Reductio Gramsci

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Radicamento nazionale contro l’internazionalismo mercatistico, socializzazione dei mezzi di produzione tramite la mediazione di una rinnovata potenza statale, previo abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra, antiquatamente basata su un antifascismo ridotto ormai ad alibi per sottrarsi all’impegno della lotta anticapitalistica, che invece deve essere alimentata da una rinascita dello spirito di scissione e deve avere come scopo l’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa. Questo il programma politico che Diego Fusaro tira dall’eredità di Gramsci, al cui pensiero dedica un suo recente libretto1. Ma qual è il Gramsci che serve per questo programma politico? Anzitutto, un Gramsci gentiliano. Grossi sbadigli per un tormentone che non finisce mai, quindi solo una breve messa a punto. Per Fusaro, i Quaderni, per quel loro sistematico dedurre l’essente dal porre soggettivo, rivelano un “gentilianesimo inconscio” che Gramsci tradirebbe con questa excusatio non petita: «Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’“atto puro”, ma proprio dell’“atto impuro”, cioè reale nel senso profano della parola»2. Ma dove starebbe l’excusatio? A quell’“impuro” Gramsci affida tutta la distanza che vuole mettere tra se stesso e il gentilianesimo, che al suo tempo si respirava come l’aria. E Gramsci dice pure in che consiste l’“impurità”, cioè nella “realtà nel senso profano della parola”, un realismo provocatoriamente ingenuo, che contraddice in toto il soggettivismo cui Fusaro vuole ridurre Gramsci. Nel Quaderno 29, quello sulla linguistica, Gramsci scrive che, circa l’apprendimento della lingua colta da parte della massa popolare, «nella posizione del Gentile c’è molta più politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, […] c’è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c’è un “lasciar fare, lasciar passare” che non è giustificato, come era nel Rousseau […] dall’opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un’ideologia astratta, “astorica”»3. Come si vede, Gramsci, i suoi conti con Gentile, sia teorici che politici, li ha fatti, sostituendo una volta per tutte il vuoto divenire con la genesi storica, quale legalità del soggetto e dell’oggetto che, dopo Marx, solo un altro autore ha rivendicato con pari energia, cioè Lukács, un autore che Fusaro sicuramente conosce bene, ma di cui purtroppo – salvo un fugace cenno sull’alienazione, che avrebbe meritato ben altro approfondimento4 – non tiene conto, perché l’operazione ideologica che deve compiere, la fusione di destra e sinistra, gli sta più a cuore di una ricostruzione fedele del pensiero di Gramsci. E siamo all’altro Gramsci che serve per questa operazione ideologica, Gramsci ridotto ad elitista. Pareto sosteneva che la storia è un cimitero di élites, un rivolgimento ciclico che abbatte i vecchi governanti e innalza i nuovi5. Ed ecco come Fusaro caratterizza l’egemonia in Gramsci: «la crisi di un’egemonia si verifica allorché, pur mantenendo il proprio dominio, la classe politicamente dominante non riesce più a essere dirigente rispetto a tutte le altre classi e a imporre universalmente la propria visione del mondo. Accade, allora, che la classe dominata (a patto che non sia culturalmente subalterna), se riesce a indicare effettive soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, estendendo la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può porre in essere un nuovo “blocco sociale”, vale a dire una nuova alleanza di forze sociali. In questo modo, essa può diventare egemone, andando ad occupare il posto della vecchia classe dominante e non più egemonica»6. Al netto di un certo verbiage, è esattamente il movimento ciclico descritto da Pareto7. È vero che, come Fusaro si affretta subito a precisare, la nuova classe dominante deve essere il proletariato, in seguito ad una riforma intellettuale e morale. Il movimento ciclico dovrebbe dunque approdare al compimento dell’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa, al quale Fusaro tanto tiene. Ma ecco come lo stesso Fusaro definisce ancora l’egemonia: «l’egemonia rappresenta il dominio culturale di un gruppo (o di una classe) che sia in grado di imporre ad altri gruppi, tramite pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista, fino a giungere alla creazione di un articolato sistema di controllo organizzato»8. È tutto ingentilito dalla cultura, ma la sostanza resta il dominio e il controllo che, appunto, un’élite esercita al posto di un’altra. Fusaro qui non mostra la minima predisposizione a comprendere che la “nuova egemonia” in Gramsci comporta la messa in discussione della coazione a ripetere del dominio, quale socialità bloccata elevata a condizione naturale9, e il motivo risulta evidente se si tiene conto che uno dei punti del suo programma politico è una rinnovata potenza statale, al nobile scopo, beninteso, di procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Così, il passo in cui Gramsci prospetta un organismo sociale in cui viene superata la divisione tra dominanti e dominati10, suggerisce a Fusaro l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»11. Prepariamoci, dunque, ad un comunismo culturale di stato, in cui recitando versetti della Divina commedia e salmodiando cantilene della civiltà dei sassi, si potrà procedere alla socializzazione dei rapporti di produzione. Perché è questo, alla fine, il Gramsci che serve, cioè il Gramsci al quale non si devono porre domande, ma da cui si possono trarre formule ragionevolmente, diremmo pure, culturalmente incendiarie. Va bene, la collana è quella che è, “Eredi”, dove non si capisce se in questione è l’eredità o l’erede che la intasca. Resta che il limite di questa presentazione di Gramsci è l’assenza di categorie teoriche con cui fare interagire nel presente il suo pensiero, che non siano le tradizionali categorie storiografiche (idealismo, materialismo, fatalismo, volontarismo, crocianesimo, gentilianesimo), che l’autore ravviva con la sua vis ideologica, forgiata anch’essa con materiali filosofici provenienti da una assimilazione in corsa del canone marxista. Un universo chiuso, in cui la filosofia è interpretata con la filosofia, meglio, con la storia della filosofia, ridotta ad una sceneggiatura di filosofici furori per attori più o meno bravi di qualche avventura politica di cui il genio italico è sempre prodigo.

  1. D. Fusaro, Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 2015. Il programma politico è enunciato nel capitolo conclusivo, p. 129 sgg []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 = Q, 4, § 37, p. 455, cit. in D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 83. []
  3. Q. 29, § 6, pp. 2349-50. []
  4. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 67. []
  5. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, edizione critica a cura di G. Busino, Torino, UTET, 1988, voll. 4, vol. III, § 2053. []
  6. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 104. []
  7. Una ricostruzione dell’argomento in F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 102. []
  9. F. Aqueci, L’ironia della genesi. Modelli alternativi del conflitto comunicativo, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 6, n. 3, 2012, pp. 16-24. []
  10. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). []
  11. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 126. []