Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi? (1)

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Un’amica, che ha passato buona parte della sua vita a studiare e a spiegarci l’Illuminismo europeo, mi indirizza una mail dal titolo «Moi, je ne suis pas Charlie! Et toi?», nella quale scrive: «È difficile far passare in questo momento un giudizio così impopolare, e non so se lo condividerai. Ma vedendo le vignette di Charlie Hebdo ho avuto un moto di ripugnanza. La satira rivolta a una categoria in quanto tale è volgare a prescindere (se è ebreo ha il naso adunco, è scuro e peloso, dunque anche avaro…). Le conseguenze tragiche che questi sterotipi hanno avuto nel Novecento dovrebbero insegnarci qualcosa, e invece no. Eppure libertà di pensiero è anche consentire ai nostri coinquilini islamici di pensarsi come individui, il che li aiuterebbe a pensare da individui, cioè come ci vantiamo giustamente di pensare noi». Devo dire che le vignette di Charlie Hebdo mi fanno (facevano) ridere, e di gusto, ma devo riconoscere che è la risata di un attimo, una risata sulfurea che corrode più colui che ride, che l’oggetto dell’irrisione. Forse perchè è il riflesso soggettivo di una immobilità della struttura. Il vecchio Pareto spiegava che la distruzione del “residuo” non fa sparire la “derivazione”, tanto che «nelle Indie gl’indigeni convertiti perdono la moralità della vecchia loro religione, senza acquistare quella della nuova»1. I musulmani sono presi dalla corrente modernizzatrice, ma tengono al loro “residuo”, al punto da farne un assoluto, anche se per fortuna solo una minoranza lo difende con le armi. Decentrarsi da esso e pensarsi come individui richiederebbe una laicità che non ispiri loro il sospetto di essere ridotti a singoli manipolabili poi a piacimento. È vero che ciò concerne anche i fondamentalisti cristiani, anche loro aggressivi in qualche loro componente, ma la differenza non piccola è che essi aspirano a restaurare un “residuo” che, nella struttura, già domina il mondo. È condivisibile perciò nell’immediato quel “giudizio impopolare” circa l’unilateralità di certa satira, ma andando oltre la “permanenza dei residui” di Pareto, il problema è come smuovere questa pigrissima ontologia in cui siamo intrappolati, di cui la religione, con le immagini contrapposte che rinvia gli uni agli altri, è lo specchio deformante utile solo ad alimentare una lotta di potere. Per gli jiahdisti, infatti, che raccolgono in ciò lezioni secolari, la “fede” è un brutale instrumentum di un regno che aspirano ad instaurare, con tanto di pubblici e sanguinosi proclami. Ma la “libertà” alla quale giustamete noi tanto teniamo, è davvero così libera? Si può concepire la satira sub specie aeternitatis, o si dovrebbe forse anche tener conto dello “sviluppo ineguale” delle singole “menti sociali”, senza che da ciò derivi una censura della satira stessa? La mail dell’amica illuminista così si conclude: «Dal compagno Bergoglio mi aspetterei qualcosa in questo senso. Lui se lo può permettere». In effetti, la vignetta charliehebdomadista in cui le tre entità della Trinità fanno a incularella è un ilare atto di disperazione ontologica. Il Papa venuto dalla fine del mondo che, tra lo scandalo di molti, esclama: «chi sono io, per giudicare?», è già una picconata sul “residuo” che, lo voglia o meno Bergoglio, muove verso una promettente “reciprocità”. Il problema, infatti, è uscire fuori dalle “forme di vita” dentro cui proprio quel pigro “sviluppo ineguale” ci imprigiona, e dentro cui stiamo orgogliosamente asserragliati. Uno sviluppo, di cui nessuno può essere ragionevolmente certo di aver raggiunto l’apice. E, invece, se oggi uno jiahdista può uccidere un vignettista per punirlo della sua blasfemia, è perché, nei decenni scorsi, nella “sovrastruttura”, c’è stato chi, politico o intellettuale, cristiano o musulmano, ha fatto a gara nell’opera di “distruzione della ragione”, in nome di una “razionalità strumentale” buona per la struttura, ma che diviene un’impostura quando, verniciata di “libertà”, si propone come il compimento della storia.

  1. Trattato di sociologia generale, § 1416 []