Giorgio Napolitano

Napolitano e lo sterco dell’Elide

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Nella primavera del 1984, con la scusa dell’alto tasso di inflazione, il capitalismo italiano dette la disdetta alla classe operaia e, per mano di Craxi, presidente del consiglio socialista, procedette con un decreto legge al congelamento di tre punti di scala mobile che si tradussero in un salasso di 20mila lire per i lavoratori. Né poche né molte, ma il punto è che i tre punti erano il segnale politico che la festa del salario variabile indipendente era finita e che si tornava all’ordine. L’opposizione comunista guidata da Berlinguer, un rivoluzionario sin troppo gentile, raccolse la sfida e nel voto segreto in Parlamento il decreto fu bocciato. Craxi da ardimentoso menscevico lo ripresentò tale e quale e qui veniamo all’oggi perché da questo momento in poi entra in scena Giorgio Napolitano, all’epoca presidente del gruppo comunista alla Camera dei deputati. Ecco come il futuro Presidente della Repubblica da poco defunto ricorda quegli eventi di cui fu protagonista anche la sua amica e sodale Nilde Iotti, all’epoca Presidente della Camera: «Iotti arbitra difficili accordi tra maggioranza e opposizione per permettere a quest’ultima di dispiegare le proteste e il dissenso ma, insieme, per evitare che decada anche il secondo decreto. Per garantire cioè – punto cardine della concezione di Nilde Iotti – il diritto-dovere della maggioranza di legiferare». Diritto-dovere, è qui il caso di ricordare, che la stessa Iotti, nel suo discorso d’insediamento alla presidenza, nell’estate ’79, aveva enunciato sottolineando l’esigenza di «tutelare in primo luogo i diritti delle minoranze ma anche il diritto-dovere delle maggioranze, qualunque esse siano, di legiferare». Da notare che la clausola “maggioranze, qualunque esse siano” nella rimembranza di Napolitano scompare. Ma ecco come egli, scrivendo in terza persona nella prefazione ai discorsi parlamentari della Iotti, editi nel 2003 dalla Camera dei deputati, rappresenta lo scontro in corso: «la leadership del Pci preme perché l’iter del provvedimento non sia contenuto nei tempi e nei modi concertati in conferenza dei capigruppo con l’adesione anche del capogruppo comunista il quale è solidale con Iotti dinnanzi ad una pressione che mette a repentaglio la presidenza. Ella non cede, supera la prova, conduce la Camera al voto di conversione del decreto il 18 maggio 1984». Con questa prosa da De bello gallico il “capogruppo comunista” evoca un passaggio cruciale della sua carriera politica che lo vede passare da generale dello stato maggiore comunista a grand’ufficiale dello Stato borghese che nei decenni avvenire servirà con disciplina e onore. In queste giornate di commemorazioni funebri succedute alla sua dipartita si è molto sottolineato il suo rigore morale. Ma nella vicenda che lo stesso Napolitano senza alcuna reticenza ricostruisce è proprio una questione etica che si pone. Egli era uno dei massimi dirigenti dell’opposizione, ma non persegue gli interessi economici, politici e ideologici della parte che gli aveva dato tale mandato, bensì si mette al servizio del principio dell’imparzialità delle istituzioni. Qui non è neppure il caso di aprire una discussione sull’astrattezza di tale principio in un regime borghese, né vale più la pena di rimarcare che l’imparzialità di tale principio di per sé dubbia era già stata ampiamente violata dal decreto craxiano, cosa che la stessa Iotti sembra non voler vedere. Qui si vuole solo rilevare che il “capogruppo comunista” se riteneva che la strategia del suo partito cozzasse contro la sua concezione delle istituzioni avrebbe dovuto dimettersi e andare allo scontro aperto con l’allora leadership comunista. Invece egli, che pure scrive come l’autore del De bello gallico, non varcò il Rubicone e se ne stette al caldo nelle stalle di Augia aspettando che i tempi fossero maturi per divenire il magistrato supremo di una repubblica in cui grazie anche al suo comportamento la classe operaia di cui aveva succhiato la forza politica non esiste più quale organo politico di una società non più ammorbata dallo sterco dell’Elide. Solo il guazzabuglio di cui consiste lo spirito borghese può tirare in ballo la morale per celebrare un sì grand’uomo.

P.S. Naturalmente, da questo discorso resta esclusa tutta la vociferante plebaglia che al colmo della confusione mentale inveisce contro Napolitano il “comunista”.

Oltre

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Un’interessante articolo di Marco Palombi, sul Fattoquotidiano di oggi, pagina 5, ricostruisce il rapporto privilegiato tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, descritto come il più attento guardiano dell’austerity, e l’attuale Ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, classe 1950, ex-comunista antikeynesiano, una volta ricercatore di terze vie tra comunismo e capitalismo, poi approdato alle istituzioni economico-finanziarie internazionali promotrici del corso liberista di questi decenni post-Muro, e quindi convinto sostenitore della funzione del dolore nella vita economica1. In questi personaggi, che si sono abilmente adattati allo spirito del tempo, permane una forte matrice di quella “norma autoimposta” che da Gramsci a Togliatti a Berlinguer ha informato la tradizione comunista italiana. Caduto il fine, però, è rimasto solo un acre moralismo, un’ideologia rinsecchita del disciplinamento sociale, da attuarsi con la sofferenza economica da imporre ai popoli per curarli del loro ribelle edonismo, in ciò confluendo perfettamente nel penitenzialismo del capitalismo assoluto. Così come, per altre ragioni, c’è la necessità di andare oltre il keynesismo, e l’illusione che i keynesiani nutrono che si possa restaurare tale e quale, altrettanto c’è la necessità storica di andare oltre la pur nobile tradizione ideale del comunismo italiano.


  1. E. Brancaccio, Una nota sul mio ex professore Gian Carlo Padoan, pubblicato su www.emilianobrancaccio.it []