia – l’assalto fallito di Corbyn, l’agitarsi teatrale di Mélenchon, il miserevole riallineamento di Syriza, il caos spagnolo, l’inedia italiana.

  1. Federico Rampini, su “la Repubblica” del 16 giugno 2017, spiegava come meglio non si può il senso delle “aperture” obamiane: «oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori» []

Maggioritario o proporzionale: il linguaggio della verità

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Un auspicio ragionevole sembrava quello che la prossima legge elettorale fosse quanto più proporzionale è possibile, in modo da rimettere in sintonia sistema elettorale e rappresentanza di classe, unico modo per ridare vita ai partiti, rendendo facile all’elettore distinguere, nelle loro sfumature, tra partiti votati a gestire la macchina produttiva esistente, e partiti che si prefiggono di cambiarla. Ma mai essere ragionevoli, perché si corre il rischio di essere stupidi. La realtà infatti si è incaricata di mostrare che i più sfegatati adepti del proporzionale sono Renzi e Berlusconi, mentre la galassia della sinistra è insidiata dal richiamo delle sirene della “coalizione”. Che dire? La borghesia, anche quella italiana, così provinciale e affaristica, mostra di avere sempre i riflessi più pronti di un rintronato proletariato, imbevuto di falsi discorsi sulla sparizione della classe operaia, sulla morte del lavoro ad opera dell’automazione, sulla necessità del reddito di cittadinanza (leggi: sudditanza), e via degradando verso una totale mancanza di una chiara cultura di classe. È forse morto il plusvalore? Basterebbe rispondere a questa domanda, e tutto quel ciarpame sociologistico a cinque stelle svanirebbe di colpo. Ma l’argomento del giorno resta la legge elettorale, con cui chi tiene l’anello della catena saldamente nelle sue mani cerca di costruirsi un apparato legale per mettere fuori gioco in modo formalmente corretto ogni disegno di porre fine alla crisi economica ormai decennale, andando oltre il modo di produzione capitalistico. Questa è la posta in gioco. Nel ’23-’24, la stabilizzazione fu ottenuta con una legge maggioritaria, la legge Acerbo, supportata dal manganello. La società fu militarizzata, e tutto ciò si autoproclamò fascismo. Oggi la militarizzazione a bastonate non è possibile, ma esiste l’infinitamente più potente obbligo autoimposto del consumo, pur con i redditi che si sfarinano. E poi c’è il bastone del debito, da agitare quando si smantella il Welfare. È un ritorno accresciuto di fascismo che, lo si sarebbe ormai dovuto comprendere, è la tendenza che il capitalismo assume ogniqualvolta l’intensificazione dell’estrazione di plusvalore suscita crescenti resistenze oggettive e soggettive. Resta il fatto che, nel 1924, pur con il manganello Acerbo, i partiti di sinistra riuscirono a far eleggere una sessantina di deputati, diciannove per l’esattezza il solo Partito comunista di Gramsci e Bordiga. Questo per dire che è sciocco impiccarsi alle formule elettorali. L’identità, cioà la corretta declinazione di classe del partito, la si può coltivare sia con il proporzionale, che con il maggioritario. Bisogna solo scegliere il linguaggio della verità e della credibilità. Due virtù che, dai tempi di Gramsci e Bordiga, la sinistra ha smarrito da tempo nel calderone delle coalizioni, Prodi, e nello sfavillio delle chiacchiere televisive, Bertinotti, due emblemi della stessa miseria. Maggioritario o proporzionale, la sinistra invece dovrebbe solo proporsi accanitamente di ricostruire una “minoranza eletta”, capace di offrire l’esempio di una integrale politica di classe, il cui punto fondamentale di programma dovrebbe essere la fine della crisi. Se c’è qualcosa infatti oggi che angoscia uomini e donne è il protrarsi di questa agonia, che i vecchi stregoni del passato vorrebbero protrarre imbellettando la faccia cadaverica del moribondo con i colori di una ricchezza privata che non è più possibile perseguire senza mettere a rischio l’esistenza stessa della società, nel suo lato sociale e in quello naturale. In proposito, il caso Macron dovrebbe insegnare qualcosa: una vecchissima ricetta, il Bonaparte di turno che incita la brava nazione borghese ad arricchirsi, come se ancora le provincie francesi fossero piene di tanti Papà Goriot da mungere per scalare le posizioni sociali nel bel proscenio di Parigi. Di fronte a tanta menzogna, che si sostanzia solo di ulteriori giri di vite sulle condizioni del lavoro, la sinistra allora dovrebbe avere l’elementare ma titanico coraggio di parlare il linguaggio della verità, spiegando che, in Europa, ancora una volta punto di volta del mondo, la crisi finisce se cambia la classe economica che sta al potere. Naturalmente, questa spiegazione tutto dovrebbe essere che una lezione ex cathedra. Dovrebbe essere invece una spiegazione appassionata, capace di colpire la fantasia, e muovere all’azione uomini e donne disillusi, piegati dalla sorte avversa, o anche solo ignoranti. Perché se c’è qualcosa da riportare all’onor del mondo è la vergogna della propria ignoranza, ottenuta mostrando che solo la conoscenza vera, frutto di un costante dialogo tra chi la ricerca, può guidare i sentimenti verso gli scopi che la vita si pone per raggiungere il proprio sviluppo integrale.

Gramsci e la sinistra oltre la sinistra

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Si ha notizia di di un convegno dal titolo “Il ruolo della sinistra nel pensiero gramsciano, alternativa ideologica o responsabilità di governo?”, organizzato a Lecce, il 24 giugno prossimo, da La Puglia in Più, il “movimento” del senatore Dario Stefàno, ex di Sinistra Ecologia Libertà, cui dovrebbero partecipare Luigi Zanda del Partito Democratico, Gennaro Migliore, a sua volta ex di SEL, ora Pd, e Massimo Zedda, rimasto invece Sel, ma soprattutto rimasto manovriero sindaco di Cagliari, che nelle sue note biografiche su Wikipedia ci tiene a far sapere che il papà era certamente un ex dirigente del PCI sardo, ma amico di Giorgio Napolitano. Tutto a posto, dunque, i quarti di nobiltà ci sono tutti, e le danze possono iniziare. Il titolo del convegno è chiarissimo, e il punto interrogativo del tutto retorico. Queste brave persone bramano le responsabilità di governo e, qualsiasi cosa sia, rifuggono dall’alternativa ideologica. Vogliono però la benedizione di Gramsci, e si interrogano perciò sul “ruolo della sinistra nel pensiero gramsciano”. Cioè, scusa, Antonio, te lo chiediamo dalla Puglia, terra che ti vide sofferente prigioniero, ma la sinistra deve stare a sinistra o a destra? O al centro? O deve andare al di là della sinistra e della destra? Pare che a questo punto Gramsci abbia alzato per un attimo gli occhi dal Quaderno scomparso che stava in quel momento redigendo a beneficio della sinistra riformista, e abbia chiesto: “Ma il mio scrittarello sulla Questione meridionale l’avete letto?”. Qui Gennaro Migliore, che è il più intellettuale di tutti, ha cominciato a scorrere l’operetta nella più recente edizione Studium, e ad un certo punto ha letto: “Ma è anche importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata; che si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno”. Si è fatto un gran silenzio. Zanda e Zedda hanno cominciato a zompare sui telefonini, e Stefàno stava lì, con l’aria di dire “eh, ma io sono un ex”. È rimasto solo Migliore, che è proprio un ragazzo sincero, e a un certo punto ha detto: “Ma, Antonio, scusa tanto, ma questo proletariato rivoluzionario, queste masse contadine, dove te le piglio? Qui, nei dintorni, al massimo c’è un pugno di neri che lavorano come schiavi nelle campagne”. Allora, Gramsci ha avuto pietà di lui, e gli ha detto: “Va bene, vedrò di metterci una parolina buona, in questo Quaderno scomparso che sto scrivendo”. Così pare che il 24 giugno prossimo, a Lecce, in terra di Puglia, ricomparirà il Quaderno trafugato, riscritto da Gramsci per la nuova sinistra che va oltre la sinistra.

L’egemonia e i suoi slittamenti

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Che su “Il Giornale”, organo della alquanto decaduta Casa Arcore, si scriva che «il fallimento della rivoluzione inaugurata nel 1994 da Silvio Berlusconi – ovvero il tentativo di creare una destra credibile in grado di governare il paese – non è riuscito anche per la mancata capacità del Cavaliere di sottrarre alla sinistra l’egemonia che essa si è costruita in 70 anni all’interno della società civile»1, dovrebbe essere una buona notizia per la sinistra, se però nel frattempo non fosse stata fatta prigioniera dall’avventuriero di cui si fa fatica a pronunciare il nome. Eppure, Berlusconi, nella sua rivoluzione, iniziata, com’è noto, ben prima della formale “discesa in campo”, non ha scherzato. Si è mangiata l’Einaudi, ha ridotto i professori universitari a bambini che compilano moduli da mane a sera, stava anche per comprarsi “la Repubblica”, e chissà come l’Italia sarebbe stata differente se anche quest’operazione gli fosse riuscita. Oggi non avremmo un papa laico che predica il suo nietzschianesimo da ordine costituito, e mezza sinistra non sarebbe ipnotizzata dai lustrini da ceto medio fantasmatico che quel giornale stampa ogni giorno nelle sue pagine centrali. Questo per dire che effettivamente è un peccato che Berlusconi non sia stato in grado di portare a termine il suo lavoro. Oggi ci sarebbe tutto da ricostruire daccapo, e invece da un lato c’è la frustrazione dell’impotenza, e dell’altro l’indolenza di chi è stato tramortito ma non ucciso. Ma Berlusconi aveva davvero questa voglia di scalzare l’egemonia culturale della sinistra, per sostituirla con quella di «una destra credibile in grado di governare il paese»? Non c’è una punta di schematismo intellettuale in questo ragionamento, ispirato da una pur apprezzabile lettura spregiudicata di Gramsci? Non bisogna dimenticare che Berlusconi è stato fatto fuori non dalla resistenza della sinistra, ma dalla lettera della BCE e dai sorrisini di Merkel e Sarkozy. Insomma, mentre destra e sinistra sognano ancora di poter costruire o ripristrinare una propria egemonia, il fronte dello scontro si è spostato, perché un terzo incomodo è intervenuto, che costringe quasi destra e sinistra ad una oggettiva convergenza. Nell’articolo sopra citato, si sostiene che «se Matteo Salvini – che ha ormai de facto assunto il ruolo di leader del centrodestra – vorrà sfidare concretamente il Partito Democratico (erede del PCI di Togliatti e Berlinguer) non gli basterà vincere le elezioni ma dovrà sottrarre a quest’ultimo il monopolio della cultura». Ma se quel terzo incomodo l’avesse vinta, Salvini potrebbe anche mettersi a studiare volenterosamente Gramsci, ma non avrebbe più nulla da sottrarre al Partito democratico, per il semplice fatto che quest’ultimo intanto sarebbe divenuto il terminale di un comando eteronomo, promanante dai ben noti ma quanto mai oscuri centri decentrati dell’odierno capitalismo assoluto (in mancanza di meglio, si perdoni il tecnicismo ideologico). E non è finita. Davvero il Partito democratico, divenuto intanto non per caso Partito della Nazione, vorrà essere quel terminale che si è appena detto? Vi sono tanti segnali di un trasformismo giocato non più a Roma, ma a Bruxelles, volto a riaffermare tra le righe di un discorso ortodossamente liberistico il ruolo di uno Stato che rassicura il mondo affaristico (ponte sullo Stretto), libera gli spiriti animali (legge sul lavoro, spregevolmente denominata job act), si agita per ricostruire qualcosa che richiami l’IRI (manovre sulla Cassa depositi e prestiti), mima il thatcher-blayro-reaganismo (decreto antisindacale per l’assemblea dei dipendenti del Colosseo), e si potrebbe continuare. Flessibilità, insomma, anzi, flessuosità, di un mondo la cui massima pare sempre quella di Tancredi del Gattopardo, e che forse è la chiave dello stesso berlusconismo. Non per caso Eugenio Scalfari, dall’alto della sua sedia gestatoria, si duole ogni domenica che l’ex-strillone fiorentino non sia un federalista europeo, ma solo un confederalista. Ma, oggi, se si vogliono preservare le ragioni della storica contesa egemonica tra destra e sinistra, è meglio essere federialisti o confederalisti? Ed ecco, allora, che anche il detestabile bamboccio fiorentino va guardato con una certa attenzione nella oggettiva funzione di ostacolo che può temporaneamente svolgere. E questo per dire che, oltre agli apparati culturali del cortile di casa, resta un gran lavoro da fare per integrare tutti questi slittamenti transfrontalieri nel fecondo quadro dell’egemonia.

  1. G. Repaci, Matteo Salvini legga Gramsci,Il Giornale”, 29 settembre 15 []

Syriza e i problemi dell’egemonia

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Se si guarda alla tipologia del potere capitalistico, nelle due varianti parlamentare e fascista, si vede che dagli anni Ottanta del secolo sorso, c’è stato un progressivo svuotamento di quella parlamentare e un ritorno in forme criptiche di quella fascista, grazie ad una immersione del momento coercitivo in fondamenta economiche, istituzionali e ideologiche più ampie e profonde. Il compatto capitalismo assoluto che ne è sortito, ha spinto la sinistra a introiettare l’alternativa ciclotimica tra un cambiamento che non incideva nella realtà, e un governo cui sfuggiva il potere effettivo. A seconda che prevalesse l’uno o l’altro polo, essa si divideva in fazioni contrapposte, che si rimproveravano reciprocamente di essere in preda ad idealismo, frustrazione ed ingenuità, o a realismo, adattamento, astuzia di basso conio. L’assolutismo della realtà capitalistica è stato l’ostacolo che, provocando la sua scissione in fazioni contrapposte, ha tolto alla sinistra nella sua interezza la possibilità di una riflessione teorica che fosse anche una prassi adattata. Syriza, nata con lo scopo ambizioso di superare questa divisione, ha finito solo per assicurare una carriera politica al manovriero Tsipras. L’assolutismo capitalistico è dunque inscalfibile, oppure c’è stata un’incapcità soggettiva di perseguire quello scopo? Certo, non è facile uscire da una depressione trentennale, e questo tanto più, quanto più il riflesso abbagliante della realtà è che il capitalismo continua a reggere di fatto la totalità delle regolazioni sociali. Eppure, la crisi capitalistica apertasi nel 2007 non è un sogno ad occhi aperti, ma un incubo reale, altrettanto reale quanto la pervasività della realtà capitalistica. Si potrebbe allora affermare che il significato dell’odierna crisi, che fa seguito ad altre ormai consegnate ai libri di storia, è che, in contraddizione con quanto quotidianamente suggerisce la sua stessa ontologia, il capitalismo non potrà mai pervenire a quella chiusura sistemica che l’ideologia dell’autoregolazione di mercato e dei flussi globali suggerisce. Se l’indimostrabilità del capitalismo si apparenta del dibattito logico-teologico, la “distruzione creatrice” et similia sembrano teorie fatte apposta per i miscredenti che, per timore del giudizio sociale, continuano ad andare a messa. Quel che è certo, però, è che una crepa nella realtà c’è, in cui la sinistra può infilarsi, buttandosi alle spalle la sua annosa, disperante ciclotimia. Ma come avviare quelle pratiche di una nuova realtà sociale, che le facciano superare ad un tempo la propria autofissazione alienata e la falsa ontologia esistente? Evocando nomi suggestivi come quelli di Gramsci e Berlinguer, Tsipras era partito predicando la necessità di un nuovo pensiero egemonico, ma ha finito per biascicare le solite formule del politico di professione. Sull’argomento non ci sono lezioni da dare, ma riflessioni da avanzare, colloqui da tenere, discorsi da scambiare, anche come terapia di quella depressione che sembra inguaribile. Nell’epoca del marketing, la prima difficoltà che il nuovo pensiero egemonico incontra è che l’egemonia è un concetto composito: critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. È come dire “Bevete Coca Cola, diventerete schifosamente grassi”. Bisogna perciò scomporre il concetto, ed evidenziare come nel suo lato critico e analitico, esso corrisponde all’egemonia in atto, in quello finalistico e normativo alla nuova egemonia. L’egemonia in atto si presenta come una realtà monolitica, ma in effetti essa è un “testo bilingue”, il “mercato” e la corrispondente “traduzione interlineata” dell’economia critica. È essenziale che quest’ultima balzi fuori dalle ridotte in cui è stata confinata, e mostri la parzialità di una scienza economica che celebra i suoi fasti nelle business schools e nei premi Nobel. Ma la nuova egemonia non può essere solo uno scontro intellettuale, ma deve essere soprattutto una “filologia vivente” che parla il linguaggio intellettuale e morale della “riforma economica”. Su questo terreno, la partita si gioca tra gli “schemi naturalistici” dell’egemonia in atto e il “controllo metalinguistico” dell’agire storico collettivo. L’egemonia in atto è basata sul conformismo spontaneo “dell’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili”. La nuova egemonia non può che essere la “compartecipazione attiva e consapevole”, resa possibile dal rapporto di reciprocità tra governanti e governati, e dagli istituti che ne garantiscono l’esercizio. La nuova egemonia, dunque, non è genericamente la “democrazia”, ma quell’assetto sociale in cui si realizza consensualmente la “riforma economica”. Questo fatto del consenso, porta a postulare la necessità di un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi tesi ad imporre la norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Oltre che concetto critico-analitico e finalistico-normativo, l’egemonia è dunque una prassi che comporta il conflitto. Con quali modalità si può manifestare questo conflitto? Anche qui, la vicenda di Syriza offre spunti di riflessione. Pare che nel gruppo ristretto del primo governo Tsipras si siano fatti piani di sequestro dell’oro della Banca di Grecia per far fronte al prevedibile blocco che sarebbe seguito ad un eventuale rifiuto del memorandum. La questione è se una simile mossa avrebbe avuta una sua legittimità, tale da non configurarsi come atto puramente arbitrario di una parte contro l’altra. Le elezioni politiche di gennaio e il referenudm di luglio, per quanto ambivalenti nel mandato, restare nell’euro ma rifiutare l’austerità, offrivano senz’altro una tale legittimità, ma il punto è il “secondo colpo”: un tale atto di forza avrebbe garantito nell’immediato gli interessi della maggioranza dei greci, oppure avrebbe dato luogo ad un crollo tale da fornire agli adepti dell’egemnoia in atto la migliore prova della inaggirabilità della realtà esistene? La risposta a questa domanda non può consistere solo nell’azzardo del leader, ma nella costruzione di ulteriori patti associativi, certamente garantiti dal leader, che precedono e seguono l’eventuale atto di forza. La forza in sé diventa un atto banditesco se non è capace di raccogliere la maggioranza attorno al principio di reciprocità, che si articola in patti che garantiscono temporanemanete interessi che l’evolversi stesso della situazione tende a trasformare. Tsipras non l’ha fatto, scegliendo la via della vecchia politica. Ma la vicenda greca ha evidenziato senza ambiguità i dati del problema, mostrando come il rifiuto di usare la forza in un quadro dinamico di legittimità porta non alla “democrazia”, ma alla sottomissione di una parte all’altra che ribadisce gli assetti esistenti. I nuovi movimenti, da Podemos al new old labour di Corbyn alla “coalizione sociale” di cui si fantastica in Italia, non possono non tenere conto di ciò, pena un ritorno al mutualismo, se non peggio, una ricaduta nel politicismo che non li differenzierebbe in nulla dalle ormai stantie pratiche della sinistra del dopoguerra. Durante questo periodo, quando il fine egemonico non è stato ripudiato ufficialmente, com’è accaduto nelle Bad Godesberg in cui di volta in volta sono incorse varie sezioni della sinistra europea, l’egemonia di transizione è stata praticata in modo tale che la forza subalterna proponente, anziché assimilare la forza di governo dominante, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Nella sua versione più alta questo è stato il caso del togliattismo, mentre uno dei casi più miserandi di subordinazione del fine al mezzo è stato il blayrismo, che ha trasformato il partito in una macchina di governo, interessato solo a detenere il potere, cioè a servire gli interessi contrari alla propria base elettorale, giudicata “arretrata” e quindi bisognosa di “riforme”. Questo “centro” ottenuto usando la sinistra per soddisfare gli interessi della destra, ha distrutto la fiducia tra il popolo della sinistra e le sue organizzazioni. Compito prioritario è dunque un’intensa lotta ideologica volta a ristabilirla, poiché solo su di essa si potrà fondare una conquista del governo che, all’interno di quel quadro di legittimità dinamico sopra evocato, preluda all’egemonia come fine, cioè ad una democrazia che ecceda economicamente quella liberale, e si distingua culturalmente dalle forme di comunismo storico.