Lukács o Grillo? Insegnamenti del caso Raggi

Download PDF

La domanda scabrosa è: dietro l’arresto di Raffaele Marra ci sono i poteri affaristici che si vendicano del no dei cinquestelle alle Olimpiadi a Roma nel 2024? Il sospetto viene apprendendo che la prova della corruzione di Marra è saltata fuori da una intensificazione delle indagini giudiziarie su di lui negli ultimi sei mesi, insomma, come a voler frugare in ogni dove per trovare qualcosa di utile con cui ricattare ed eventualmente punire. Ma qui sorge l’altra domanda, altrettanto se non più scabrosa: Virginia Raggi è il terminale di un gruppo di potere che sta usando i cinquestelle, dal canto loro ben contenti di farsi usare? Il sospetto viene osservando non solo la pervicacia con cui la Raggi ha imposto e difeso un personaggio così vulnerabile come il Marra, ma anche l’arrendevolezza con cui Grillo e Casaleggio jr. hanno consentito che ciò accadesse. È verosimile ipotizzare che, al di là dei risibili impegni notarili e relative multe, fumo negli occhi per gli elettori, sin da prima delle elezioni tra la Raggi e il suo mondo di riferimento e i vertici cinquestellati sia intercorso un patto più o meno esplicito in cui i consensi veicolati dalla Raggi venivano scambiati con il via libera al riciclo di pezzi dei poteri affaristici romani, con il retropensiero reciproco che gli uni avrebbero avuto la forza di neutralizzare gli altri, in modo da evitare sputtanamenti elettorali, da un lato, e perdite di potere affaristico, dall’altro. Lo sguardo indecifrabile della Raggi di cui parlano i giornali, forse sta tutto qui, in questo gioco delle parti in cui essa stessa gioca a sua volta una partita in proprio, poiché se riesce al tempo stesso ad essere garante del suo mondo di riferimento e a mantenere l’appoggio interessato dei cinquestelle, cresce la sua statura non tanto di sindaca, ma di capa: altro che figurina inadeguata, ma nemmeno la solita gatta morta, quanto piuttosto una ambiziosa Brunilde. L’avviso di garanzia che ha azzoppato Giuseppe Sala è invece più classico e meno “provinciale”, poiché è l’esito del lungo scontro che ha accompagnato l’Expo, ovvero la “grande opera”, della cui realizzazione egli era il plenipotenziario, che consente alla nazione di partecipare al “consumo vistoso” degli Stati. Le forzature ed irregolarità, che hanno finito per favorire quell’impresa anziché quell’altra, derivavano dalla necessità di portare a termine quella “missione” nazionale, a difesa della quale, come si apprende dalle oneste cronache, si formò un blocco tra vertici dello Stato e frazioni della magistratura che, adesso, anche sull’onda della catastrofe referendaria, subisce il contrattacco di chi all’epoca fu sconfitto ed emarginato. L’impasse in cui sono finite la capitale politica e la capitale morale d’Italia, e sull’aggettivo morale ciascuno la pensi come crede, dimostra sperimentalmente ciò che i libri dicono su che cosa sono i partiti nella società degli interessi economici, anche quando si fregiano della pudibonda etichetta di movimenti: macchine per andare al governo che, alternandosi nel ruolo di chi arraffa e di chi invoca nelle piazze l’onestà, recitano ciò che Vilfredo Pareto, già all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, chiamava lo “spettacolo della corruzione”1. Pareto individuò tre “maschere” di politici che recitavano in tale commedia, ovvero gli idealisti, gli uomini di potere e gli affaristi. Il partito in cui predominano gli idealisti non va mai al governo, a differenza dei partiti misti, che costano più o meno alla collettività a seconda che in essi prevalgano gli uomini di potere o gli affaristi. Eh, sì, perché sono gli uomini di potere quelli che costano di più, poiché rendono possibile «ogni sorta di operazioni dirette a togliere altrui i beni, per farne godere le clientele politiche»2. Non dobbiamo qui seguire sino in fondo le classificazioni di Pareto, per le quali egli aveva un debole. Più interessante invece sottolineare che, nello stesso torno di tempo in cui Pareto studiava la morfologia politica della società degli interessi economici, György Lukács, dall’estremo opposto dello spettro ideologico, vedeva nei partiti che vanno al governo l’espressione della “corruzione borghese”, ed esaltava il “partito proletario”, la cui missione ideale non era di sostituirsi ai partiti borghesi nel governo della società data, ma di affrancare l’intera società dall’alienazione economica. Un obiettivo non propriamente a portata di mano, come lo stesso Lukács poté constatare nel corso della sua lunga vita. Ma il suo schema, che sino all’ultimo non si stancò di rendere duttile e flessibile, aveva il merito di trasformare un dato di fatto in una finalità etico-politica: il partito idealista non è che non va al governo, perché il canovaccio di Pareto prevede la maschera dello sfigato, ma sceglie programmaticamente di non andare al governo, perché la sua missione è altra che assicurare alle valchirie di turno delle splendide carriere di potere. Bisogna constatare che, dopo cent’anni, siamo ancora lì: come far sì che il partito idealista raccolga, accumuli, immagazzini forze per costruire un blocco sociale alternativo all’occlusione economica. È un problema filosofico e politico3, ma anche, scartata la rivoluzione come strumento per raggiungere quel fine, di tecnica elettorale. Lo si è visto in questi vent’anni di maggioritario in Italia, dove la vita del partito idealista che non va al governo è divenuta via via sempre più misera e grama. Oggi siamo a un tornante, perché si torna a riproporre il proporzionale, dove non si è costretti a scegliere immediatamente se andare o meno al governo, ma si pensa prima a costruire la propria forza4. Naturalmente, c’è da chiedersi come mai i partiti che vanno al governo, all’improvviso, riscoprono la bontà del proporzionale, che pure non li favorisce. Evidentemente, la politica, e la tecnica elettorale, Mattarellum Porcellum Italicum e via degradando, non sono tutto e non tutto possono contro la società che rifiuta di essere ridotta all’unica dimensione dell’economico. I referendum del 2011, il referendum del 4 dicembre, la nouvelle vague proporzionale, sono allora segnali di una primavera che chi è interessato al partito idealista che accumula forze per un cambio di ontologia sociale, nel senso non comico-grillesco ma filosofico-lukacsiano del termine, dovrebbe saper cogliere. Anche per non sprecare malamente l’occasione storica. In questo senso, si prenda Syriza, in Grecia. Non solo è andata al governo, e passi, perché poteva rivelarsi una feconda contraddizione reale, non solo non ha saputo capitalizzare il referendum del giugno 2015, ma si vanta pure di non avere mai avuto un “piano B”, alternativo alla trattativa con i poteri europei egemonizzati dalla Germania. E la giustificazione è che non si poteva gettare il paese nel caos, capitali in fuga, file ai bancomat, stipendi non pagati e altre calamità. Ma si consideri quel che, l’8 novembre 2016, ha fatto Modi in India, dove nottetempo, sono state dichiarate fuori corso le banconote da 500 e 1000 rupie. L’intera produzione agricola, che si esprimeva in tali banconote, è andata in tilt, e file chilometriche si sono formate ai bancomat. Certo, il provvedimento del governo indiano, con la scusa virtuista della lotta alla contraffazione monetaria, mirava ad intensificare l’estrazione “fiscale” di plusvalore, un caso paretianamente esemplare di “spoliazione”5, ma questo dimostra che la dittatura del capitale è implacabile quando deve far scendere dal cielo in terra la sua morale. Syriza, quindi, avrebbe fatto bene ad avere il piano B, che non sarebbe certo dovuto consistere nell’opporre brutalità a brutalità, ma nel mettere a frutto con mosse strategicamente accorte l’egemonia guadagnata precedentemente nella società. Perché in ciò consiste l’accumulazione di forze per un’alternativa ontologica, nel mostrare che la propria dittatura non è arbitraria o parziale, come quella della finanza, delle banche, dell’impresa, di esercito, chiesa, o Stato come “comitato d’affari”, ma è la dittatura che porta allo sviluppo onnilaterale della ricchezza sociale. E che cos’è la ricchezza, se non «l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale»6?

 

  1. Su questo punto, rinvio a F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, in “Politeia”, anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  2. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, (1916), Torino, Utet, 1988, 4 voll, vol. IV, § 2268. []
  3. Per riflessioni più estese su questo punto, cfr. F. Aqueci, Semioetica. Lingua, istituzioni, libertà, Roma, Carocci, 2016, pp. 96 sgg. []
  4. Su questo tema, osservazioni sorprendentemente interessanti, per essere espresse da un politico, genìa oggi dedita a tutt’altre pratiche, in P. Ferrrero, Introduzione a P. Favilli, In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione comunista, Roma, DeriveApprodi, 2011, fruibile qui on line. []
  5. Su questo punto in Pareto, rinvio ancora a F. Aqueci, Semioetica, cit., pp. 92 sgg. []
  6. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), (1857-1859), trad. it. di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, 2 voll., vol. I, p. 466. []