Europa

Le lotte di classe acefale in Francia

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In Francia, da due mesi ormai le lotte di classe, dal cielo del parlamento e del dibattito pubblico sono debordate in strada nell’aperto conflitto con le forze dell’ordine. Ci sono diversi fattori che hanno spinto a questo esito. Anzitutto si è acuita la contraddizione di base di ogni rivoluzione, cioè il contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione (Marx). Il conflitto è scoppiato nel settore dei trasporti, dove la tecnologia fa intravvedere la possibilità di mezzi di trasporto meno inquinanti e automatizzati. Ma questo sviluppo di forza produttiva avviene senza che venga modificata la concezione individualistica del trasporto. Anzi, quest’ultima viene rinforzata: perché prendere un autobus affollato, se posso avere una macchina non inquinante e automatizzata? Se poi questa macchina è anche condivisa (car sharing), c’è pure la magia di una forma collettiva di trasporto individuale. La premessa occulta di tutta questa costruzione è che non esistano tecnologie che possano rendere i mezzi di trasporto pubblico non inquinanti, automatizzati e comodi da prendere. Impostata la tecnologia sulla fruizione privata del trasporto, i vincoli che ne discendono (strade fornite di sensori, ecc.) limitano l’innovazione alla ristretta cerchia urbana, contro la più estesa e disagiata campagna. La tecnologia diventa così la base falsamente oggettiva di una inevitabile disuguaglianza, che trasforma in anti-moderni coloro che, subendola, si ribellano. C’è insomma un nesso strutturale, tecnologico e sovrastrutturale che eternizza la vecchia concezione egemonica, legittimando l’appropriazione capitalistica dell’avanzamento tecnologico. Le punte più aperte della filosofia idealistica contemporanea riconoscono l’esistenza delle forme capitalistiche di produzione, ma semplificano quel nesso opponendo la “tecnica” al “capitalismo” (Severino). In realtà, la tecnica è al servizio dell’egemonia, poiché serve a tacitare nuove concezioni, la cui oggettivazione metterebbe in crisi le forme capitalistiche di produzione. La protesta dei gilet gialli si esprime immediatamente come difesa della vecchia macchina diesel, inquinante ed essa stessa portatrice di una concezione individualistica, ancorché rurale, del trasporto. Indirettamente, però, la loro lotta evidenzia il limite di un assetto egemonico la cui permanenza ostacola l’intera totalità sociale, poiché crea diseguaglianze e favorisce la sola concezione che va d’accordo con l’appropriazione capitalistica, quella individualistica. Qui si coglie un significato essenziale del contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione che, se inteso economicisticamente, si perde: la lotta di classe avviene sul terreno ampio dell’egemonia, poiché la protesta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia non può risolversi in un puro atto redistributivo, ma deve essere in grado di rimettere in questione intere concezioni che reggono la prassi sociale in ogni suo settore.

Le odierne lotte di classe in Francia presentano però un carattere politico specifico che spiega perché stentino a radicarsi sul terreno della lotta egemonica, e ristagnino nella rabbiosa lotta di strada. La Francia, da un buon cinquantennio, controlla la forma capitalistica di produzione grazie al sistema politico gollista che, in nome dell’ideologia repubblicana antifascista, tiene ai margini la tradizione passatista e risucchia al centro ogni velleità di cambiamento. Questo gioco però si è esaurito con la presidenza Hollande, in cui quel che restava del socialismo, con il suo totale ralliement alle esigenze produttive e al modo di vita imposto dal capitalismo finanziario europeo (austerità + consumo), ha definitivamente dilapidato ogni residua possibilità di condurre vittoriosamente anche solo un barlume di lotta di classe nelle istituzioni esistenti (Engels). Di fronte a questa immane disillusione a sinistra, e al residuo ma sempre più stanco persistere del discrimine antifascista a destra, la sortita di Macron (En marche) si è rivelata quindi, più che un incitamento (en marche!), una marche en solitaire, l’ultima fiammata di un sistema politico in cui minoranze privilegiate tiranneggiano, al netto di forme democratiche sempre più vuote, una maggioranza che si percepisce, quando non è effettivamente, più povera.

Una maggioranza, ecco un terzo fattore dell’esito conflittuale ma scarsamente egemonico delle attuali lotte di classe in Francia, che è tale perché, oltre al fronte proletario, la cui coscienza è stata però distrutta dall’opportunismo delle sue rappresentanze politiche, vi confluisce l’ampio ceto medio sparso in tutto il territorio nazionale, l’erede sociologico di ciò che nella Francia ottocentesca era l’immensa classe contadina, la quale non fu mai capace di nessuna iniziativa conseguentemente rivoluzionaria (Marx). Un po’ per questo suo carattere storico, un po’ per il carattere composito del fronte in cui confluisce, le lotte di classe che essa sta conducendo da due mesi a questa parte, appaiono acefale, un affrontamento che resta accanita lotta di strada, a volte sfociante in episodi truci ma militarmente impari, e sinora senza sbocco politico, poiché la richiesta di dimissioni del presidente della repubblica appare a tutti un salto nel vuoto, dal momento che solo il rabbuiato e paternalistico sparire e riapparire di De Gaulle davanti al maggio ’68 è l’unico modello di via d’uscita dalle crisi sperimentato dalla V repubblica. Vorrà il giovane Macron tentare questa strada? Visibilmente non ne ha la capacità, poiché ogni suo scomparire e ricomparire viene interpretato come l’arroganza di un debole Luigi XVI. E d’altra parte, le sue dimissioni aprirebbero la strada ad una lotta confusa tra raggruppamenti politici che da tempo indulgono in una più o meno aperta negazione di una netta demarcazione tra destra e sinistra, le quali non sono specie naturali, ma categorie che vanno difese e coltivate al fine di una corretta prassi politica. È insomma l’interregno “populista”, il lungo e caotico periodo intermedio tra egemonia in atto e nuova egemonia, che in Francia dilaga nello scontro di strada senza sbocco, e in Italia nel “contratto di governo” che prelude alla ciclica stabilizzazione moderata. In mancanza di un adeguato canale egemonico, culturale ed organizzativo, un’enorme energia rivoluzionaria viene così dissipata, senza che possa tornare utile ad incardinare la “riforma economica” (Gramsci), da cui trarrebbero vantaggio non solo le classi oppresse, ma l’intero assetto europeo contemporaneo, che ristagna invece in un plumbeo clima penitenziale, reso ancora più stridente dall’obbligo di godere in tutti i luoghi di consumo di cui quotidianamente abbisogna l’austerità per autoalimentarsi.

La sinistra, l’Europa, lo Stato

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Nello scontro tra sovranismo ed europeismo, che dovrebbe toccare l’apice nelle elezioni del nuovo Parlamento europeo, la primavera prossima, cominciano ad emergere i suoi campioni, nelle persone del francese Macron e dell’italiano Salvini, e le tematiche, ovvero l’immigrazione e le connesse politiche fiscali e di bilancio, se è vero, come è stato chiarito, che «è la cecità fiscale e non la negazione della dignità umana che determina lo scontro intraeuropeo sull’immigrazione»1. Protagonisti e spettatori più o meno interessati convengono sul fatto che questo scontro archivia definitivamente la contrapposizione tra destra e sinistra. Il che è una constatazione sbilenca, poiché la destra non solo non è scomparsa, ma occupa tutto il campo, travestita come il lupo di Cappuccetto Rosso con la cuffietta tutta trine e merletti del sovranismo e con la gran bocca vorace dell’europeismo. In realtà, quel che è accaduto è che la sinistra, divorata dall’estremismo parolaio e dall’opportunismo riformista, è confluita sostanzialmente nell’europeismo, il che ha avuto come effetto che la lotta di classe, più viva e vegeta che mai, si è venuta svolgendo tutta nel campo della destra in forme grottesche e deformi. L’europeismo infatti è l’articolazione europea di quel capitalismo internazionale in cui, negli ultimi vent’anni, sono esponezialmente aumentate le concentrazioni monopolistiche e le transustaziazioni finanziarie, attraverso le quali la quota di ricchezza attribuita al lavoro è diminuita come forse non si vedeva dai tempi antecedenti la Prima guerra mondiale2. Le sperequazioni derivanti da questa ininterrotta e vittoriosa lotta di classe hanno trovato espressione in movimenti come, appunto, il sovranismo, ma anche il cosiddetto populismo, in cui, abbandonati a se stessi, si riconoscono operai, lavoratori, pensionati, ma anche il minuto capitale della piccola e media impresa, ancora legata ai processi industriali. Emblema di questa deforme lotta di classe è diventato il nuovo governo italiano, dove contro il grande capitale europeistico si sono alleati il sovranismo leghista e il populismo pentastelluto, i quali però, nel mentre che muovono contro il nemico comune, conducono una parallela lotta intestina, per decidere chi dovrà prendersi la maggior quota di ciò che sperano di lucrare nello scontro con il grande capitale finanziario e monopolistico. Bisognerà vedere infatti se passa l’accoppiata reddito di cittadinanza-pensioni d’oro, oppure flat tax-riforma Fornero, e decidere se dovrà vincere il corporativismo del Nord o l’assistenzialismo del Sud. Cosa deve fare allora la sinistra, una sinistra intenzionata a guarire dai cronici mali dell’opportunismo e dell’estremismo, per smascherare questa stucchevole commedia in cui al lavoro viene assegnato il ruolo del servo sciocco? In primo luogo, deve tornare a fissare il netto discrimine dell’anticapitalismo, sia esso grande o piccolo capitale. Ciò, ovviamente, non per alimentare la tendenza estremistica, ma al contrario per chiarire bene le basi su cui impostare discorsi ed alleanze. Così, la piccola e media impresa non deve diventare la divinità di un nuovo culto, come hanno fatto i pentastelluti, ma la forma momentanea di un rapporto di produzione con cui necessariamente allearsi, ma di cui vanno messi in luce liberamente ed ogni qual volta se ne presenti l’occasione, i limiti e la pericolosità in quanto nucleo riproduttivo di quel tessuto grande-capitalistico di cui poi essa stessa è vittima. Un po’ di dialettica, insomma, applicata alla propaganda. Una dialettica da applicare anche all’altro problema, che rischia altrimenti di trasformarsi in un vuoto dilemma, cioè se stare in Europa o no, se avere rapporti con l’europeismo o meno. Pensare di risolvere questo dilemma rispolverando la patria, equivale a fare concorrenza ad un prodotto di successo, il sovranismo, con un altro abborracciato alla meglio. E d’altra parte continuare a invocare una diversa Europa è solo una sterile scorciatoia verbale. L’Europa è questa che partecipa, recitando le belle formule della concorrenza e del libero mercato, al gran banchetto mondiale del capitalismo monopolistico-finanziario, come dimostra l’unico obiettivo che essa persegue, la stabilità monetaria che garantisce il mercantilismo dei paesi eurozona più performanti. Per fare ciò, essa ha però sviluppato delle istituzioni continentali, la BCE, la Commissione, ma anche il Parlamento. In Europa, allora, si deve stare, conducendo la lotta, come si sarebbe detto un tempo, con mezzi legali e illegali, dentro e fuori le sue istituzioni, contro e in alleanza con i movimenti che nel suo quadro si agitano, a seconda della migliore convenienza per far giungere con la maggiore nettezza possibile il proprio messaggio anticapitalistico. La finalità di questo rinnovato agire dialettico non può che essere quella che Spinelli e i suoi sodali fissarono nel loro Manifesto. A questo proposito, di recente, si è riconosciuto che «la peculiarità dell’architettura istituzionale europea è non essere retta da uno Stato, che poco si raccorda con il riferimento frequente alle idee federaliste del Gruppo di intellettuali che ha dato vita al Manifesto di Ventotene»3. Bisogna però intendersi sullo Stato. Se lo Stato è l’articolazione burocratica che garantisce nella lotta di classe l’esito vittorioso del capitale, ebbene l’UE così com’è attualmente possiede uno Stato del tutto rispondente allo scopo. Se invece per Stato si intende la macchina che spezza il dominio del capitale e favorisce l’esito vittorioso del lavoro, allora l’UE non ha evidentemente un tale Stato. Ora, i moralisti borghesi – non si saprebbe come meglio definirli, pensano ad uno Stato che riformi l’attuale Stato europeo restando sempre all’interno di una nebulosa “economia del benessere”. Un capitalismo filantropico che non si è mai visto all’opera nella storia, salvo in quei pochi decenni, tra il 1945 e il 1975, in cui l’alternativa sovietica era un pungolo ben vivo. Poiché oggi le condizioni storiche sono del tutto differenti, e il capitalismo si può addirittura permettere di deglobalizzarsi, come si vede con le rilocalizzazioni perseguite da Trump, bisogna allora ben fissare il significato del richiamo al federalismo del Manifesto di Ventotene. In quel testo, infatti, il futuro Stato federale europeo veniva concepito come una dittatura federale europea, laddove il termine decisivo è quello di dittatura, che ha un senso se collegato al contenuto anticapitalistico così evidente del Manifesto. Il termine dittatura in questo preciso significato anticapitalistico, omesso non solo nella retorica europeistica ma anche dagli odierni moralisti borghesi, gli uni e gli altri accontentandosi solo si mettere l’accento sul federalismo, come se una semplice formula istituzionale potesse da sola realizzare l’Europa unita, quel termine, dicevamo, indica quanto fosse forte in quegli anni Quaranta del secolo scorso la capacità egemonica della sinistra. Su quel termine poterono infatti convergere un leninista allievo di Gramsci come Spinelli e due borghesi antimonopolisti e progressisti come Colorni e Rossi. Quella egemonia derivava da tanti fattori, tra cui l’impressione del disastro della guerra e della distruzione europea, di cui le dinamiche del capitalismo monopolistico-finanziario erano responsabili in due riprese, nel ’14-’18 e nel ’39-’45. Oggi il capitalismo, quel sempiterno capitalismo monopolistico-finanziario che inestinguibile risorge sempre dalle sue ceneri, è responsabile di una guerra senza quartiere contro la società, di cui nega persino l’esistenza, mettendo tutto in capo ad un individuo che è tale, non come persona che si realizza nel rapporto di classe, ma se risponde ai canoni di uno sfrenato superomismo. E questa guerra continua anche quando il capitalismo deglobalizza, promettendo la rinascita dei legami sociali locali. Questa falsa promessa, infatti, serve solo a coprire il significato autentico dei dazi, che servono non a ricostruire i legami, ma ad ingrassare le oligarchie locali, pronte a sfrenarsi di nuovo nel proscenio mondiale, quando la guerra commerciale avrà decretato vincitori e vinti. C’è insomma di che alimentare un coerente discorso anticapitalistico, da condurre senza timidezza, denunciando i cortocircuiti per cui la classe operaia di Taranto, pur di salvare il salario, approva con un plebiscito un processo produttivo che continuerà a minare la salute delle proprie famiglie. E questo accade perché non bastano le opinioni personali del capocomico per sanare certe contraddizioni, anzi, la vicenda di Taranto mostra quanto sia mistificatoria la divisione del lavoro dentro il M5S, dove il guru sognatore propone soluzioni irrealizzabili, e il giovane politicante sigla accordi al ribasso. Dalla convinzione con cui la sinistra farà di nuovo propria la critica anticapitalistica, che una vicenda come quella di Taranto mostra essere l’unico discorso onesto che possa essere rivolto agli operai, discenderanno poi le nuove forme organizzative, su cui per troppo tempo, invece, si è concentrato il dibattito – le primarie, gli statuti, il partito liquido, e quant’altro, in cui hanno potuto trovare spazio azzeccagarbugli che in realtà erano solo gli agenti mascherati del peggior spirito del tempo.

  1. P. Savona, Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DIPARTIMENTO PER LE POLITICHE COMUNITARIE, IL MINISTRO PER GLI AFFARI EUROPEI, http://www.politicheeuropee.gov.it/media/4295/per-uneuropa-piu-forte-e-piu-equa-2_versione-finale-impaginato.pdf, pp. 16-17. []
  2. D. Troilo, Un capitalismo che è negazione del libero mercato, «Corriere della sera», 30 agosto 2018, p. 29. []
  3. P. Savona, Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa, cit, p. 8. []

Europa o rivoluzione?

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Secondo Alfredo D’Attorre, bisogna cogliere «il nucleo di verità che sta dietro il successo dei cosiddetti “populisti”», riconoscendo che «l’Europa reale costruita da Maastricht in poi si è rivelata distante dall’utopia di Ventotene non meno di quanto il socialismo reale lo sia stato da quello immaginato da Marx»1.

Anche i comunisti iraniani alla fine degli anni Settanta del secolo scorso volevano cogliere il «nucleo di verità» che stava dietro la rivoluzione khomeinista. Furono spazzati via, e nessuno si ricorda più di loro, mentre da quarant’anni il «nucleo di verità» degli ayatollah domina incontrastato l’Iran.

Bisogna stare attenti ai populisti, specie se sovranisti. Interloquire con loro, pensando di ammansirli con un «europeismo costituzionale», come pensa di fare ancora D’Attorre2, può rivelarsi una pericolosa illusione. Nel Manifesto di Chișinău, «Per la costruzione della Grande Europa», elaborato dai partecipanti alla Conferenza Internazionale «Dall’Atlantico al Pacifico: per un destino comune dei popoli eurasiatici», e reso pubblico nella cittadina moldava il 30 giugno 2017, si legge che la Grande Europa per la quale questi intellettuali d’ogni parte del Continente si battono, deve essere «un potere geopolitico sovrano, dotato di un’identità culturale affermata, che coltiva i propri modelli sociali e politici (basati sui principi dell’antica tradizione democratica europea e sui valori morali del cristianesimo), con proprie capacità di difesa (compreso il nucleare) e con propri accessi strategici alle energie fossili e alternative, così come alle risorse minerarie e organiche»3.

Spicca fra questi propositi il richiamo al nucleare militare, con cui corazzare la mite religione cristiana, su cui si basa l’antica tradizione democratica europea. Un bel nazionalismo grande-europeo, dunque, identitario e demotico, come spiega Aleksandr Dugin, ideologo massimo di questa impostazione, ovvero una democrazia in cui il leader trae la sua legittimità, non da procedure elettorali, ma dalla sua capacità di comprendere e interpretare la volontà del popolo, permettendogli di partecipare al suo destino. E se ancora non fosse chiaro, Dugin aggiunge che «le strutture economiche dipendono dalle particolarità storiche, culturali e climatiche». L’economia non deve avere dunque quella centralità che le assegna il materialismo storico4.

Un capo, dunque, e una comunità di destino, con tutte le classi al loro posto, così come le ha fatte la natura, e poi via al confronto multipolare con gli altri Stati-civiltà mondiali, brandendo pacifici missili nucleari a difesa degli accessi strategici alle energie fossili nonché alternative, così come alle risorse minerarie e ovviamente organiche. È con questi soavi monaci, discendenti dell’antica civiltà europea, che D’Attorre, e tutti gli odierni sostenitori del «nucleo di verità» populista e sovranista, intendono interloquire? Ad evitare brutte sorprese, forse sarebbe meglio riprendere la laica lezione di tutti coloro che, sulla scia di Marx, hanno teorizzato e praticato la scienza della lotta di classe, che risuona anche nella tutt’altro che utopica, bensì attualissima, proposta di una “dittatura federale” del Manifesto di Ventotene5. E questa ripresa sarebbe opportuna non certo per un pregiudizio ideologico, ma nella convinzione storicamente suffragata che solo il trascendimento rivoluzionario del nazionalismo grande-europeo, solo il trascendimento delle storiche divisioni di classe, solo il trascendimento del suo storico capitalismo proprietario, può rendere finalmente l’Europa quel continente di pace e di cooperazione che si vorrebbe invece edificare con i richiami a Costituzioni che restano lettera morta se non sono giorno per giorno vivificate da una lotta conseguente ed organizzata.

  1. A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta, «Italianieuropei», 3/2018. []
  2. Ibidem. []
  3. https://www.geopolitica.ru/it/article/manifesto-di-chisinau-la-costruzione-della-grande-europa []
  4. F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, notizie di POLITEIA, XXXI, 119, 2015, pp. 10-23 []
  5. F. Aqueci, Semioetica, Roma, Carocci, 2017, cap. VIII. []

I paradossi dell’UE e la nuova Bisanzio che verrà

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L‘Europa odierna è un cumulo di paradossi. Si prenda il suo deficit di consenso popolare e il suo contrastato rapporto con la Russia. Con la tremenda terminologia informazionale, si potrebbe dire che, dal punto di vista ideologico, l’UE è il risultato di una programmazione top-down, analoga alle “rivoluzioni passive” che portarono all’unificazione dell’Italia o della Germania nel secolo XIX, o alla risurrezione della Polonia dopo la prima guerra mondiale. Uno degli ultimi atti di questa programazione è stato il progetto Barroso del 2014 di una “nuova narrazione europea”. Sono stati mobilitati artisti, scrittori e scienziati, per creare con pubblicazioni, dibattiti, siti internet, un movimento nazionale popolare. Peccato però che questa narrazione non sia riuscita minimamente a diventare popolare. I dibattiti legati a quell’iniziativa sono rimasti pura chiacchiera di alto bordo, e il sito internet dedicato ai giovani, per farli interloquire con l’Europa, è ancora presente ma non sembra essere stato recentemente aggiornato. Dunque, per quanto ci si sforzi, l’Europa resta un’idea che piomba dall’alto su “mondi vitali” ai quali chiede di fare harakiri in nome di una isterica costellazione di valori, mercato, concorrenza, cosmopolitismo, sviluppo, razionalità, che finisce per esacerbare il problema che vuole risolvere, ovvero la contrapposizione tra città e campagna, tra urbanesimo e ruralismo, tra modernità e tradizione.

In tutto questo, con la sua ideologia eurasiatistica, la Russia ha buon gioco a proporsi come paladina della tradizione, della campagna, della ruralità. E se questa ideologia non passa in Polonia o in Ucraina, dove domina il secolare nazionalismo anti-russo, più facilmente passa in Ungheria o in Serbia, ma anche nell’Europa meridionale, dove diventa lo sfondo per un approccio simpatetico strumentalmente “commerciale”, esemplificato dal detto secondo il quale i russi sono i napoletani del nord. La minaccia russa è dunque creata dall’Europa stessa, che non solo si aliena da sé nel mercato e nella modernità, ma offre alla Russia il pretesto per permanere nella propria stasi, dove può prosperare la sfacciata oligarchia che, sorta con la dissoluzione dell’URSS, arriva al punto di assoldare per i propri affari un ex-cancelliere tedesco.

Su questo dettaglio si potrebbe ulteriormente ricamare, trattandosi di un ex-cancelliere socialdemocratico. Nel nome del petrolio, i nipotini di Lenin si sono dunque rappacificati con i nipotini del rinnegato Kautsky. Ma veniamo ad un altro paradosso europeo, che ci porta oltre la Manica e al di là dell’Atlantico. Per i conservatori britannici e americani, l’UE è un’istituzione di sinistra, mentre per tanta parte del pensiero progressista e di sinistra, nonostante le sue funzioni di redistribuzione (fondi europei) e il suo sostegno allo stato sociale (per altro sempre più blando), è parte del problema neoliberista, poiché con le sue normative uniformi e le leggi sulla concorrenza rende impossibile l’implementazione pratica delle idee di sinistra. Insomma, se ci fosse una leadership europea pro-lavoro, anziché una pro-finanzcapitalismo, un paese come la Gran Bretagna, dove Jeremy Corbin ha fatto il miracolo di riportare alla vittoria il Labour Party, potrebbe non avere più alcuna ragione di lasciare le istituzioni europee. E questo sta a dimostrare cosa potrebbe essere un’Europa non solo federale, con il suo bravo ministro del bilancio, richiesto con petulante insistenza dai finanzfederalcapitalisti, ma un’Europa anche socialista, con un suo forte e incisivo ministro del lavoro. A questo sarebbe dovuta servire la “dittatura federale” di cui scrivevano Rossi, Spinelli e Colorni nel loro Manifesto di Ventotene. Ma nell’odierna UE, dove si dovrebbe insediare questa dittatura? Esiste già la dittatura della Commissione, guardiana di una democrazia burocratica che ogni giorno che passa mostra sempre più il suo volto ipocondriaco di regime della ricchezza privata. Forse, allora, nel Parlamento europeo? Non certo così com’è. Alcuni, e Habermas fra questi, pensano che bisognerebbe varare delle liste transnazionali, in modo da favorire la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non diverrà mai il luogo degli interessi sociali. E per una tale fondamentale riforma, Habermas addita con debordante entusiasmo il genio politico di Emmanuel Macron1. Ma Macron non è colui che ha assorbito in sé destra e sinistra, proponendosi come l’ennesimo campione della programmazione top-down? Si può davvero pensare che dalla reiterazione di una tale rivoluzione dall’alto possa discendere uno spostamento dell’asse dell’UE dal capitale al lavoro? Ci sarebbe bisogno, dunque, della ripresa dal basso di un salutare conflitto di classe, di cui poi i partiti transnazionali sarebbero la naturale nomenclatura. Ma un tale conflitto è oggi impaniato in un altro dei paradossi europei, il paradosso del “panico demografico”.

Un argomento popolare vuole che un’Europa invecchiata abbia bisogno di immigrati, ma da un lato l’Europa invecchia perché il suo modello economico scoraggia i giovani europei dal produrre e riprodursi, e dall’altro l’accento sull’Europa che invecchia finisce per rafforzare un senso crescente di melanconia esistenziale. Una sinistra ideologicamente rigida fa finta di non vedere, ma ci sarà qualcuno che leggerà la poesia italiana, francese, tedesca o bulgara, fra cento anni? Gli immigrati finiscono dunque per apparire come i becchini dell’Europa, un’annuncio non di vita, ma di morte. E che dire del cosmopolitismo, di cui Schengen è l’emblema frontaliero? Gli urban men e le urban women si sentono a proprio agio nel viaggiare, vivere e lavorare in tutto il continente. Ma coloro che non possono o non vivono all’estero, hanno dei sospetti nei confronti di chi ha il cuore a Parigi o a Londra, il denaro a New York o a Cipro, e la fedeltà a Bruxelles.

Impigliata in queste contraddizioni, che ne sarà dell’Europa? Qualcuno che la sa lunga, paragona l’Europa e gli Stati Uniti con le metà occidentali e orientali dell’antico Impero Romano. L’Occidente implodeva, nel dramma, nella violenza, tra pazzi Cesari; l’Oriente bizantino rimase attivo, burocratico, stanco e prevedibile, per molti secoli. È questa nuova Bisanzio che l’Europa vuole diventare?

  1. J. Habermas, Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa, “la Repubblica”, 28.10.2017, pp. 48-49 []

Trump e il Tao G7 dell’Europa che verrà

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Il G7 di Taormina, come quelli che lo hanno preceduto, e quelli che lo seguiranno, è stato la solita passerella delle case regnanti democratiche, supportate dagli odierni cicisbei, le aziende di moda che colgono l’occasione per celebrare il cattivo gusto di questa sfrontata società dei ricchi. Tuttavia, non è stato un vertice inutile, perché ha messo in evidenza, come mai in passato, le contraddizioni che attraversano il gruppo di testa del capitalismo mondiale, identificato per figura retorica come Occidente. Contraddizioni che, diciamolo subito, fanno ben sperare in un prossimo futuro. Chi maggiormente incarna queste contraddizioni è Donald Trump. Un presidente detestato da tutti i sinceri democratici, cioè da tutto l’establishment che, globalizzando e liberalizzando, ha condotto il mondo nell’attuale palude. Ma detestato anche da tutti i sinceri regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, che vede come il fumo negli occhi ogni misura antiglobalizzatrice che possa mettere in pericolo i suoi floridi commerci. La politica di Trump, che con accuse traballanti i sinceri democratici americani vorrebbero far fuori quanto prima, nei suoi chiaroscuri si sta cominciando a delineare, e il G7 è stato un proscenio ideale per una sua prima rappresentazione.

Come ha mostrato a Taormina, con tutti i suoi atteggiamenti verbali e non verbali, Trump non è affatto contento del crescente peso economico della Germania che, squassando l’Europa, (scandalosamente, la Grecia continua a gemere), non solo mette in difficoltà il suo paese, ma getta la Russia nelle braccia della Cina. Quest’ultima è il secondo attore mondiale di cui Trump vuole contenere l’aggressività economica. La Germania ha avvertito immediatamente il pericolo, e infatti la Merkel, in chiusura del G7, ha già chiamato l’Europa a non fare più affidamento sull’America, e a prendere in mano il proprio destino. Che cosa ciò voglia dire non si sa bene. Sembra solo il monito rabbioso di chi non ha piani alternativi. È facile prevedere che per la Germania si stia avvicinando il tempo in cui dovrà uscire dalla sua comoda posizione di potenza egemone riluttante. Se vorrà essere tale, dovrà farlo a viso scoperto, e le risposte che riceverà non saranno tutte positive, innanzitutto al suo interno, dove la grande coalizione rischierà di trasformarsi in una tomba di ghiaccio, dalla quale i superstiti socialdemocratici alla fine dovranno scappare per non estinguersi del tutto.

Lo stesso si può dire della Cina, le cui merci, spesso dall’infimo valore d’uso, incorporano nel loro valore di scambio uno dei più alti tassi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da parte di una “classe proprietaria”, debitamente allargata, che identifica l’“armonia sociale” con l’eternizzazione del proprio potere assoluto. Se la politica di Trump servirà a scuotere lo Stato che, dopo avere imbalsamato Mao, imprigiona in una nuvola di divieti il “grande spazio” sino-asiatico, avviando uno storico decentramento dalle possibili forme federali, sarà tutto di guadagnato non solo per la libertà, ma anche per l’uguaglianza, che non sia un orpello per promuovere una classe media dai comportamenti (a proposito di ambiente) ancora più consumistici di quella dello storico capitalismo metropolitano.

Tutte queste cose ovviamente Trump non le porta in dono come Babbo Natale. Trump è il plutocrate demagogo che sappiamo, e il suo scopo è di riportare in auge il complesso militare-industriale, di cui in questo momento è il commesso viaggiatore. Un accordo con la Russia, che Trump in ogni modo cercherà di chiudere, verterebbe sicuramente anche su “condivisioni” militari, e altrettanto ai paesi del sud Europa verrebbe offerto su questo terreno una via d’uscita dall’asfissia austeritaria. Ciò ovviamente preoccupa, altrettanto quanto preoccupano gli inarrestabili trionfi in Borsa della Silicon Valley, i cui imprenditori della sovrastruttura hanno fittamente mercificato la vita quotidiana dell’intero pianeta. È innegabile però che il capovolgimento delle priorità globalizzatrici che Trump intende operare riapre, con i suoi “effetti indesiderati”, la partita per tutti gli attori in gioco, grandi e piccoli. Certe dinamiche sarà difficile poterle controllare, e se ne vede già l’esempio in Inghilterra, dove i postumi della Brexit stanno avviando la May, come dicono gli ultimi sondaggi, allo stesso destino di Cameron.

In tutto questo, quale dovrebbe essere il ruolo della nostra cara Italia? L’Italia, che a Taormina ha così diligentemente svolto il ruolo di padrona di casa, dovrebbe staccarsi dalla crescente integrazione economica (manifatture per l’esportazione) e ora anche politico-istituzionale (proporzionale “tedesco”) con la Germania, se avesse una classe governante che ha a cuore l’interesse nazionale. Ma dov’è la borghesia italiana? E mancando la borghesia, si capisce che manchi anche una sinistra degna del nome. Bisogna aspettare dunque che la spinta venga dall’esterno. Dalla Francia, dove Mélanchon ha raccolto una forza che può mettere in crisi il fragile equilibrio cristallizatosi attorno all’esile Macron, la cui unica carta, come si è visto a Taormina, è di baciare la pantofola a Frau Merkel. Dall’Inghilterra, dove la tracotanza dei conservatori può regalare a Corbyn la più onorevole e più salutare delle sconfitte. Dalla Spagna e dal sorprendente Portogallo. L’Europa, insomma, è in fermento, e che l’Occidente tramonti, francamente è affare di Oswald Spengler e dei suoi nipotini. In ogni caso, il domani non sembra risiedere nei paesi dalle colossali economie emergenti ma, senza perciò essere eurocentrici, in quell’Europa dei Gramsci e degli Spinelli, solo per nominarne alcuni, che appare come l’unico posto al mondo dove la ripresa della “guerra di movimento” non sarebbe il grand guignol di massacri e teste mozzate, ma un effettivo avanzamento di forme economiche sociali e politiche realmente nuove.