Il Ponte sullo Stretto di Messina è il bypass che i dottor Stranamore del capitalismo italiano, nelle vesti dei rustici leghisti saliti a Roma dalla Val Brembana, stanno applicando al suo vecchio cuore ansimante. Esso vuole essere una potente immissione di capitale fisso che, rimettendo in moto il volano del capitale variabile, rianimi l’estrazione nazionale di plusvalore. Che razza di linguaggio è? Semplice. Dagli anni Cinquanta in poi, il vecchio blocco tra rendita agraria del Sud e capitale industriale del Nord, sul cui patto leonino, siglato a detrimento delle popolazioni meridionali, si reggeva l’Unità d’Italia, venne sostituito dall’intervento diretto dello Stato imprenditore. Così, mentre il lavoro con le occupazioni delle terre si batteva per uno sviluppo sociale alternativo, “altrove” in maniera necessaria e indipendente dalla sua volontà si decideva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare divenendo lo strumento per accrescere la quota di capitale variabile dell’intero processo produttivo nazionale. Tramite questa maggiore estrazione nazionale di plusvalore, presentata come un generoso trasferimento di risorse, il Sud veniva destinato a divenire un vasto deposito a cielo aperto di fabbriche, macchinari, infrastrutture, appunto, di capitale fisso la cui realizzazione, nei successivi decenni, avrebbe effettivamente fatto convergere gli indici di “sviluppo” tra Settentrione e Meridione, ma avrebbe annientato le forze del lavoro, le sole in grado di promuovere uno sviluppo autoctono meno effimero di quanto poi si sarebbe rivelata quella contingente convergenza. In parole povere, il Sud in questo modo diveniva un’area destinata a essere nazionalmente produttiva grazie alla sua locale improduttività. Per il pensiero economico dominante queste sono assurde farneticazioni, ma servirsi del pensiero economico dominante per analizzare la questione meridionale negli ultimi cinquant’anni è come farsi luce in una notte buia con una torcia scarica. Basti dire che tale pensiero, per bocca tanto dei teorici quanto dei “pratici”, siano essi sindaci, presidenti di Regione, capitani d’industria ma anche senso comune dominante, continua a esaltare la creazione di capitale fisso con la giustificazione che solo da esso potrà venire lo sviluppo del Mezzogiorno, sviluppo che, come Godot, si aspetta invano da un secolo o quasi. Infatti, le cose non sono cambiate nemmeno quando, dopo la cesura delle privatizzazioni, all’inizio degli anni Novanta, lo Stato ha smesso il suo ruolo di imprenditore diretto. È stato allora che il Sud è entrato in una sorta di coma cui è corrisposta nazionalmente la stagnazione mascherata dall’austerità con cui ci si è comprato il diritto di partecipare all’avventura dell’euro. E qui torniamo all’oggi in cui il vecchio cuore del capitalismo italiano regge a malapena il peso di un’economia esportatrice i cui margini di profitto sono vieppiù erosi da un mercato mondiale in profonda trasformazione e ha quindi il disperato bisogno di rimettere in moto quel volano interno fatto di grandi opere il cui valore d’uso è nullo poiché conta solo la sua capacità di produrre valore di sistema. Il Ponte sullo Stretto bisogna paragonarlo a una piramide. Non serve a niente ma fa girare il capitale. Certo, se fosse portato a termine avrebbe un valore simbolico altissimo e l’Italia morente del XXI secolo potrebbe vantarlo come l’ultimo guizzo “rinascimentale” prima del suo tramonto. Ma nella terra che in ogni epoca concorse con pensieri e opere alla fioritura della civiltà occidentale non ci sarebbe più spazio per una sua specifica filosofia “meridionale” che molti ancora si ostinano a ricercare per salvaguardare e sviluppare tale vocazione civilizzatrice, poiché le sarebbe riservata la stessa fine dell’Egitto, una delle tante stazioni del rigoglioso turismo mondiale governata da qualche capoccia che deve solo far quadrare i conti.